UNO

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CUBALIBRE

Uno
¿Todo bien, niño?

Martedì

Quasi dodici ore: quello stramaledettissimo volo era durato quasi dodici ore. Prima di partire, Filippo aveva preso dei tranquillanti che erano bastati per farlo addormentare qualche ora dopo il decollo (verso le sette di sera italiane), risvegliandosi giusto un'oretta prima dell'atterraggio. Lo aveva considerato un vero miracolo, dato il modo in cui aveva tremato non appena si era seduto.
Un po' intontito, non sapeva come era riuscito a trovare un taxi, né come era sopravvissuto al viaggio col tassista più chiacchierone che avesse mai incontrato (parlava, parlava, cosa cazzo diceva?). Col mal di testa più tremendo del mondo, il cantautore si era trascinato nell'appartamento che aveva affittato per quei giorni, aveva mandato un messaggio a Lorenzo ("Di' pure a tutti che sono vivo") e si era lanciato sul letto, senza nemmeno levarsi di dosso i vestiti, addormentandosi di colpo.
La mattina dopo si era svegliato a mezzogiorno con un buco nello stomaco e le gambe che protestavano per via dei jeans: aveva deciso, quindi, di esplorare la casa.
La decisione di farsi una doccia era arrivata quando il frigo vuoto aveva quasi riso del suo povero stomaco - avrebbe fatto un giretto della città, sperando di trovare del cibo il più vicino possibile.
Si era sentito quasi perso per i primi minuti: il caldo lo aveva leggermente disorientato e non comprendere nulla di quello che diceva la gente intorno era estraniante. Quando, però, si era ritrovato in un localino per pranzare, la musica che si sentiva lì lo aveva quasi rincuorato, anche un po' svegliato - con lo stomaco pieno e quel ritmo nella testa, Filippo si era sentito meno strano, più a casa.
Perché, a pensarci, la musica, da quel momento in poi, l'aveva sentita un po' ovunque mentre camminava: dalla radio di quell'ambulante che stava passando per strada, dalla finestra da cui quella donna stava ritirando il bucato asciutto, in quella statua, lì, nella piazzetta, nel chiacchiericcio di quegli anziani fuori a quello che sembrava un bar. La musica c'era, lo circondava, quasi non importava non capirne la forma: il senso gli entrava dentro, lo riempiva.
"Cazzo." scrisse a Lorenzo, quando tornò a casa nel pomeriggio, per cambiarsi. "Non si respira altro che musica, qui."

*

Nei peggiori bar di Caracas - chissà perché quella frase continuava a girargli nella mente da quando aveva cominciato a farsi un giretto serale nei locali de L'Avana, considerato che Filippo non aveva ancora trovato un bar che fosse peggiore di qualunque altro e che Caracas fosse in... - chi cazzo lo ricordava.
Aveva bevuto un po', cioè un bel po', ed era stato a tanto così dal concludere la serata, se soltanto il fidanzato di quella ragazza non fosse stato nelle vicinanze, ecco. Essere più bassi (beh, rispetto a quel tipo lo era) è una fortuna in casi del genere e così, nonostante i riflessi schifosi dati dall'alcool, il cantautore era riuscito a svignarsela senza troppi problemi. Si era infilato in un vicoletto ed aveva ripreso fiato lì, appoggiato contro il muro.
"Pensa se m'avesse ammazzato -" avrebbe detto ad Alessandro, quando gliel'avrebbe raccontato. "- saresti stato costretto ad avere l'affido esclusivo di Lori." e, pensandoci, quasi rise.
Erano ormai quasi le due di notte (oh! Caracas è in Venezuela!) e Filippo non sapeva dove fosse né dove stesse andando: era andato dritto, lungo il vicolo, sospirando sollevato quando l'odore inconfondibile dell'oceano gli aveva invaso le narici.
Aveva, allora, seguito quel profumo, trovando dei murales meravigliosi lungo la via (ne aveva anche fotografati alcuni) - arte, arte, arte, quel luogo trasudava arte in ogni sua più piccola sfaccettatura. Filippo chiuse gli occhi ed inspirò forte lasciandosi invadere da quel profumo salino, da quei colori che aveva appena visto dipinti sui muri e da quella musica che - oh, era dal fondo del vicolo che proveniva la musica, una musica così tipica, così ritmata che lui non riuscì a fare a meno di seguirla, gli occhi ancora serrati. Troppo serrati, forse, che quasi inciampò su due ragazzi che - ah, due ragazzi che stavano amoreggiando premuti uno sull'altro, premuti contro il muretto, in quel vicolo così intimo e praticamente deserto. Filippo avrebbe voluto fermarsi ed osservarli - era arte pure quella, no? - mentre sentiva lo stomaco contrarsi piacevolmente, il calore dipanarsi fino alla punta le dita e con lo sguardo- le pupille adesso dilatate - accarezzava ancora e ancora quelle due figure che si avvinghiavano una all'altra, si toccavano e si baciavano così - così.
Prese un respiro profondo e distolse lo sguardo, deglutendo appena. Dio, quasi gli mancava il fiato e l'aria fresca della notte non aiutava per niente, anzi, gli rendeva più faticoso spegnere il cervello - di nuovo acceso, pieno di dubbi, di domande che non avevano mai trovato delle vere e proprie risposte se non un non ora. Non ora, non - una coppia di ragazzi gli passò accanto e il cantautore non poté fare a meno di voltarsi a guardarli. Non appena tornò a guardare davanti a sé, notò un'altra coppia uscire da un locale e quasi si bloccò. Oh, quindi quella doveva essere una sorta di gay street o come si chiamava, no?
Aveva avuto più o meno diciannove anni quando si era ritrovato a Milano con degli amici ed avevano incrociato un locale gay - era stata assurda, tutta quella cazzo di curiosità, tutta quell'improvvisa eccitazione che lo aveva lasciato spiazzato. "Dai, zio, piuttosto andiamo al solito localino - a meno che non ti interessino più le tipe." aveva detto di getto, quando qualcuno aveva proposto di entrarci per scherzo - come una sorta di difesa, di...
Sospirò. Era stato due anni prima, ora non era a Milano, non era in Italia, era completamente solo ed ubriaco (e carico di adrenalina): non ci pensò due volte prima di allungare il passo ed entrare in quel locale.
A prima vista non sembrava un locale gay, cioè non che lui sapesse come fosse fatto un locale gay, ecco. Solo che - non era diverso da quelli che di solito frequentava, anzi. Portò istintivamente la mano a toccare uno degli orecchini, trovando il lobo vuoto: giusto, le piume erano ancora rinchiuse nella loro scatolina in valigia (o, almeno, quelle che si era portato dietro) - chissà perché non se la sentiva di indossarle.
"Beer." ordinò, non appena si sedette al bancone - posizione strategica per studiare meglio il tutto. Il barman sembrò capirlo nonostante la sua pessima pronuncia e gli sistemò davanti una bottiglia di birra stappata che il biondo sorseggiò quasi subito, muovendosi un po' sullo sgabello quasi istintivamente, seguendo il ritmo della musica. La pista da ballo era occupata da pochissime persone, il resto della gente era seduta ai tavoli o al bancone - bevevano cocktail, parlavano, limonavano. Distogli lo sguardo, distogli lo - si sforzò a tornare a guardare in pista e, merda, ci avrebbe lasciato gli occhi lì.
Inghiottì un enorme sorso di birra ed osservò quasi incantato un ragazzo che ballava al centro della pista: era lì, che si muoveva seguendo un ritmo tutto suo con addosso una camicia blu sbottonata appena ed un paio di pantaloni bianchi - entrambi così fottutamente aderenti. Era così bello che Filippo quasi si perse a contare i dettagli che riusciva a vedere dalla posizione in cui era seduto. Il ragazzo fece roteare i fianchi, voltò il capo e, per un solo attimo, incrociò lo sguardo con il suo - il corpo del cantautore si mosse da solo e, in un attimo, si ritrovò a pochi passi da lui.

Cubalibre || EiramDove le storie prendono vita. Scoprilo ora