Elettrico

150 26 41
                                    

Elettromagneti.

L'acqua scorre.

Gli elettromagneti lasciano cadere le barre di controllo all'interno del nocciolo.

L'acqua non è abbastanza calda. Non è mai abbastanza calda. La spugna strofina e lascia una scia di schiuma bianca sulla mia pelle.

Le barre di controllo arrestano la reazione nucleare.

Le pareti della cabina sono tutte appannate. Ci passo sopra il dito e scrivo delle lettere.

SCRAM.

Non ho idea di quanto tempo io abbia passato sotto la doccia. Minuti, credo. Abbastanza da appannare lo specchio e lasciare lente scie di condensa sulle piastrelle del bagno.

Le barre di controllo della centrale di Černobyl' avevano gli estensori di grafite.

Apro la finestra e lascio che il vapore caldo si disperda fuori. Una variazione significativa nella temperatura e nella qualità dell'ossigeno. Devo essere rimasta sotto la doccia troppo a lungo.

La grafite ha fatto da accelerante, nella prima fase.

Non ricordo nemmeno come abbia fatto a tornare a casa, a dire il vero. Non riesco a riportare alla mente le parole che devo necessariamente aver detto, o i gesti che devo aver fatto. Ho percorso a passi svelti la strada dalla piazza a casa, questo sì. Le scale, tante scale, e il buio che, paziente come sempre, mi aspettava. E il bisogno di lavarmi. Sì, quello lo ricordo.

Elettromagneti. Gli elettromagneti sarebbero stati più efficienti.

Si chiama shutdown, in gergo tecnico. O così mi ha spiegato la dottoressa Andriano. E mi ha fornito anche una definizione noiosa e normotipica piena di parole sbagliate e di espressioni insensate. Normotipica, sì: fatta per spiegare alle persone normali come si comportano le persone diverse. Una sorta di manuale di istruzioni.

È più semplice di così, in realtà. Niente a che vedere, per me, con parole strane e definizioni statiche di comportamenti tutti uguali. È che c'è tanto rumore, e allora si deve creare il silenzio. Ci si deve allontanare. È un bisogno, un bisogno assoluto. Chiudere gli occhi, concentrarsi sul ritmo del respiro e su qualcosa che restituisca un po' di pace. Cacciare via il rumore. Avviene tutto in automatico, un meccanismo di difesa spontaneo. Elettromagneti che lasciano cadere le barre di controllo. SCRAM.

Il letto, finalmente. Sono molto stanca, stasera. Svuotata, direi. Sotto il cotone fresco delle lenzuola, sento il bruciore tenue della pelle in tutti i punti dove ho strofinato troppo con la spugna. È fastidioso. Terribilmente fastidioso. E non ricordo di averlo fatto.

Credo che il mio telefono stia squillando, nel soggiorno. Squillare, poi, non è nemmeno la definizione giusta. Una Gnossienne di Satie non squilla. Ne ascolto le note, distanti, ovattate. Sono belle. Sono armoniche nel loro sembrare sempre fuori tempo, perennemente in ritardo.

Certo che è insistente.

Non potrei rispondere nemmeno volendo. Una procedura d'emergenza non è una cosa da prendere alla leggera. La radioattività del nocciolo, barre di controllo o no, fa paura.

La nausea è il primo sintomo dell'avvelenamento da radiazioni.

***

La mattina è fresca e impietosa. E, nel momento in cui ho smesso di essere una bambina problematica e sono diventata un'adulta funzionale, ho rinunciato a seguire il mio istinto e mi sono rassegnata alle convenzioni sociali. O forse al superamento del baratto e a logiche da capitalista. Ma rimane il fatto che esco di casa e vado in ufficio. E questo nonostante il manuale della dottoressa Andriano non preveda niente di simile.

Mi piace andare presto al lavoro. Arrivare e attraversare la hall prima che gli ospiti mattinieri si riversino nell'enorme sala da pranzo per la colazione e affollino l'ingresso con le valigie e le borse sparse qua e là nel giorno della ripartenza. Mi piace la sensazione di pulizia dei tappeti rossi e bianchi lavati ogni sera, i pavimenti ancora lucidi e la reception in ordine.

Beatrice mi fa un cenno di saluto, non appena mi vede entrare. Mi segue nel mio ufficio senza nemmeno aspettare che mi sia seduta alla scrivania.

«Come va?», mi chiede. Ma sono quasi certa che sia una forma di saluto.

«Mh», rispondo, perché la verità non avrebbe senso.

E infatti Beatrice sorride – uno di quei sorrisi che si limita a sollevare gli angoli della bocca – e aspetta che io continui a parlare. Suppongo, per esperienza, che vorrebbe sentirsi fare la stessa domanda. E la farei, se fossi in grado. Per farla contenta, più che altro, visto che per me è un rito privo di significato.

«Sai dove sono stata ieri?», dice, quando si stufa del mio silenzio.

«Mh».

La ascolterei, normalmente. Ascolterei il suo racconto cercando di prestare attenzione ai cambiamenti nel suo tono di voce, nella mimica e nei gesti. Conterei quante volte ripete certe parole, e analizzerei i modi di dire con cui farcisce le sue espressioni per veicolare questo o quel significato. Ma è un esercizio estenuante, e io sono già stanca.

La guardo come se fossi al cinema e lei fosse un'attrice. Non riesco a seguire il discorso, né a osservare tutte le espressioni che transitano per qualche istante sul suo viso e poi spariscono.

Non mi piace essere distante. Non mi piace ignorare. Cerco di mettere a fuoco, di concentrarmi.

«Lorenzo, con quella...»

Chiudo gli occhi.

Sarebbe stato meglio non ascoltare affatto.

«Scusami, ma dovevo proprio dirtelo», continua Beatrice. E si ferma, come se ancora aspettasse una mia risposta.

Apro gli occhi. Il viso di Beatrice è corrucciato, fermo davanti al mio. Perfino troppo vicino.

«Perché non dovrebbe uscire con la sua compagna?», chiedo.

«Devi starci ancora male, lo capisco».

«Non è per quello, che sto male».

«Comunque lei davvero non è un granché».

Sono già stanca. Sono già infinitamente stanca. «Nemmeno la conosci», le dico.

Accendo il computer. Avrei dovuto farlo prima. Conto i secondi che il sistema operativo impiega ad avviarsi. Troppi. Troppi.

Beatrice continua a fissarmi. Immagino che il mio comportamento debba sembrarle strano, ma non mi importa.

«Ci hai ripensato?», mi chiede.

Non riesco a capire cosa intenda. «Eh?»

«Dai. Smetti di essere a lutto e vieni con le mie amiche, venerdì?»

«Non sono a lutto».

«Devi fargli vedere cosa si è perso, no? Pensa se ti vede, e se si rende conto!»

Sorride, Beatrice. Tiene una mano appena sollevata e sorride. Ed è un attimo significativo, per me. «Non voglio che cambi idea», le dico, senza pensare. Sono parole che nascono spontanee.

È vero. Non voglio che torni da me. Ho smesso di volerlo. Quando, non lo so. Ma ho appena messo a fuoco che ho trascorso una notte con i miei incubi, con le mie paure, con il mio bisogno di assoluto silenzio, e l'ho potuto fare in pace. Senza dover dare spiegazioni, senza sentirmi inadeguata, senza gli inevitabili sensi di colpa di chi sente di gravare sugli altri. Ero sola con me stessa, e me la sono cavata. Ero io, e mi sono bastata.

BluDove le storie prendono vita. Scoprilo ora