Acquamarina

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«Il Curzel?»

«Eh?»

«Il Curzel della concorrenza?»

«Cosa?»

Nessun come va, stavolta. Beatrice mi si avvicina, mi tocca una spalla. «Ma va'», dice.

Il contatto indesiderato mi fa ritrarre d'istinto. Lavoriamo insieme da tanti anni, ma ho la sensazione che non abbia ancora capito che non mi piace essere toccata. Così come non mi piace la sua tendenza ad avvicinarsi troppo, quando mi parla, al punto che ho la sensazione di sentirmi il suo respiro addosso. I nostri dialoghi, almeno fino a quando non raggiungo la scrivania e frappongo la sua presenza tra noi, sono un continuo fuggire e inseguire.

«Allora?», chiede.

«Allora cosa?»

«Ho capito, eh, perché facevi tutta la scontrosa».

Io no, non ho capito. Non sono scontrosa. Parlare mi piace, anche quando è faticoso, anche quando non riesco a seguire il discorso. Finché ci riesco, finché ne ho le forze.

«Eh», rispondo. È una buona risposta, in genere. Vaga, impossibile da determinare se in senso positivo o negativo. Una risposta che la soddisfa, di solito.

«Ma non è un po' grande, per te?»

Appoggio la borsa sulla scrivania, mi siedo. Ecco. Una prospettiva diversa. La sagoma di Beatrice si staglia contro la luce piena che entra dalla finestra - sono arrivata più tardi del solito, questa mattina - e diventa un'ombra scura e indistinta.

Ci sono tutte le prenotazioni del weekend da ordinare. Fogli sparsi sulla scrivania, ancora privi di un senso logico, e le richieste registrate dal sistema informatico. È un lavoro che mi piace, in cui riesco bene. Riportare masse confuse di dati entro luoghi dove sia facile ritrovarle. Far sì che le stanze non rimangano vuote, che gli arrivi e le partenze siano gestite in modo corretto. Nessun ospite costretto ad attendere, ogni operazione svolta in sintonia. Ancora una volta, piccole accortezze che poi nessuno nota. E che funzionano proprio per questo.

«Proprio non vuoi dirmi niente?»

«Ma di cosa?»

«Ma lo fai apposta? Del Curzel». Ride, o almeno credo che stia ridendo. «Stefano Curzel, hai presente?»

«Ho presente».

Ho presente. Ho presenti le sue mani, le sue dita sottili. La forma allungata del suo naso, la linea perfetta delle sue orecchie. Il suo odore, il calore delle sue labbra. Ma dubito che mi stia chiedendo questo.

«È vero o non è vero, quello che ho sentito dire?»

«Si dicono tante cose».

Non so se avrebbe senso spiegarle che è stata una notte pacata. Una notte senza incubi. Che mi sono svegliata quando il mattino aveva già iniziato a mordere la luce grigia dell'alba. Che il braccio di Stefano era ancora abbandonato intorno al mio corpo, ed era una sensazione piena di calore, piena di dolcezza.

Dubito che a Beatrice interessi. Forse lei è più per il lato pratico. La concorrenza, ha detto. Sì, il lato pratico. Niente di quello che per me ha avuto senso. Non le sue mani che mi hanno insaponato la schiena, e non hanno dovuto sfregare. Non il mio sentirmi pulita, pura, limpida. Sono altre cose, quelle a cui dà peso. Quelle che per me non hanno alcun senso.

Domani tutto il paese avrà da chiacchierare, ha detto Stefano. Il paese non ha niente da fare, dico io. Il paese guarda sempre le cose sbagliate.

Il paese parla di un uomo e di una donna che si piacciono, che passano del tempo insieme. Eppure, era sempre un paese, quello che si girava dall'altra parte e fingeva di non capire cosa si nascondesse in realtà sotto l'apparenza rispettabile del mostro. Un paese complice, che ignorava le tante richieste di aiuto di una bambina. Una cecità selettiva da cui non era mai guarito, il paese. Una cecità selettiva che aveva causato danni quantificabili solo in migliaia di anni. Un danno radioattivo che forse non riuscirò mai a far guarire.

«Va beh», mi dice Beatrice. La vedo finalmente riavvicinarsi alla sua scrivania e riprendere il lavoro. «Tanto so già tutto».

***

Le giornate si accorciano. È una cosa che non amo, in genere. La luce mi piace. La luce divora il grigio.

Eravamo proprio qui, in questo punto. Mi piaci, mi aveva detto Stefano. E mi era sembrato tutto confuso, tutto assurdo, in quel momento. C'era ancora ordine da fare, forse. C'erano ancora questioni da comprendere e questioni da seppellire.

Non ero ancora riuscita a guardare dentro di lui. Mi ero fermata a quello che avevo colto senza sforzo. O magari mi ero lasciata distrarre dalla fatica di interpretare le nostre interazioni.

Mi interessi, mi aveva detto. E cosa cambia, mi aveva detto. Cosa cambia, cosa avrebbe potuto cambiare, la mia natura? Forse avrei dovuto ascoltare con più attenzione, andare oltre l'apparenza. Ma non possedevo ancora questa chiave di lettura. Avevo paura, avevo tutta la paura del mondo. Non sapevo che il suo tocco sulla mia pelle sarebbe stato un fuoco che divora. Che ogni timore sarebbe scomparso, fagocitato dalla necessità di sapere. Che avrebbe rispettato il mio essere. Non potevo saperlo.

Non sono mai riuscita a capire come funzioni, la mia sfera emotiva. Quale sia il meccanismo inconscio che, a un certo punto, abbatte le mie difese. E non so dare un nome ai sentimenti. I concetti rimangono astratti, privi di una forma tangibile. Non sono in grado di definire ciò che ho dentro. Non a parole. Non con le stesse parole che usano gli altri. Non con le parole a cui gli altri sanno dare un senso, forse.

Torno indietro, su, lungo il sentiero. Il lago è bello, sempre bello, con quelle increspature che il tramonto rende quasi violacee. Ma non mi basta, oggi. Non è sufficiente. L'istinto guida i miei passi ad attraversare di nuovo il paese.

Sta ancora lavorando.

Intravedo la sua figura attraverso la grande porta a vetri dell'ingresso. Ed è cambiata così tanto, ai miei occhi. Ho voglia di toccare il suo viso. Voglio sentire la sua pelle arricciarsi sotto le mie dita mentre sorride. Mi tremano le mani.

C'è già gente, nel salone. La solita massa confusa che si addensa e si diluisce in modo vago e casuale. Rumore, odori, suoni, luci violente. Il posto non cambia, il posto è sempre lo stesso. Stefano no. Vedo i suoi occhi trovarmi, il suo viso distendersi, le sue braccia muoversi in un gesto che non colgo, ma che mi sembra accogliente.

Non riuscirei ad avanzare oltre, nemmeno volendo. Sento le lacrime pungermi gli occhi, l'emozione agitarmi il cuore e i pensieri. Mi sembra tutto bello. Tutto, anche la gente ammucchiata intorno a me, anche la luce innaturale, anche il rumore che sovrasta il mio respiro.

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