Cobalto

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Ero riuscita a chiudermi alle spalle la porta del mio minuscolo bilocale soltanto nel tardo pomeriggio.

Avevamo incastrato nel bagagliaio anche gli ultimi scatoloni. C'era voluto più tempo di quanto non pensassimo, a finire tutto. E la proprietaria dell'appartamento si era fatta aspettare per un paio d'ore, prima di venire a riprendersi le chiavi. Ma, all'epoca, ancora non importava.

Lorenzo era felice. Il lungo viaggio non gli pesava affatto. Aveva parlato con entusiasmo per tutto il tempo: il lavoro, il posto, i colleghi così simpatici. A me si era serrata la gola, non riuscivo a dire nulla.

Quando le montagne avevano cominciato a delinearsi all'orizzonte, il sole stava già tramontando. Ed era quasi del tutto buio quando la strada aveva iniziato a passare nella stretta valle tra i monti. Le cime apparivano scure, nel cielo plumbeo. Sembravano minacciose. Mi toglievano il respiro.

Tutto il resto era successo di notte. Lorenzo mi aveva indicato nell'oscurità qualcosa che non sarei mai riuscita a mettere a fuoco. Qui c'è il lago, mi aveva detto. Qui c'è il bosco. Eravamo arrivati nel paese dopo una serie interminabile di curve. Pochi lampioni, luci soffuse, nessuno per strada.

L'appartamento era fresco e profumava di nuovo. Alla luce di una torcia - non avevamo ancora l'attacco per l'energia elettrica - eravamo saliti nella nostra camera da letto. Il materasso era avvolto nel cellophane. Nuovo, mai usato. Lorenzo continuava a parlare. Al buio non rende, diceva. Ti piacerà, diceva.

Il paese, all'inizio, mi spaventava. Mi ricordava troppo, almeno come idea, il piccolo borgo nella campagna toscana dove sono cresciuta, tra poderi all'antica e galline, figlia unica di due ragazzi meridionali che, troppo giovani, si erano ritrovati sposati e con una bambina da crescere. Non posso dire che la mia infanzia sia stata felice. E tornare a vivere in una comunità chiusa mi terrorizzava, letteralmente. Ma di soldi, io e Lorenzo, non ne avevamo, e in città non ci saremmo mai potuti permettere di prendere un appartamento in affitto. Io mi ero appena laureata, lui lavorava da un paio di settimane soltanto. Era stata una necessità, più che una scelta. Una cosa temporanea.

Poi ho iniziato a lavorare in uno dei due alberghi del paese. Un lavoro con l'altisonante nome di responsabile e mansioni da segretaria, uno stipendio dignitoso e poco contatto con il pubblico. L'ideale, per me. Forse è per questo che non ho mai cambiato.

Nel momento stesso in cui sono entrata a far parte della comunità, mi sono sentita accolta. Immagino che questo possa suonare banale, eppure è quello che è successo. Il paese è diventato a poco a poco il mio cuscinetto, una zona sicura entro cui le relazioni sociali, per me solitamente faticose, diventano rilassate e semplici da gestire. Vado in città solo se serve, per gli incontri mensili al Centro e poco altro, e mai a mio agio. Vivo sempre con grande sollievo il momento in cui, dopo la solita interminabile serie di curve, l'ultimo autobus della sera arriva all'unica fermata del paese.

Sono pochi minuti a piedi, poi. I visi che incontro non mi spaventano. Tutti salutano, io mi ricordo di salutare tutti. Qualcuno va oltre e si ferma per scambiare due parole. Niente a che vedere con il posto dove sono cresciuta, il posto dove il mostro viveva proprio di fronte alla piccola casa sopra la stazione, proprio di fronte a me, e tutti giravano la testa dall'altro lato. No. Qui è diverso.

«La solita?» mi chiede Irene, non appena mi vede entrare.

Annuisco. «E una mezza birra mentre aspetto».

Irene. No, forse non è lei. Continuo a confonderla con la sorella. Non credo di ricordare il nome dell'altra. Ho una pessima memoria per nomi e visi.

In paese c'è una sola pizzeria, che in realtà fa anche da bar e da pasticceria. Irene e sua sorella mi conoscono e non fanno mai domande. Mi portano il mio caffè macchiato, se è mattina, o la mia pizza con i pomodori freschi, se è sera. Non serve dire altro. Niente chiacchiere futili, niente formalità che mi affaticano e non hanno alcuno scopo.

«Ciao», sento dire. Una mano mi tocca la spalla.

Sobbalzo. Odio essere toccata. Forse mi scanso troppo bruscamente, o troppo in fretta. Mi giro allarmata. Stefano. Non mi ricordo di salutare.

«Scusa, non volevo spaventarti».

Ha ritratto la mano, la tiene vicina al petto. Credo che non si aspettasse di vedermi reagire così.

Cerco una risposta plausibile. «Ero soprappensiero», dico. Spiegarmi sarebbe troppo faticoso.

«Pizza?», mi chiede.

Le domande ovvie mi infastidiscono. «Sì. Anche tu?»

Annuisce. «Stasera in albergo c'era il pesce. Non ne voglio più sentir parlare, dopo sabato. Mi sento ancora la puzza addosso».

Questo lo capisco. Succede anche a me. Faccio un cenno con la testa.

«Sei sola? Ti spiace se mi siedo?»

Un po' mi spiace, a dire il vero. Ho bisogno di stare da sola, dopo la giornata passata in mezzo alle persone, dopo la riunione e le persone nuove, dopo il rumore e la velocità della città. Ma suppongo che sarebbe scortese dirlo.

«Accomodati».

Stefano sposta con cura la sedia, senza farla strusciare a terra. Si siede, poi fa un cenno a Irene, o forse alla sorella di Irene.

«Non mi piace molto mangiare da solo», mi dice.

«Stasera non mi sento molto di compagnia», rispondo.

Non mi aspetto che colga il messaggio. Eppure, sembra farlo. Noto che si è tirato indietro sulla sedia, istintivamente, come a lasciare il maggiore spazio possibile tra noi.

«Preferisci che vada?», mi chiede.

Lo guardo per un istante. Ha gli occhi fissi nei miei, sembra scrutarmi. Si tende appena in avanti, come se fosse pronto ad alzarsi.

«No, no», dico, a voce bassa. Ho la sensazione di pensare al rallentatore. «Solo, non so se riesco a parlare».

«Resteremo in silenzio», risponde.

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