«Volevo sapere come stai», mi dice.
Non mi piace.
Non mi piace vederlo qui. Guardare i suoi piedi coperti soltanto dai calzini appoggiati sul mio pavimento. Guardare la sua figura perplessa che non sa dove andare, che cerca di afferrare di sfuggita i dettagli della stanza.
«Sto bene», dico. E lo dico in fretta, perché ho il desiderio che questa sensazione di disagio duri il meno possibile.
Ma, al solito, il mio malessere è invisibile. Il mio viso è sempre statico, impermeabile ai sentimenti. Lorenzo distende le labbra in un sorriso, indica il divano.
«Posso, vero?»
Bisogna dire sì. Bisogna dire sì e basta, anche quando si vorrebbe dire no. La buona educazione, l'essere adulti. «Sì».
Si siede. E non è il suo solito modo di stare seduto, con la schiena che si impossessa dello spazio e le gambe che trovano una posizione comoda. È un sedersi formale, teso.
«Non ti siedi?»
«No». Il divano è troppo piccolo. Dovrei mettermi quasi accanto a lui, e l'intimità sarebbe eccessiva. Più di quanto io sia disposta a tollerare, in questo momento.
«Dai», dice. Non rispondo. Non insiste.
«Sto bene», gli ripeto.
Sorride di nuovo, sempre le labbra tirate. «Ti credo», dice.
«C'è altro?»
«Hai fretta?»
«No, non ho fretta».
Lo vedo appoggiarsi i gomiti sulle ginocchia e piegarsi in avanti. «Io e te abbiamo sempre parlato di tutto», dice.
E questo nemmeno, no, non è da lui. Non è Lorenzo. O forse sto continuando a fare paragoni insensati, perché questo non è il Lorenzo che conoscevo. Sono passati mesi. Tanti mesi. E il tempo ha sfumato i ricordi, ha diluito la mia capacità di comprenderlo, di superare il velo sottile che rende ogni espressione uguale alle altre. Forse, in passato, sarei stata capace di capirlo. Forse. O magari il lento processo che ci ha portati a diventare due estranei, quel processo in moto da anni, aveva già iniziato a corrodere il nostro desiderio di scavare oltre le apparenze, oltre le maschere, oltre la cortina di fumo dietro cui ci nascondevamo.
«Sai anche tu che non è vero», dico.
Rialza lo sguardo. «Sì che è vero», dice. «Non pensare agli ultimi tempi, quando ormai non parlavamo più. Pensa a prima».
Prima. Prima di cosa? In che momento - se esiste un momento fisso, riconoscibile - è successo? «Era un altro tempo».
«Era un'altra cosa», dice. E prosegue subito, in fretta. «Lo so, non ti piacciono le cose che sono altre cose».
«Non mi piacciono».
«Mi ha fatto piacere sentirti, l'altro giorno».
«Sei stato gentile a richiamarmi».
Torna a raddrizzare la schiena, si passa le mani sui pantaloni. Lo vedo alzare e abbassare ritmicamente il ginocchio. «Ci mancherebbe. Non avresti mai chiamato se non, ecco, se non avessi avuto bisogno».
«Stavo male».
«Lo so». Il suo ginocchio continua a sussultare.
«Perché sei qui?»
«Volevo sapere come stavi», dice.
«Te l'ho già detto, sto bene».
«Cazzo, Luna». Credo abbia alzato un po' il tono della voce. Credo, non ne sono sicura. Ma lo vedo tendersi, scuotere la testa. «Non rendere tutto più difficile».
Questo no, non mi è mancato. Rendere difficile. Come se per me fosse un divertimento, o un piacere. E me lo diceva sempre, ogni volta che discutevamo di qualcosa. «Non sono io, sei tu», dico.
Non sono io, sei tu.
«Sarei io?», chiede, e stavolta sono certa che il suo tono di voce sia più alto.
«Sei tu», rispondo, ferma, forte. «Se mi dici una cosa, io capisco quella cosa. Se mi dici una cosa perché ne vuoi intendere un'altra, non puoi prendertela con me se non capisco».
Chiude gli occhi. Li stringe. «Hai ragione», dice.
Si alza in piedi. Ho la sensazione che stia per andarsene. Aprire la porta e andarsene, senza ribattere. Come è successo tante, troppe volte. Ma non ha intenzione di farlo. Comincia a camminare avanti e indietro, come faceva quando era nervoso, quando aveva bisogno di calmarsi.
«È tutto una merda. Una merda. Non sono più libero di uscire, di avere una vita mia. Ha da ridire, e sono sempre discussioni, e le discussioni mi mandano fuori di testa. Dice che lo sapevo, che c'erano di mezzo anche i suoi bambini. Certo che lo sapevo, ma non avevo capito. Ce l'hanno già, un padre, no?»
Non sta parlando con me. E, forse per la prima volta, riesco davvero a guardarlo come se fosse distante. La figura scomposta nei suoi elementi principali, nel movimento ripetuto. Un uomo misero che indossa le camicie dopo averle sempre disprezzate, che mi chiama di notte per non farsi sentire, che viene da me di notte per non farsi vedere. E mi fa pena. La compassione mi punge gli occhi.
«Mi dispiace sapere che sei infelice», dico.
Si ferma. «No, non ti dispiace. Te la godi, invece. Mi hai lasciata per un'altra, eh? Ben ti sta!»
«Non è così».
«No, è vero. Non sei così», dice, e serra le labbra in una smorfia. «Scusami, non ce l'ho con te. Non c'entri. Sto continuando a incasinare tutto. Io, eh, io».
Non riesco a rispondere, a parlare. Vorrei che stesse bene. Che fosse felice. Che avesse fatto le sue scelte nel proprio interesse, e che ne andasse fiero. E forse avrei preferito che fosse questa la mia idea di lui. Sapere che il dolore che ho provato non mi è stato inflitto invano, che ha portato a qualcosa di buono, di bello. La consapevolezza improvvisa di aver sofferto inutilmente mi annienta più del resto.
«E me ne sono reso conto solo l'altro giorno», continua, «quando ti ho chiamato e abbiamo parlato. Cazzo, ma allora era tutto così facile? Sarebbe bastato prenderti e parlare? E mi sono sentito di merda, perché avevo preso la decisione più facile, perché non avevo avuto il coraggio di affrontare i problemi ed ero scappato».
«Hai fatto quello che credevi fosse giusto».
«Ho fatto quello che mi è sembrato meno difficile. Ti rendi conto? Ti rendi conto che ho pensato che lasciarti e farmi un'altra vita con un'altra donna fosse più facile che parlare con te?»
«Ti sei innamorato», dico.
Stringe gli occhi, forte, fino a disegnarsi una rete di rughe sul viso. «Non lo so. Lei continuava a dirmelo, lo capisci? Che dovevo decidermi a chiudere con te, che ero infelice e che era colpa tua. Che avevo la felicità a portata di mano e che non dovevo lasciarla sfuggire. Che sarebbe andato tutto meglio, che con lei sarebbe stato tutto meno complicato».
Le sue parole mi feriscono. Non riesco a togliermi dalla mente l'immagine di lui che le parla, e che poi torna a casa da me, senza più voglia di farlo. L'idea che possa aver sognato la loro vita insieme, mentre ancora condivideva la mia. Le bugie che mi ha detto, tante volte, troppe volte; le scuse che ho trovato con me stessa ogni volta che una parte di me sentiva un campanello d'allarme. Mi ha mentito per mesi, per più di un anno, e mentire era semplice. Era con me, era fisicamente con me, ma il resto era altrove. E mesi dopo trova il coraggio di dirmi che parlavamo di tutto, senza rendersi conto di avermi taciuto le cose più importanti, quelle che mettevano in discussione tutto il resto. E senza prendersi le responsabilità delle sue scelte, nemmeno adesso.
Non riesco a trattenere le lacrime. Mi giro di schiena, strofino il viso con la manica del pigiama.
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Blu
RomanceRicominciare non è mai facile. Una piccola storia d'amore che sfiora il meraviglioso e complesso mondo dell'autismo.