Capitolo 14

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Eren ricordava bene il giorno in cui si era recato al comune della città.

Il giorno in cui pretese i suoi dati anagrafici, che erano poco più che qualche foglio sgualcito su cui erano appuntati vaghi riferimenti alla sua età, all'unico segno distintivo costituito dalla voglia scura, alla città in cui era stato ritrovato in seguito ad un presunto abbandono e poi, in cima all'elenco, il nome che gli era stato affibbiato. E lui aveva osservato quel nome maledicendolo, la brama di strappare quegli insensati ed inutili pezzi di carta che parlavano di una persona che non era lui.

Lui, che non sapeva dove fosse realmente nato, quale fosse il nome che i suoi genitori biologici avrebbero voluto dargli, la sua autentica data di nascita e non un'età che si presumeva avesse. E quindi spietate linee rosse avevano tracciato a mano a mano ogni singola parola o numero che scivolasse sotto i suoi occhi spenti, tranne un unico dato innegabile: quel marchio incancellabile.

Rammentava il modo in cui, ogni qualvolta si specchiava nel vetro del bagno, un fioco barlume di speranza si facesse spazio a gomitate fra i flutti di arrendevolezza.

E si sentì così quando la porta si spalancò, non esitando neanche un istante sulla soglia e varcandola come se sapesse esattamente cosa fare, dove andare, esistere.

Un roco sospiro accarezzò le sue labbra rosee, le palpebre che si socchiudevano lentamente nel mentre saggiava con i polpastrelli la superficie rugosa delle pareti, le grinze del legno a modellargli la pelle. Sembrava avesse persino dimenticato che Levi fosse lì, in contemplazione di quell'esile essere come un genitore che vede il proprio figlio scoprire il mondo, conoscerlo, apprezzarlo per la prima volta.

Ma non era ancora abbastanza, non per lui che di Eren non ne avrebbe mai avuto a sufficienza; dannatamente insaziabile, capriccioso, pretenzioso come solo un demone può essere.

Così, mentre Eren studiava un'abat-jour di fianco al letto sfiorandone il contorno con le dita, Levi si diresse cautamente verso il giradischi posto difronte al materasso e si soffermò nostalgico su di esso.

Il suo disco, il loro disco, era ancora gelosamente conservato nella custodia, rimasto intoccato da quando i due erano stati puniti: che senso avrebbe avuto sentire quella melodia, quando il loro amore si era infranto così rapidamente, nudo e corruttibile come il cuore di un soffione senza petali, così tremendamente mortale?

Si beò ad occhi chiusi di quel momento, della sicurezza che il fruscio delle tende fosse generato dai movimenti curiosi del ragazzo, della consapevolezza che quelle note spezzate, taciute per fin troppo tempo, a breve avrebbero ripreso vita, nutrite dell'esistenza di Eren a qualche passo da lui.

Si ridestò da quel fermo-immagine impresso nella mente ed afferrò il contenitore, facendo scivolare sul palmo il sottile cerchio di vinile e posizionandolo nel giradischi, la testina assestata e l'aspettativa che montava nel suo petto ai primi secondi di silenzio.

Lo sguardo si opacizzò e il labbro inferiore fu stretto fra i denti con così tanta foga da ferirlo dall'interno, un maremoto di emozioni, frustrazione e rabbia che lo inghiottiva in un mulinello di consapevolezza: erano lì, di nuovo, insieme, proprio come aveva sottolineato il castano un momento prima.

-Un Fa diesis.- Levi sussultò a quella pacata affermazione, il dorso della mano ad asciugare rapidamente le ciglia bagnate di meraviglia. -E' una bella nota.-

Possibile che non ricordasse quella musica? Possibile che, fra tutte le cose che era riuscito a recuperare, gli inferi non avessero voluto restituirgli quella reminiscenza?

-Uhm.- si voltò lentamente, come se un qualunque movimento brusco avesse potuto infrangere la sua compostezza di sottilissimo vetro soffiato. -Sapevo che l'avresti detto.-

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