Notte

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Alcune notti sono eterne.

Mi si appiccicano addosso, come una colata di pece. E sono notti di non dormire, di pensieri che si rincorrono e di rumore assordante. Nella penombra della mia stanza, appoggiata alla testiera del letto, guardo i giochi di luce che i lampioni e i fari delle auto proiettano sulle pareti.

Diciotto assi di legno. Diciotto a destra, diciannove a sinistra. Le travi accompagnano il tetto spiovente verso la porta.

Beethoven. Sinfonia n. 5.

La ascolto a ciclo continuo, seguendo con le dita sul copriletto il ritmo della musica.

Tutti i colori sembrano grigi, al buio. È un colore che mangia tutti gli altri. Il copriletto sembra grigio. Beethoven no, non è grigio. Beethoven lava via i pensieri.

Dovrei dormire. Vorrei dormire. Ma nei sogni si rincorrono gli incubi, e non riesco a lenirli, da sola. Beethoven porta via la paura che qualcuno entri dalla finestra del soggiorno. Che il mostro mi trovi ed entri dalla finestra del soggiorno.

I pensieri ripetitivi perdono il loro senso. Cerco di scomporli in parole, in sillabe, in lettere. Le lettere, da sole, non hanno significato. Anzi, significano tutto. Posso combinarle come voglio. Posso trasformarle.

Lorenzo.

Lorenzo non è più la figura calda e accogliente che si prendeva gli incubi. Lorenzo ha l'eco. Ha un'eco dalla voce femminile che ripete le sue parole e ne porta via il senso.

Forse dovrei seppellirlo. Seppellire la mia idea di lui, i miei ricordi. Non ha senso proiettare nel presente qualcosa che non esiste più. Qualcosa che non esisterà più. Accettare che è stato e che non sarà, che ha lasciato qualcosa dopo essere passato. La realtà. Quanto odio la realtà.

Quattro linee musicali che si fondono. Cerco di scinderle, di ascoltarle separatamente e di ritrovare il punto in cui diventano una sola. Quanta magia nella musica. Quanto dolore nella notte.

Il sarcofago di contenimento della centrale di Černobyl' è durato vent'anni. Era una struttura di cemento armato, assemblata alla meno peggio da robot ed esseri umani. Dentro, il corium continuava instancabile a corrodere il suolo. Penetrava, sprofondava, annientava e assimilava ciò che sfiorava. Tramutava elementi comuni in elementi radioattivi. Non c'è cura per la radioattività. A parte il tempo. Ma è un tempo che si approssima all'eternità.

E Lorenzo ha l'eco.

Lorenzo che non è più Lorenzo.

Ci vorrebbe un nuovo sarcofago. E dovrei metterci dentro anche lui. E chiudere tutto, lasciare che il corium disintegri, fino a quando non sarà disinnescato.

Dormo a tratti, quando il sonno si fa più forte della mia volontà.

Recuperare la parte elementare del mio corpo. Cibo, sonno, pulizia. I bisogni essenziali.

Il bambino. Forse il bambino sarebbe dovuto rimanere. Era stato quando se n'era andato, che i sedimenti avevano iniziato a intorbidire l'acqua. I silenzi si erano fatti più spessi, si erano moltiplicati, avevano lentamente annientato la voglia di parlare. Ci eravamo rinchiusi in noi stessi. Io con il mio dolore, Lorenzo con il suo. Due sfere rigide e incommensurabili.

Eco è diversa. Eco ha un ventre accogliente e modi gentili. Eco è una donna e fa la donna. Le donne sanno fare le madri.

Proviamo un'altra volta. Solo un'altra volta, mi aveva detto.

Non avevo voluto. Era stato troppo doloroso, troppo pesante. Percepivo il mio corpo vuoto e svuotato, una mancanza fisica e mentale. Il bambino già esisteva, per me. Era già davanti a me, occhi spalancati e manine appiccose, e non sarebbe mai stato. Cose che non sarei mai riuscita a spiegare. Nemmeno a Lorenzo.

Le cose – ogni cosa – conosce un solo stato, quando si parla di realtà. Le cose esistono o non esistono. Ci sono o non ci sono. Le sfumature, gli universi paralleli, le questioni immaginarie, sono concetti che non appartengono a ciò che è vero. Ma troppe cose che sento mie galleggiano in questo limbo. Lorenzo, che esiste eppure non esiste più. Il mio bambino, che non esiste più eppure esiste.

Satie. La Gnossienne che si insinua tra le note di Beethoven, dando vita a un ibrido che non saprei definire.

La luce del display mi distrae. Guardo per abitudine, più che per curiosità.

Sono le due di notte. Sono le due di notte e Lorenzo mi sta chiamando. Forse non dovrei rispondere. No. Molto probabilmente non dovrei rispondere.

«Pronto?»

«Sei ancora sveglia?». Domanda retorica. Non rispondo. Un lungo attimo di silenzio. «Che succede?», mi chiede.

«Non lo so», dico.

«Scram?», chiede ancora.

Le dita percorrono più in fretta i ricami grigi del copriletto grigio. Gli occhi bruciano. Non riesco mai a trattenere le lacrime, quando qualcuno capisce il mio malessere.

«Scram».

«Sei da sola?»

«Sì».

Un altro lungo attimo di silenzio. «Mi dispiace. Mi dispiace davvero. Non potevo fare altrimenti. Lo capisci, questo? Stavo male. Non potevo fare altrimenti».

«Lo capisco».

«Non ho mai voluto farti del male. Questo lo capisci?»

«Lo capisco».

«Vuoi che venga da te?»

«No».

Mi accorgo solo adesso di quanto sia bassa la sua voce. «Sicura?»

«È stato il bambino?»

«A fare cosa?»

«Ad allontanarci».

Sento il suo respiro sul microfono. Una, due, tre volte. «Forse sì», dice.

«Stavo male».

«Stavo male anch'io».

«Non riuscivo a vederlo», dico.

«Non riuscivamo a vedere più nulla», mormora. La voce bassa mi raschia le orecchie.

«Tutto grigio», dico.

«Sicura di non volere che venga lì? Resto solo un po', finché non passa».

«Sicura».

«Mi dispiace che siamo riusciti a parlare solo adesso».

«È tardi, adesso. C'è l'eco. Lo so».

«È tardi, sì». Sospira. «Davvero non volevo farti male».

«Lo so».

«Hai bisogno di parlare?»

«Non ci riesco».

«Luna», dice. «Guarda che sono qui. Anche se non stiamo più insieme, puoi sempre parlare con me».

«Non è la stessa cosa».

«No, non è la stessa cosa. È un'altra cosa».

«Non mi piacciono le cose che sono altre cose».

«Lo so. Ma non posso farci niente. Non posso cambiare le cose».

«Il modale», dico.

«Hai ragione. Non voglio cambiare le cose. Vorrei che tu stessi meglio, questo sì».

«Lo vorrei anch'io».

«Immagino. Guarda che puoi farlo».

«Il tempo di dimezzamento dell'uranio supera i quattro miliardi di anni».

«Lo so. Ma pensa all'Uomo Radioattivo».

«L'Uomo Radioattivo non esiste».

Sento ancora il suo respiro. «La scelta è tua, se farlo esistere o meno».

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