A noi due va sempre tutto bene, diceva Lorenzo.
Ho sempre creduto che se ne prendesse il merito, che vivesse la sua presenza al mio fianco come un modo tutto suo di imporre un diverso ordine al mondo. E forse, per un certo periodo, e forse anche per un lungo periodo, è stato davvero così.
Centosettantanove passi dall’ultimo gradino fino alla piazza del paese.
Andava tutto bene. Era felice, ero felice. A volte, le due cose procedevano anche in modo indipendente. Avevo ripreso il controllo sulla mia vita, ammesso che lo avessi mai avuto, prima di lui. Le cose avevano iniziato a funzionare. L’università, lo studio, il lavoro. Sembrava essere diventato tutto facile, talmente facile da spingermi a chiedermi come fossi potuta annegare per anni dietro alle piccole questioni dell’esistenza.
Poi si svolta a sinistra, e la strada in discesa è lunga duecentosette passi – duecentoventinove, al ritorno in salita.
Se ne prendeva il merito per una ragione ben precisa: era vero.
A noi due va sempre tutto bene. Sì, diceva proprio così.Forse era per questo che dopo, dopo, quando il noi non esisteva più, aveva ricominciato tutto ad andare male. Il bene, evidentemente, gli apparteneva.
Ancora una svolta a sinistra. La strada procede in leggera salita, ed è lunga. Ottocentonovantadue passi. Se li conto tutti sulle dita, sono costretta a ricorrere alle potenze di due per non perdere il filo.
A noi due va sempre tutto bene.
Suppongo sia una cosa da ragazzine, conservare le frasi delle persone. Credo di aver visto delle ragazze farlo, almeno. Io no, mai fatto. Sul mio diario annotavo le parole di cui volevo imparare il significato, quelle che sentivo dire dalle persone che avevo intorno. Le memorizzavo con un certo orgoglio. Peccato, però, che fossero parole che le persone ignoravano, per la maggior parte.
Ricordo un viaggio in treno, una volta. Un libro da leggere, un grosso mattone di certo inadatto alla mia età, adulti che discutevano intorno. Traumhaft, avevo scritto sul quaderno. Tomentoso. Abluzione. La scoperta deludente dei significati, una volta arrivata a casa e controllato sul dizionario. Eppure, nonostante la banalità di espressioni come fantastico, peloso, purificazione, le parole scritte sul diario avevano tutto un altro sapore. Me le gustavo tutte, a una a una.
A destra, in fondo, appena prima che la salita si faccia ripida. C’è una fontana che deve essere attivata da una pompa a braccio. C’è una placca di metallo argentato dove attaccano i manifesti funebri. Lì, proprio lì, si gira a sinistra, si imbocca un sentiero agricolo asfaltato solo in parte. Altri settecento passi. Settecentodiciassette, per la precisione, senza voler approssimare di più del due per cento.
A mia madre non piaceva, diceva che parlavo in modo strano. Lo diceva anche la maestra, e ogni tanto, sicura che io non la ascoltassi, suggeriva a mia madre di portarmi da uno psicologo. Credo che intendesse psichiatra, ma lei aveva una certa tendenza a utilizzare le parole in maniera poco precisa. Mia madre si è sempre ben guardata dal farlo.
Tabellione. Esattore dell’impero romano. Rebbi. I denti della forchetta. Ammucchiavo diari su diari. Le rubriche telefoniche, poi. Immagino sia difficile catalogare le citazioni delle persone in ordine alfabetico. Ma suppongo che questo non abbia rilevanza, per chi le colleziona.Lorenzo diceva tante cose. Avrei potuto riempirci molti più diari che con le singole parole. Eppure, adesso, non ne ricordo più molte, di frasi celebri. Frammenti vaghi di una canzone contenente la parola ananas, che lui cantava ogni volta che mangiava la macedonia. Non saprei cantarla, ormai, nonostante un tempo fosse una di quelle piccole cose che mi faceva sempre piacere prevedere. Forse, dopo un certo periodo, certi dettagli tendono a cancellarsi, non saprei.
STAI LEGGENDO
Blu
RomanceRicominciare non è mai facile. Una piccola storia d'amore che sfiora il meraviglioso e complesso mondo dell'autismo.