Klein

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Sonata n. 14. Mai capito perché la chiamino Sonata al chiaro di luna.

La strada verso il lago è costellata di piccole pozzanghere fangose. Piove ancora. Ancora quella pioggia sottile, sembra eterna. La Sonata suona incessantemente nelle mie orecchie. È uno di quei brani che non ho bisogno di riascoltare, perché vive dentro di me, ne conosco ogni minima sfumatura. Le dita che sembrano esitare sul pianoforte, che scompongono il ritmo, che lo spezzano.

Si adatta al momento.

La pioggia che cade sul lago non ha affatto un aspetto lugubre. Il lago non è mai grigio, nemmeno quando il cielo lo è. Il lago si mangia la pioggia, in minuscole increspature. È così bello. Così bello.

Mi siedo su un grosso sasso. Mi tolgo le scarpe, metto i piedi nell'acqua. È fredda. Sento freddo. Il sasso è bagnato, mi piove addosso. Le sensazioni elementari. Sentire significa essere viva. E io sono viva. La marea è passata, io sono rimasta, sono rimasta intatta. Già questo, da solo, sarebbe un buon motivo per essere felice.

Potrei piangere, adesso. Un bel pianto liberatorio, commozione più che pianto. Potrei piangere e poi addormentarmi, qui, sul sasso bagnato, con i piedi nell'acqua fredda. Sarebbe bello, come il lago. Come l'acqua che mi scorre addosso e scorre addosso alla terra. Ma mi rimetto le scarpe e torno indietro lungo il sentiero. Voglio andare a parlare con Stefano.

Non c'è nessuno, oggi, nel giardino sul retro dell'albergo.

Hanno già iniziato a servire la cena. I turisti, in gruppetti, sono sparpagliati nell'ingresso e nel salone. Il rumore dei piatti e delle voci crea un frastuono difficile da sopportare. E le luci violente non aiutano.

La dottoressa Andriano la chiama ipersensibilità. Dice che di solito siamo iposensibili o ipersensibili. È così brava a trovare le risposte sul suo manuale, la dottoressa Andriano. Una volta le ho chiesto se queste siano caratteristiche peculiari e specifiche delle persone autistiche o, piuttosto, aspetti comuni delle persone. Non credo abbia colto. Rimane il fatto che i rumori e le luci mi mettono a disagio. Le orecchie mi fischiano, i sensi mi si annebbiano, gli occhi mi bruciano. E non è una situazione favorevole a un dialogo, di qualunque natura esso sia.

Mi faccio strada nel salone, cercando di tenermi abbastanza in disparte.

Stefano sta parlando con due persone. Gira la testa, mi vede, resta fermo per un attimo. Lo guardo fare qualche cenno e poi avvicinarsi.

«Luna», dice. Mi osserva. «Tutto bene?»

«Sì».

Continua a osservarmi. «Sicura?». Non dico nulla, perché non capisco cosa dovrei rispondere. Lui esita un momento. «Sei venuta senza ombrello?», chiede poi.

Istintivamente, mi passo una mano sui capelli, sui vestiti. Sì, il freddo che sento è perché tutto è zuppo d'acqua. «Sì».

Rimane in silenzio. So che i silenzi nascono della mia incapacità di rispettare i turni dialogici. Dovrei dire qualcosa. Il motivo per cui sono venuta, magari. Ma ho la sensazione che il freddo sia sceso su di me tutto insieme, e che la testa inizi a pulsarmi.

«Cercavi Alessandra?», mi chiede.

«No», rispondo. «Volevo parlare con te».

«Dimmi».

Chiudo gli occhi. Cerco di allontanare almeno la luce. «Non so se ci riesco», dico.

«Perché», dice. E non è una domanda, nemmeno questa volta.

Non voglio dare adito a fraintendimenti. Non adesso. Diventerebbe una coltre troppo spessa, dubbi che si sedimentano su altri dubbi. «Non riesco a parlare. Troppo rumore, troppa luce», dico.

Vedo che sei impegnato. Torno in un altro momento.

Questo, dovrei dire. Solo questo. Sono le parole giuste, quelle che non creano complicazioni, quelle che funzionano. Eppure, non riesco. Mi sforzo di riaprire gli occhi. Lo ritrovo immobile, impegnato a fissarmi, come se stesse cercando di capire cosa fare.

«Dammi un attimo», dice.

Si volta, lascia scorrere lo sguardo nella sala, a destra e a sinistra. Sta cercando qualcuno, credo.

«C'è tanta gente. Magari facciamo un'altra volta», dico, quando finalmente riesco a dar forma alle parole.

Lui scuote la testa. «No, facciamo adesso», risponde. Torna a girarsi verso di me. «Hai cenato?», chiede.

«No».

«Tra un'oretta dovrebbe esserci meno gente. Mangiamo qualcosa qui?»

Trattengo il respiro. «Non ce la farei», mormoro.

«A fare cosa?»

«A parlare». La mia voce è talmente bassa che dubito riesca a sentirmi. «Il rumore. Ti prego».

«Ho capito, adesso», dice. Sospira. «Senza rumore. In un posto senza rumore».

«Sì. Allora sì».

«Tra un'ora. Va bene?»

«Va bene».

Stefano solleva un braccio, come se volesse toccarmi, ma si ferma a metà. Devo essermi ritratta, istintivamente. «Grazie», mormora.

Non penso che abbia un motivo per ringraziare. E non so se sia necessario rispondere. Alzo appena una mano in un cenno di saluto. Torno a casa. Il freddo mi morde la pelle. La pioggia sembra persino tiepida, rispetto ai vestiti che porto.

È già buio, stasera. Il cielo scuro non aiuta, suppongo. I lampioni cominciano ad accendersi e riflettono la luce sui sampietrini bagnati.

I primi tempi, non riuscivo a parlare di me in modo lucido. I primi tempi dopo la diagnosi, intendo. Devi dire sempre chi sei, dice Laura. Non puoi chiedere aiuto se gli altri non sanno come aiutare, dice. I neurotipici sono limitati. Non penso che sia una questione di limitazione mentale. Forse, è più una mancanza di esperienza. Forse non si sperimentano nuove strade, quando quelle solite sembrano funzionare nella maggioranza dei casi. Suppongo che sia una caratteristica intrinseca del genere umano: risparmiare gli sforzi.

Ma è più facile, se si spiega chiaramente quello di cui si ha bisogno. Calma, silenzio, pazienza. Parole scelte con cura, perché a volte è difficile andare oltre il significato letterale. Ironia con parsimonia, perché spesso viene fraintesa. Intenzioni pulite ed espresse. Parlare. Parlare di più. Parlare invece di usare i gesti, perché i gesti non hanno significato. E non toccare. Quello è il punto fondamentale. Insieme alla pazienza necessaria a insegnare. Perché è più facile capire, se si ha un dizionario per tradurre. Un po' come far incontrare due lingue diverse.

Anche il mio appartamento è buio. Buio e silenzioso, come un sarcofago. Mi sembra così accogliente, dopo il caos dell'albergo. Sfilo le scarpe, infilo i vestiti bagnati in lavatrice, mi infilo sotto la doccia. L'acqua calda lava via il freddo. E dopo prenderò un ombrello.

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