Pavone

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Sono io a non andare bene. Io, non gli altri.

Centoquarantanove. Non sono mai riuscita a capire le intenzioni degli uomini. Degli esseri umani, in generale, ma degli uomini in particolare.

Ne ho sempre avuto paura. Una bambina che cresce all'ombra del mostro non può fare altro che diventare una donna che ha il terrore degli uomini. Autoconservazione. Una tuta protettiva contro le radiazioni.

Duecentodieci. Sono difese effimere. Perché non proteggono dal complimento volgare, dalla mano che si fa avanti senza un consenso, dalla spinta affrettata contro una parete. E il mostro si nasconde dietro, sbircia e ride della mia paura. Ride, perché sa che non riesco a difendermi.

Duecentosessantuno. Non riesco mai a decifrare le intenzioni. Mai. Misuro sempre tutto con il mio metro, quello che calcola male le distanze. Non sono in grado di decifrare le condizioni sconvenienti. Non colgo i doppi sensi, se non a posteriori. E, inevitabilmente, finisco per chiedermi come sia stato possibile non capire, ritrovarmi ancora una volta alle prese con le mani addosso o con le strette contro la parete, o con le parole che non vorrei ascoltare.

Trecentododici. Non me ne accorgo mai. Non me ne rendo mai conto.

È che tu ti innamori di tutto, mi diceva Lorenzo. Di tutto, non di tutti. Ma la differenza, per le persone, spesso è labile.

Le persone, quando le incontro, ai miei occhi sono sempre universi affascinanti. Non è una questione di bellezza, perché non sono in grado di cogliere l'aspetto esteriore nella sua completezza. Vedo solo i dettagli, senza mai riuscire ad avere un'idea dell'insieme. Ci sono occhi grandi e profondi, mani curate, labbra sottili, piccole rughe. E i dettagli sono sempre belli. Non è nemmeno questione di genere, perché i punti di vista mi interessano sempre, e la mia natura non ha ancora elaborato una distinzione sensata tra ciò che è maschile e ciò che è femminile.

Le persone mi piacciono e basta. Mi accosto sempre con timore, ma anche con fiducia. Le ascolto perché sono interessanti. Adoro sentire nuovi punti di vista, nuove prospettive. Sono felice di apprendere dagli altri le cose che ancora non conosco.

Le persone non sono abituate a sentirsi ascoltate, diceva Lorenzo. Non so se sia vero.

Ottocentoventidue. Stefano cammina a passo svelto, più che all'andata. Io ancora non ho detto nulla.

Ottocentotrenta. Mi fermo.

Ottocentotrentuno. Ottocentotrentadue. Ottocentotrentatré. Ottocentotrentaquattro.

Stefano si accorge che non lo sto seguendo. Si volta.

«Luna», dice. E torna indietro di quattro passi, verso di me. «Tutto bene?»

«No».

«Che succede?»

«Sono io».

«Cosa?»

«Sono io a non andare bene».

«No», dice. E forse vorrebbe dire altro, ma si interrompe, e mi sovrappongo.

«Non mi conosci», dico. «Non vado bene. Non per te e basta. Non per te in modo specifico».

«Non per me?»

«Litoti. Un dialogo fatto di litoti non è un buon dialogo».

«Non ti capisco».

«Litote, ancora.»

«Cos'è?»

«Continuiamo a parlare per negazioni».

«E cosa significa?», domanda.

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