Alice

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Spengo la luce e mi siedo a terra, la schiena e la nuca contro la porta.

Sarebbe stato semplice. Lasciar decidere è più semplice di decidere. E rimane la scusa che si può dare a se stessi, quella che dice che una decisione subita non conta. Una giustificazione vaga, ma che funziona sempre, che permette ai rimpianti di creare mondi paralleli immensi.

L'ho lasciato andar via.

Sì. L'ho fatto.

E la schiena contro la porta non è un ostacolo tale da garantire che non venga riaperta dall'esterno. Ma forse, serve più a me, per non avere la tentazione di inseguirlo.

Non sarebbe più la stessa cosa. Non potrebbe più esserlo.

Forse, ogni tanto bisogna davvero accettare che alcune cose sono cambiate, senza tentare di riportarle indietro. Non possono, non possono e basta.

Mi fanno male gli occhi, dopo aver pianto. E sento l'emicrania cominciare a pulsare. Mi alzo e mi infilo nel letto.

***

Era buio. Il buio me lo ricordo bene.

Stavo armeggiando con una serratura. La serratura di una pizzeria, o qualcosa del genere. Ma non lo sapevo. L'ho scoperto dopo.

Armeggiavo con questa serratura e poi ho visto una donna dietro di me. Aveva in mano dell'impasto per la pizza, una grossa sfera giallastra. Da qui l'idea che forse quella serratura fosse della porta della pizzeria. Insomma, la donna ha aperto la porta e siamo entrate. C'era luce, dentro, e c'era anche un grosso fornello su cui stava cuocendo un'enorme pentola di sugo.

«Guarda cosa hai combinato», mi ha detto la donna. Io mi sono guardata intorno, ma non vedevo nulla. La donna non sembrava arrabbiata, era ferma e mi fissava.

Improvvisamente ha riaperto la porta e mi ha spinto fuori. Diceva qualcosa che non ricordo. E io l'ho implorata di non lasciarmi sola. Avevo paura, quella paura fondata che hai quando sai che sta per succedere qualcosa di brutto.

Poi era di nuovo tutto buio e mi sono allontanata dalla porta, perché avevo l'illusione che nel buio fitto sarebbe stato più difficile trovarmi. Non sapevo affatto dove stessi andando. Avevo una vaga idea di un sentiero, da qualche parte, ma al buio non avevo modo di capire come raggiungerlo.

E poi ho sentito la sua mano. Mi artigliava la spalla.

«Mi hai trovata», ho detto.

«Sì», ha risposto lui semplicemente.

Ha preso a tirarmi verso una certa direzione. Ho avuto la sensazione che ci fosse un buco proprio davanti a noi, ma non potevo vederlo.

«E adesso mi ucciderai?» ho chiesto, perché il mio timore più grande era che decidesse di seppellirmi viva.

«Sì», ha ripetuto.

«Ma visto che mi sono fatta prendere senza opporre resistenza, non mi farai soffrire, vero?»

È a questo punto che mi sono svegliata. Sudata, annegata in un forte senso d'angoscia. Ma viva.

***

«Grazie per essere venuta», mi dice Alessandra.

Sembra una scena già vista.

Mi sforzo di sorridere ed entro nella sala. Non sono la prima, questa volta. Qualcuno è arrivato prima di me e si è preso la mia sedia in fondo, quella vicina alla finestra.

Sorridere e fare finta di niente.

Le riunioni del venerdì mi piacciono, in genere. Mi metto nel mio angolo e ascolto gli altri parlare. Nessuno mi chiede niente, e la mia presenza, inspiegabilmente, è sufficiente. Non si pretende altro, da me, che l'occupazione di uno spazio. Nemmeno l'essere cosciente. E io ascolto, divago, osservo i movimenti degli altri, guardo i gesti e immagino le parole. Ogni tanto annoto mentalmente i comportamenti apprezzati dal gruppo.

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