Asylum

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𝔗𝔥𝔦𝔰 𝔥𝔬𝔯𝔰𝔢 𝔦𝔰 𝔱𝔬𝔬 𝔰𝔩𝔬𝔴,
𝔚𝔢'𝔯𝔢 𝔞𝔩𝔴𝔞𝔶𝔰 𝔱𝔥𝔦𝔰 𝔠𝔩𝔬𝔰𝔢,
𝔄𝔩𝔪𝔬𝔰𝔱, 𝔞𝔩𝔪𝔬𝔰𝔱, 𝔴𝔢'𝔯𝔢 𝔞 𝔣𝔯𝔢𝔞𝔨𝔰𝔥𝔬𝔴
ℜ𝔦𝔤𝔥𝔱, 𝔯𝔦𝔤𝔥𝔱 𝔴𝔥𝔢𝔫 ℑ'𝔪 𝔫𝔢𝔞𝔯,
ℑ𝔱'𝔰 𝔩𝔦𝔨𝔢 𝔶𝔬𝔲 𝔡𝔦𝔰𝔞𝔭𝔭𝔢𝔞𝔯𝔢𝔡,
𝔚𝔥𝔢𝔯𝔢'𝔡 𝔶𝔬𝔲 𝔤𝔬?
 𝔐𝔶 𝔡𝔢𝔞𝔯, 𝔶𝔬𝔲'𝔯𝔢 𝔞 𝔣𝔯𝔢𝔞𝔨𝔰𝔥𝔬𝔴!
𝔄𝔫𝔡 𝔦𝔱'𝔰 𝔞𝔩𝔩 𝔣𝔲𝔫 𝔞𝔫𝔡 𝔤𝔞𝔪𝔢𝔰

Gli altri lo chiamavano faccia molle, poiché era nato con una rara malattia per cui le ossa del volto non si erano formate a dovere, e buona parte della pelle gli ricadeva inerme sugli zigomi poco accennati e sulla mascella floscia.
Non volevo sapere come chiamassero me.
Come si poteva avere quella cattiveria anche in un posto del genere?
Tutti soffrivamo rinchiusi tra quelle pareti grigie ed asettiche, tra il profumo di candeggina che dava il mal di testa e le finestre sprangate affinché nessuno tentasse qualche atto di autolesionismo o addirittura suicidio.
La vita al Cottolengo era così: triste, spaventosa, monotona e penosa.
Eppure in quella sofferenza mi sarei aspettata di trovare comprensione. Solidarietà.
Eravamo stati tutti abbandonati, giudicati dei fenomeni da baraccone rispetto alle persone "normali", ma almeno in quella prigione perché non potevamo essere tutti messi sul medesimo piano?
Eravamo tutti creature di Dio, costretti a subire la cattiveria del mondo. Perché auto infliggerci la stessa pena, quando già ne stavamo scontando una più grande?
Non riuscivo a capirlo.
Io non ero come gli altri. Volevo davvero fare amicizia, ero stanca di sentirmi sola, di sentirmi un mostro. Nessuno di noi lo era, eravamo solo nati con caratteristiche diverse e si, in alcuni casi orrende. Ma non lo avevamo chiesto noi, non ne avevamo colpa. Perciò perché tutto quell'odio immotivato gli uni verso gli altri?
Con quello spirito andai a sedermi accanto a faccia molle.
Non conoscevo il suo nome, per questo glielo chiesi, ma lui spaventato si ritrasse, e dopo qualche attimo di smarrimento di alzò di corsa e scappò via, verso uno degli infermieri addetti alla sicurezza quando noi pazienti ci riunivamo nella saletta comune.
Sbattei le palpebre, giusto in tempo per vedere la scia di pipì che bagnò la gamba di faccia molle mentre un altro giovane inserviente cercava di tranquillizzarlo.
Lo avevo spaventato fino a quel punto? O il suo era stato un riflesso incondizionato scatenato da anni e anni di soprusi? Probabilmente mai nessuno gli si era avvicinato senza l'intento di fargli del male.
Fragili... com'eravamo tutti fragili in quel luogo. Cocci di vetro rotti che avrebbero potuto ferire e ferirsi con una facilità estrema.
Sospira e mi guardai attorno: affacciata alla finestra c'era Blue. La chiamavo così perchè indossava sempre un fiocco blu tra i capelli, nel punto in cui questi non coincidevano con l'attaccatura della testa della sua gemella siamese, di cui erano sopravvissuti alla gestazione solo un braccio, il collo e il viso appunto.
Grottesca... eppure quel fiocco blu le donava così tanto... se solo anche gli altri lo avessero visto.
Davanti al vecchio televisore in bianco e nero invece, erano seduti Rasty e Bolt. 
Loro due in effetti non c'entravano nulla lì, almeno apparentemente. Il loro aspetto era normale e quasi sano. Il loro difetto però era nella testa, e i loro genitori incapaci di sostenerli, li avevano lasciati lì, davanti a quel televisore senza colori.
Dovunque mi girassi vedevo solo miseria e sofferenza. Mi tremava il cuore, e non per la mia sorte, ma per tutto quel malessere che mi circondava. Il mio dolore era quello di tutti loro, era per tutti loro. Avrei voluto cullarli e cullarci tutti. Fare una magia per regalarci occhi normali, bocche normali, braccia normali e menti normali.
Ma nessuna magia avrebbe potuto salvarci da quella maledizione.
Ci restava solo la scienza, ma quella progrediva troppo lentamente rispetto ai nostri bisogni.
E ad un tratto fu troppo da sostenere.
Mi strinsi al petto le dita ricoperte di peluria e cercai di calmare il respiro che si era fatto accelerato. Non dovevo avere un altro attacco, mi avrebbero dato un sacco di medicinali, avrei dormito tutto il giorno per lo stordimento, e la notte avrei avuto gli incubi.
Inspirai, espira, inspirai ancora profondamente e ritmicamente per ricacciare indietro il panico, e fu allora che udì pronunciare il mio nome.
E c'era solo una persona al mondo che ancora lo faceva: mia sorella Ophelia.
Alzai il viso verso il punto da cui avevo udito provenire quella melodia inaspettata e la vidi sopraggiungere nel suo lungo trench nero, i capelli dai riflessi violacei sciolti indomiti sulle spalle dritte, il sorriso che era mio e mio soltanto.
Fu in quel momento che il mondo si riassettò e il petto smise di dolere. Era giunta la mia salvezza sotto forma di abbraccio da orso formato sorella maggiore.
Ecco perché io a differenza degli altri conoscevo l'amore e la pietà forse.
Perché amore era ciò che la donna che mi stringeva mi dava ogni giorno da quando ero nata.
Ophelia era venuta per me, sarebbe venuta sempre.
Ophelia mi avrebbe sempre salvata.




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