Ciano

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I lembi laterali del gazebo, di tanto in tanto, sbattono. Deve essersi alzato il vento.

Alla luce violenta del neon, la stoffa cerata diventa una finestra di blu ciano sullo sfondo nero del cielo. Non mi sono nemmeno accorta dello scorrere del tempo, qui sotto. Il lavoro manuale mi distrae, si mangia i pensieri più del resto. Tirare su il cestello, tirarlo giù, svuotarlo, riempirlo. Atti meccanici.

Rabbrividisco. Dodici anni, e ancora continuano a sfuggirmi le dinamiche del clima estivo, qui in montagna. Fa caldo solo quando c'è il sole, mi diceva Lorenzo. E non sono nemmeno del tutto certa di ricordare tempi e luoghi in cui erano calde anche le notti. Come tante altre cose, bagagli mentali che mi porto dietro senza sapere se sono, in un qualsiasi senso, reali. Percezioni che sbiadiscono.

Avrei dovuto prendere una felpa, e soprattutto mettere delle scarpe chiuse. Mi avrebbero impedito di scottarmi, di tanto in tanto, per via degli schizzi di olio bollente, e soprattutto mi avrebbero tenuto i piedi al caldo. Ho i sandali zuppi, a forza di strusciarli sull'erba bagnata. Ma non indovino mai, quando si tratta di vestirsi.

Mezz'ora, dai, e torno a casa.

Non c'è più nessuno che abbia voglia di mangiare pesce fritto, a quanto pare. Sento Franco, alle mie spalle, richiudere le borse termiche con gli avanzi. Un bel segnale. La serata è finita, o, per lo meno, è finito ciò che mi veniva richiesto di fare.

«Andata bene, eh?», chiede Franco, alle mie spalle.

«Sì, sì», sento rispondere. La voce di Alessandra, direi.

I neon sparsi per il prato illuminano gruppetti di persone. Gente che parla, gente che ride, gente che balla. Sembra che le settecento anime di questo paesino abbandonato da non so quale dio sulla cima del monte siano tutte qui, stasera, o quasi.

«Esco un attimo», dico.

«Sì, sì», dice di nuovo Alessandra.

Mi sfilo il grembiule, lo lascio cadere sul tavolo, mi infilo tra le pareti blu del gazebo.

Sì, si è alzato un filo di vento. Mi agita i capelli, porta via un po' della puzza di pesce fritto che continuo a sentirmi addosso, e che continuerò a sentire fino a quando non tornerò a casa.

Vado a sedermi su un muretto, appena fuori dal cono di luce dei proiettori. Sì, sono davvero tutti qui. Li guardo tutti, a uno a uno. Facce note, nomi quasi noti. Quasi tutti, almeno. Forse, se non ci fosse la musica, andrei anch'io a sedermi in mezzo agli altri, magari in un angolo meno affollato, magari su una panchina vuota per metà. Per il calore, più che altro.

«Tu non vai a divertirti?»

Franco, quando chiede qualcosa, non lo fa mai davvero. Senza aspettare una mia risposta, infatti, si siede poco lontano da me e tira fuori una delle sue eterne sigarette.

«Mh», faccio, poco convinta, più che altro perché so che non rispondere a una domanda è considerato maleducato.

«Parecchia gente, eh?»

«Mh.»

«Ah, non male», dice, e accende la sigaretta. «Non male.»

Resta in silenzio per un momento, e non è nemmeno un vero silenzio, con il vociare e la musica di sottofondo. Sono stanca, mi fanno male le braccia e le gambe, e ho freddo. Troppi rumori. Troppi odori. Troppe persone. Non riesco a capire quale tra queste cose mi abbia stancata di più, oggi.

«Pensavo di andare», dico, «se non c'è altro da fare.»

Franco rimane in silenzio ancora un istante. Daresti un'occhiata alla cassa, prima?»

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