Polvere

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La confusione, se possibile, è aumentata. Il salone è gremito, pieno di persone che finiscono la cena o che proseguono i loro discorsi davanti ai piatti vuoti. Una serata noiosa, probabilmente, costretti al chiuso dalla pioggia. Sento il vociare venirmi incontro, prima ancora di riuscire a entrare.

Lascio l'ombrello all'ingresso, fuori dalla porta. Mi pulisco accuratamente i piedi strusciandoli avanti e indietro sullo zerbino. Prendo tempo. Respiro, inspiro.

Non ho mai capito cosa intendano le persone quando dicono un'oretta. Un'ora - questo lo so - sono sessanta minuti. I diminutivi sono sempre approssimativi. Non ho mai capito in base a quale calcolo si stabilisca la tolleranza. Una percentuale? Una quantità fissa? Rimane il fatto che ho contato sessanta minuti dal momento in cui sono uscita dall'hotel - ed era anche quella una base di partenza vaga - e non so se sono in ritardo o in anticipo.

È l'idea di essere in ritardo che mi spinge ad aprire la porta. Vengo investita dall'aria piena di odori e troppo satura. Mi guardo intorno, smarrita. Visi, visi ovunque. Faccio molta fatica a distinguere le persone da lontano. È come se fossi in grado di riconoscere soltanto i dettagli, più che l'insieme. I lineamenti si mescolano, per me; mi sembrano tutti uguali.

«Luna», sento chiamare.

Stefano mi viene incontro. Ha il viso più stanco di prima, credo. Più segnato. Non deve essere stata una giornata facile, per lui. O forse è una deduzione legata alla stanchezza che io provo in questo posto.

«Ciao», dico. Bisogna sempre ringraziare quando qualcuno fa qualcosa di gentile. «Grazie dell'invito».

Lui sorride, un sorriso che dischiude le sottili rughe intorno agli occhi. «Sono felice che tu sia qui», dice.

Mi guardo intorno. Vedo un paio di tavoli liberi, nel salone, e ho il terrore che voglia davvero mangiare lì. Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi su qualcosa che non sia il rumore. Li riapro, ma non è cambiato nulla.

Stefano sta ancora sorridendo. «Vieni», mi dice.

Attraversiamo il salone, fino alla parete in fondo. Apre una porta a vetri e mi fa entrare in cucina. C'è caos, in cucina, con le ultime preparazioni ancora in ballo.

«Cosa ti andrebbe?», mi chiede.

«Quello che c'è», rispondo.

Mi mostra un carrello d'acciaio con dei vassoi.«Pensi che possa andar bene?»

Non ho idea di cosa contengano. «Penso di sì».

«Allora andiamo», dice. Si mette davanti a me, spinge il carrello verso il lato opposto della cucina. Poi mi fa un cenno, e apre un'altra porta. «Hai mai visitato l'albergo?»

«Alessandra una volta mi ha mostrato l'area benessere nuova».

«Bella, vero?»

«Molto».

«Andiamo nella vecchia sala da ballo», mi dice. «L'hanno fatta costruire i miei nonni. Sai, all'epoca la gente ballava. Ormai è chiusa da diversi anni. Magari, quando ci saranno i soldi per fare i lavori, ci faremo una sala congressi, o qualcosa del genere».

La sala odora di polvere, ma meno di quanto mi sarei aspettata. È grande, credo, anche se fatico a coglierne le misure reali, perché contro le pareti sono accatastate poltrone e sedie di vimini.

«Scusa la confusione», dice ancora Stefano. «Non siamo mica riusciti a disfarci dei vecchi mobili, dopo la ristrutturazione».

Mi indica un tavolo con due sedie, in uno degli angoli. Non c'è polvere, come se qualcuno avesse l'abitudine di usare questa stanza, di tanto in tanto. Ci avviciniamo, noi e il carrello.

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