CUBALIBRE
OnceVoglio fare l'amore con te
Sabato
Era quasi il tramonto quando Einar e Filippo rientrarono in città coi loro zaini in spalla: avevano passato la giornata a fare un'escursione guidata poco fuori città, in un parco meraviglioso. Filippo aveva le guance arrossate dal sole e indossava quel sorriso bellissimo che Einar aveva imparato ad adorare. Stavano camminando per tornare verso casa, intrattenendosi in un'altra chiacchierata, una di quelle che partiva dal nulla e si diramava in mille altri argomenti - al cubano piaceva da morire raccontargli storie che riguardavano la sua terra.
"Il parco se llama Parque Baconao e si trova vicino a Santiago, dove sono nato yo" riprese a raccontare, il braccio che sfiorava il suo nella camminata fianco a fianco. "Es una Reserva natural, no? Molto grande, sai. Y la leyenda racconta di questo albero magico che se llamaba Bacona e de un niño - un niño come te" lo prese in giro dandogli una spintarella.
"E che facevo io in questa storia?" chiese Filippo, spintonandolo di rimando. Si sentiva così bene, sempre di più ogni giorno che passava col cubano.
Per la spintarella, quello scivolò dal marciapiede perdendo un po' l'equilibrio e rise - ormai rideva continuamente, quando era con Filippo. "Non so se te meriti de saber cosa facevi" gli disse, il dito indice alzato verso di lui, come a sgridarlo.
Il cantautore lo tirò verso di sé per stabilizzarlo un po'. "Dai, dimmelo."
"Va bene, te lo dico" ridacchiò quello stringendogli la mano per un attimo - gli stava a distanza di sicurezza da troppo - e sistemandosi subito dopo lo zaino sulla spalla. "El niño era muy bravo a pescare, a nuotare y jugaba muy bien a Batos - sai, se puede considerare un antenato del baseball. Pues, questo niño estava sempre sotto l'albero, el Bacona, e faceva musica no? La faceva con - ay, como se dice - los caracoles, no? Quell'animale che camina muy despacito..."
Quello si leccò le labbra e lo osservò pensoso. "Se despacito vuol dire lento..." cominciò. "Los caracoles sono... lumache?" domandò, dubbioso.
"Lumache" si ripeté il cubano. "Lumache, lumache, lumache... con una casita addosso, no?" chiese, cercando di capire se stessero parlando della stessa cosa.
Il cantautore annuì. "Sì, sì e strisciano anche."
"Strisciano" fece l'altro, la mano a mimare il movimento della lumaca. "Sì, allora el tocaba las lumacas" decretò, spagnolizzando la parola. "El niño venne chiamato Baconao perché la gente pensava che le sue habilidades de tocar las lumacas - de fare musica con quelle, no? - fossero grazie all'albero. Pero, un giorno el niño non tornò più a casa, eppure la musica continuò a sentirsi nella foresta: por questo, pensando che era una magia del niño scomparso e della sua musica, la foresta fu chiamata Baconao."
Filippo ascoltò interessato, provando ad immaginare la scena. "Alla fine, quindi..." iniziò, confuso dal finale. "Era la magia dell'albero o del bambino?"
Einar gli diede uno schiaffetto sulla nuca. "Vedi che non escuchi?" lo prese in giro. "Para la leyenda -" si interruppe, rendendosi conto che, effettivamente, la leggenda era abbastanza ambigua, che al finale non aveva pensato a fondo nemmeno lui e - "Ah. No sé" ammise.
L'italiano scoppiò a ridere e gli pizzicò un fianco. "Com'era? Non escuchi!" scosse il capo, ridendo ancora. "Dai sempre la colpa a me!"
Einar rise, buttò la testa all'indietro e si perse in quella risata. "Tu non escuchi perché vuoi sempre fare altro" lo prese in giro, che la notte prima, effettivamente, avevano iniziato parlando, ma poi le loro bocche avevano finito per unirsi, per pronunciare le stesse parole, finché i loro corpo non si erano fusi in quel modo perfetto.
Filippo si morse un labbro, squadrandolo per un attimo (il modo in cui si era mosso su di lui, la sera prima, quel movimento così...) prima di prendere un respiro profondo. "Ti ascolto sempre, hai dei pregiudizi." si difese.
"Perché, sapresti decirme de cosa estavo parlando ieri sera quando mi sei saltato addosso?" domandò quello con un sorrisetto malizioso, adesso fermo in un piccolo spiazzo, le mani sui fianchi.
Stavano parlando ieri? Dio, non ricordava - "Lavoro. Mi stavi parlando di lavoro, no?" buttò lì con espressione innocente.
"Sbagliato" gli diede una spintarella all'indietro Einar, facendo pressione sulla sua spalla. "Estavamo parlando di -" ma si interruppe, quando una pallonata colpì Filippo sulla nuca.
Quest'ultimo gemette piano, accarezzando si la parte lesa, si voltò a guardarsi indietro e notò un gruppo di bambini che si avvicinava correndo.
Il cubano afferrò la palla che era rimbalzata fino a lui e la mise sottobraccio, ridacchiando.
"¡Señor, señor!" chiamarono i bambini, sbracciandosi verso Filippo. "La pelota - es nuestra, la pelota" fecero col fiatone, mentre Einar si spostava accanto all'italiano e li osservava. Il gruppetto era formato da una decina scarsa bambini di tutte le età, impolverati per i numerosi ruzzoloni nella stradina sterrata, ma con dei sorrisi enormi - alcuni sdentati. "Es mía, la pelota, es mi pelota" si fece avanti un ragazzino che indossava una maglia di un qualche calciatore famoso.
Filippo non riuscì a trattenere un sorriso: diede una gomitata ad Einar, che gli era venuta una bellissima idea. "Secondo te ci fanno giocare con loro?" chiese, sfregandosi le mani.
"Chiediglielo tu" gli rispose quello divertito, mentre un altro bambino si scusava per aver fatto male al señor.
Il biondo lo guardò incredulo e, poi, tornò a guardare i bambini. "Niños." cominciò, "Podemos giocares con v - vois?" domandò, un po' divertito.
Il cubano scoppiò a ridere, spalmandosi la mano sulla fronte, gli sguardi dei bambini confusi (una piccoletta che si copriva la bocca e ridacchiava). "Quiere jugar con vosotros al fútbol" tradusse, quindi, e quasi nemmeno aveva completato la frase che loro iniziarono a saltargli intorno con gioia, urlando, pieni di entusiasmo - si divisero i ruoli in campo gridando, a tratti discutendo ed imbronciandosi. Einar, invece, fissò Filippo e si sentì riempire dalla felicità.
Quello rise, sentendosi trascinare da un bambino. "Vieni! Giochiamo!" urlò, facendogli segno di seguirlo.
Einar prese per mano la bambina e si unì al gruppetto, tenendo a palla ancora stretta - alzò il braccio e la lanciò in mezzo ai bambini, che ci si buttarono sopra ridendo e urlando. Uno di loro, quello che prese possesso del pallone, si ritrovò davanti a Filippo... e con particolare abilità gli fece passare la palla tra le gambe, umiliando l'italiano con un tunnel - e il barman rise, rise forte della sua espressione incredula.
Filippo guardò il bambino stupito, poi rise un po' e lo rincorse cercando di rubargli la palla. Quello, però, fuggì via, passando la palla all'amico alla sua destra.
Einar lasciò la mano della bambina e si buttò in mezzo, iniziando a correre cercando di prendere possesso del pallone - lo soffiò di sotto il naso di un ragazzino e si voltò a cercare Filippo con lo sguardo, per passarglielo.
Il cantautore si preparò a riceverla, provando a liberarsi da alcuni bambini che lo stavano marcando stretto. L'altro ragazzo gli fece un assist, disegnando una linea perfetta in aria e - oh, Filippo riuscì a farsela soffiare da sotto il naso da uno dei bambini ed Einar lo guardò scuotendo la testa divertita. "Felipe!" sbuffò nella sua direzione. "¡No eres capaz!"
"Sono troppo bravi!" si giustificò lui, ridendo e scuotendo il capo. Provò a recuperare la palla ancora una volta e quasi ci riuscì, finché qualcuno non gliela rubò entrando in scivolata. Ma che cazzo.
Più di mezz'ora dopo, Einar sedeva su un muretto con la bambina accomodata sulle ginocchia che giocava con l'anello che lui portava al pollice - lo faceva girare e girare attorno al dito, mentre canticchiava una canzoncina. Il cubano, dopo aver intonato qualche parola con lei, diede un'occhiata a Filippo, che era totalmente sfatto - ridacchiò. Avevano perso - a causa dell'italiano ovviamente - per talmente tanti punti che avevano perso il conto: certo, i bambini erano proprio bravi, ma Filippo era davvero una pippa.
L'italiano sorrise felice e si stiracchiò. "È stato divertente." ammise.
La bambina sussurrò qualcosa all'orecchio del cubano e quello scoppiò a ridere e annuì divertito. "Mi ha chiesto se en el Italia esiste el fútbol, dato che non sai giocarci" tradusse Einar a Filippo.
Quello scosse il capo e si stiracchiò. "Siete davvero divertenti." rispose, fingendo una risata.
"El dice que existe - pienso que es tímido y no quiere admitir que no sabe jugar al fútbol" ridacchiò Einar rivolto alla bambina, parlando più lentamente, in modo che anche Filippo potesse capire la presa in giro - lo guardò, con quel sorriso enorme.
"So giocarci!" fece Filippo, indispettito. "Gioco anche in una squadra importante, sai?" si vantò, ignorando il fatto che avesse giocato in una sola partita con la Nazionale cantanti.
"Vuoi impressionare me o la niña?" domandò divertito Einar mentre la piccola gli tirava un po' i ricci, che voleva fargli una trenzita, una treccia.
Il cantautore lo osservò per un attimo e poi alzò le spalle. "La bambina, no?" rispose con un sorrisetto, prima di ammirare la treccia.
"¡Mira! ¿Te gusta mi trenza?" interruppe lo sguardo tra i due la bambina, tirando un po' la ciocca di capelli intrecciata per mostrarla a Filippo - Einar fece una piccola smorfia di dolore mischiata ad un sorriso.
"Sì, è bellissima!" rispose lui con il medesimo entusiasmo, tirando piano un'altra ciocca di capelli del cubano.
"¡Travieso!" mugolò quello dando uno schiaffetto sulla mano all'italiano. "Mira, me molesta" si lagnò cercando l'appoggio della bambina, che però rise tirandogli un po' di più i capelli a sua volta e - "Te enseño a hacer las trenzas" propose felicemente a Filippo.
Quest'ultimo rise e prese una ciocca di capelli. "Sí, ¡gracias!" disse, che erano le uniche parole di cui era certo ed osservò la bambina mentre spiegava piano piano. "Ti facciamo bello." fece ad Einar, divertito.
Quello gli mostrò un broncio adorabile e gli diede un calcetto, con la piccola tutta presa a spiegare come intrecciare i capelli nel verso giusto. "Ay, sei quasi peggio a fare trenzas che a jugar al palone" lo prese in giro dopo un po', storpiando l'ennesima parola italiana.
"Ha parlato Cristiano Ronaldo." rispose Filippo, ridendo della propria treccia mentre la mostrava alla bambina. "¿Así?"
Lei fece un'espressione divertita, ma poi decise di essere clemente col ragazzo. "Sì, es muy buena" mentì spudoratamente, facendo nascondere ad Einar una risata dietro la mano, mentre lei si allungava con aria sbalordita verso Filippo, come se avesse notato solo in quel momento che - "Me gustan muchísimo tus plumas."
Il biondo le sorrise e si sfilò un orecchino per lasciare che lo guardasse da vicino. "Bello?"
La bambina lo rigirò tra le dita, affascinata dal colore e dalla lunghezza della piuma. "Muy bello" fece, allungando la mano verso l'alto per osservarlo controluce. Einar, che la stava tenendo in braccio, diede un'altra occhiata a Filippo - deglutì, quando mille cose svolazzanti gli esplosero nello stomaco.
Il sorriso dell'italiano si allargò ed allungò una mano per accarezzare i capelli. "Che carina che è." disse, rivolto ad Einar.
"Si" gli rispose quello sistemandole l'elastico della coda che si era un po' rovinata nelle corse folli con gli altri bambini - le spolverò il vestitino, mentre lei canticchiava una vecchia canzone, la piuma di Filippo ancora in mano, per captarne ogni dettaglio.
Filippo restò a guardarli in silenzio, totalmente rapito dal modo in cui interagivano - quasi Einar fosse un fratello maggiore o uno zio. Era così incantato che sentiva la voglia matta di baciarlo, baciarlo e baciarlo fino a star male.
"¿Qué? Porqué me miras así?" arrossì un po' quello dandogli un calcetto, ora che la bambina si sporgeva proprio verso Filippo per fare una treccina anche a lui, che tu pelo es mejor para hacer trenzas - passò quasi inudita quella frase canticchiata da lei, che gli sguardi dei due ragazzi avevano finito per allacciarsi tagliando fuori il resto.
"Sei così bello." rispose, censurando quel cazzo alla fine della frase. Poi indossò di nuovo l'orecchino ed abbassò un po' la testa per facilitare la treccia.
"Hai preso troppo sole" rise piano Einar, che accettare i complimenti era così difficile a volte, soprattutto quando si trattava di parole davvero sincere come quelle.
Il cantautore rise e si leccò le labbra. "Quanto sei fi-ne..." cominciò a canticchiare.
...quando arrossisci per un complimento, sentì suonarsi in testa il cubano e piegò un po' il capo da un lato, la punta della lingua che scivolava sui denti, negli occhi un luccichio malizioso che -
"¡Abuelita!" chiamò la bambina alzando il braccio verso una signora anziana che stava attraversando la strada, verso la loro direzione, camminando lentamente, un po' affaticata.
"La nonna?" domandò il ventunenne all'altro, incuriosito da quella parola. Se non ricordava male l'aveva usata anche l'altro mentre gli raccontava un po' di lui. Si alzò quasi automaticamente quando la signora si fece più vicina, pronto a cederle il posto.
Einar fece scendere a terra la bambina che prese subito la mano della donna, due sorrisi identici sulle loro bocche in un saluto dolce.
"Sì, è la nonna" confermò lui a Filippo, proprio mentre la signora gli faceva cenno di stare seduto, di non preoccuparsi.
"Intenté enseñarle a hacer las trenzas, pero no es muy capaz, abuelita" la informò la bambina indicando l'italiano e beccandosi in risposta un: "Es mala educación decir así, nene - discúlpate con este chiquito."
Filippo si mise di nuovo seduto ed alzò un sopracciglio quando la bimba lo indicò, guardando subito dopo il barman.
"Dice che non sei capace a fare le trecce" ridacchiò Einar traducendo subito dopo anche la risposta della nonna. "Almeno non le ha dicho anche che non sai jugar al palone" fece poi, fingendo un'aria serissima.
Il ventunenne alzò gli occhi al cielo e poi gli diede una leggerissima spinta. "Non la smetterai mai, vero?"
Mai - avrebbe dovuto smettere, invece, prima o poi e probabilmente più prima, che poi. Mai, già. Magari fosse stato mai, si ritrovò a pensare Einar, con la bocca improvvisamente secca e un dolore acuto allo stomaco. Mai.
Immerso nei suoi pensieri - e forse in quello sguardo profondo che aveva dato a Filippo come risposta alla sua domanda -, Einar non si era reso conto di come si fossero ritrovati in casa della signora e della bambina davanti ad un vassoio di dolcetti e bicchieri di succo che la donna, aiutata dalla nipote, stava servendo loro.
Il salottino nel quale si trovavano era davvero piccolo, con un arredamento arrangiato e pieno di colori, quasi un'accozzaglia di vecchi stili - probabilmente tutto ciò che si potevano permettere.
Filippo sorrise piano e ringraziò, guardandosi intorno con discrezione. Nonostante fosse piccola e palesemente povera, trovava quella casa davvero accogliente e carina - la poltroncina all'angolo sembrava davvero comoda. L'anziana si accomodò proprio lì, con un piccolo sforzo, piegando le ginocchia doloranti e poi facendo un mezzo sorriso, dicendo che era l'età che iniziava a farsi sentire - Einar tradusse al volo ciò che lei aveva appena detto, che la donna tendeva a parlare in una varietà molto più stretta e diversa rispetto a quella di Einar e ovviamente più complicata da capire per un turista. "Toma uno" fece ancora lei, la mano ad indicare i dolci e poi Filippo. "Los he hecho esta mañana" aggiunse con quel sorriso dolce, mentre la bambina si sedeva allungava il piattino verso i due ragazzi.
Il cantautore ne prese uno ed annuì già al primo morso: era così morbido e buono, sapeva di buono. "Bueno - muy muy bueno!" si complimentò, bevendo un po' di succo poi. Chissà perché i dolci fatti in casa erano sempre più buoni - sapevano di qualcosa che non sapeva definire.
"Yo me llamo Caridad" si presentò la nonna, parlando più lentamente ed indicando se stessa, gli occhi posati sull'italiano: era come se fino a quel momento non ci fosse stato il bisogno di scambiarsi informazioni personali, che la gentilezza e la generosità avevano parlato da sé - si erano seduti intorno ad un tavolo e avevano iniziato a condividere una merenda, così, dal nulla. Era questo, lo spirito cubano - Einar sorrise con un certo orgoglio, nascondendosi dietro al bicchiere di vetro.
Il biondo si posò la mano sul petto e, per un attimo, fu indeciso se presentarsi come Felipe o meno - ci ripensò pochi secondi dopo: sentiva stupidamente che fosse qualcosa soltanto di Einar. "Io Filippo." disse ed avrebbe voluto aggiungere quanto bello fosse il suo nome, ma non seppe come dirlo. Guardò la bambina. "Y tú?"
"Yanet" rispose immediatamente lei, investendo i due di una ventata d'entusiasmo, facendoli sorridere, tanto che la nonna scoppiò in una risata - la bambina scattò in piedi e corse nella cameretta (l'unica della casa, dove dormivano entrambe) a prendere qualcosa che voleva mostrare ai ragazzi. "Yanet vive conmigo desde cuando era pequeña: sus padres murieron muy jóvenes - ay, pobrecitos" scosse piano la testa la donna, approfittando dell'assenza della piccola. "Hacemos una vida sencilla - pues muy sencilla" indicò l'ambiente che li circondava con un sorriso delicato "- pero tenemos todo, ¿no creéis? El amor, una casita pequeñita y bonita - los postres" rise indicando i dolcetti sul tavolo.
Einar si voltò verso Filippo per vedere se avesse bisogno di una traduzione, sebbene lei stesse parlando più lentamente proprio per far capire anche lui - era sicuro che ormai riuscisse a comprendere un minimo, circondato da più di dieci giorni da soli cubani.
Filippo gli sorrise piano, tornando ad osservare attentamente la vecchietta mentre parlava: chissà se Yanet sapeva quanto fortunata fosse con la sua abuelita. Bevve un po' di succo e scosse la testa, provando ad ignorare i ricordi, i pensieri: era così difficile, sempre. Inspirò profondamente e mangiò un altro po' di dolce. "Siete ricche anche solo per questi." provò a scherzare con la bocca piena.
Il barman tradusse quella frase alla donna, che si era chinata un po' più in avanti per capire meglio cosa avesse detto Filippo - allora lei sorrise, un sorriso enorme e solare, che si fece ancora più ampio quando Yanet riapparse in salotto correndo con una bambola in mano.
"¡Mira! ¡Mira las trenzas!" urlò esaltata quella, tirando la t-shirt dell'italiano (che negli ultimi giorni aveva deciso di rubare sempre più spesso la maglia animalier di Einar) per mostrargli l'acconciatura che aveva fatto alla bambola di pezza - "La hice yo, esta muñeca" sussurrò l'anziana ad Einar che non ne fu per nulla sorpreso: la maggior parte dei giochi, lì, erano arrangiati.
Il ventunenne rise piano. "Muy buena!" esclamò osservando le treccine, che era davvero l'unico complimento che sapeva fare. La bambina gli sorrise felice e si sedette di nuovo a tavola, decisa a fargli vedere di nuovo come si facevano le trecce.
E Filippo non sapeva più com'era passato da fare le trecce ad una bambola di pezza al camminare sulla spiaggia con Einar - era come se per i momenti successivi fosse stato totalmente assente. Forse, però, non era assenza, era soltanto... Sovrappensiero. Forse troppo - osservò la bustina con i dolcetti che la donna aveva regalato loro e scosse il capo - decisamente troppo.
Si sedette nel loro rifugio privato e puntò gli occhi al cielo: avevano riso per i suoi vari tentativi di fare le trecce, poi avevano parlato ancora un po' e quando Einar aveva annunciato che si stava facendo tardi, la signora aveva gentilmente confezionato per loro quei pochi dolcetti rimasti, sorridendo a Filippo. "Te gustan mucho, ¿no es así?" aveva detto, come spiegazione e quest'ultimo l'aveva guardata sorpreso, prima di annuire. Sì, sì, gli erano piaciuti così tanto, ma - si schiarì la gola, sentendo gli occhi inumidirsi. Non sapeva nemmeno perché gli venisse da piangere così, perché un gesto così gentile gli facesse venire voglia di piangere. Chiuse gli occhi ripensando al modo in cui lo aveva salutato, abbracciandolo forte e... Fanculo. Era totalmente inspiegabile, lui non voleva piangere, voleva soltanto starsene in pace su quella fottutissima spiaggia.
Avevano camminato fino a lì in silenzio, spalla a spalla, le mani che si sfioravano di tanto in tanto: Einar aveva rispettato il modo in cui Filippo si era chiuso, in cui si era perso in qualche pensiero, e allora lo aveva seguito in spiaggia - forse c'erano arrivati senza aver deciso davvero di andarci, era stato naturale rifugiarsi in quel posto un po' loro. Si appoggiò ai gomiti, sentendo la sabbia fine contro la pelle, ed alzò gli occhi verso il cielo stellato, le caviglie incrociate - silenzio, silenzio e le onde che si infrangevano lentamente.
Filippo si stese del tutto, passandosi le mani sul viso e tornando a guardare le stelle, mandando giù il magone. Allungò una mano per stringere quella del barman che gli era più vicino e sospirò piano. "Vieni qui." gli disse, tirandolo verso di sé, sperando capisse quanto volesse abbracciarlo.
"Ehi" mormorò quello voltandosi su un fianco per abbracciarlo meglio, le labbra che andarono a posarsi automaticamente sulla sua spalla, che la sua maglia, a Filippo, stava un po' larga e gli lasciava quella porzione di pelle scoperta - un piccolo succhiotto, sì, proprio lì sulla gola, che Einar non aveva resistito.
Il cantautore gli baciò una guancia e poi le labbra, stringendosi a lui. Aveva così tanta voglia di non pensarci, ma sembrava che il suo corpo non volesse ascoltarlo. "La signora, Caridad, è stata davvero gentile." fece, sussurrando contro la sua bocca.
"Sì" sorrise lui, la mano a scivolare tra i suoi ricci - si incastrò in una treccina che era rimasta lì, ancora intatta. "Siamo a Cuba, no?"
"Sì." soffiò quello. "Però - sono tutte uguali, no? Le nonne." rifletté, nascondendo la faccia contro il suo collo.
Einar portò la mano giù, sulla sua schiena, premendoselo meglio addosso, mentre avvertiva la pesantezza di quella domanda, il modo in cui l'argomento gravava sulle spalle di Filippo - respirò piano. "In tutte le parti del mundo" confermò allora.
Il cantautore si lasciò scappare un sospiro umido e tirò su col naso. "Già, sono così -" si schiarì la gola non appena si accorse di avere la voce spezzata. "- i dolci delle nonne sono impagabili." concluse, non sapendo cosa dire altrimenti.
E il cubano se lo strinse meglio addosso, gli occhi socchiusi mentre cercava di capire quale tempesta si stesse agitando dentro Filippo - gli baciò i capelli. Da una parte voleva rispettare il suo silenzio, voleva dargli il tempo di cui aveva bisogno, ma dall'altra voleva aiutarlo, voleva capire cosa gli stesse passando per la testa, cosa lo rendesse così vulnerabile, così malinconico. "Mi abuela fa dei dolci terribili," scherzò "che inventa ricette y espesso sono - no son comestibles, ¿no?"
Filippo rise piano, scuotendo il capo. "La mia, invece..." cominciò, mordendosi poi un labbro. Prese un respiro profondo e gli baciò il collo. "Cucinava davvero bene." continuò a bassa voce, pentendosi quasi subito di aver iniziato il discorso.
Il contrasto tra i tempi verbali utilizzati fece schiudere un po' le labbra al cubano: qualcosa strideva, nella frase pronunciata da Filippo. Cucinava, aveva detto e poi - oh. Ecco. Ecco. Doveva essere quella la ragione per la quale lo aveva visto incupirsi così, chiudersi, lasciarsi prendere da una strana malinconia che -
"Te cucinava tanti dolci?" chiese allora, un piccolo sorriso sulla bocca. E lo disse quasi per cercare di arricchire il discorso, per mettere l'altro a proprio agio, per fargli capire che non doveva per forza parlarne fino in fondo, che forse bastava semplicemente che lasciasse andare il peso via piano, con calma.
"Sì." sospirò quello, strofinando il naso contro la sua guancia. "Erano così buoni." mormorò, stringendo le labbra subito dopo.
Quello lo baciò, unendo finalmente le labbra alle sue, le dita sotto il mento ad alzargli il viso - aveva contato le ore per arrivare a quel momento, alle barriere che la notte gli costruiva attorno, per poterlo baciare con tutta la calma del mondo. Voleva imprimere in quel bacio tutta la serenità che sentiva dentro, voleva dargliela fino all'ultimo briciolo, voleva che la prendesse tutta per sé e che ci si lasciasse invadere.
Filippo provò a tirarselo addosso, senza smettere di baciarlo - le lacrime che gli scendevano sul viso senza che se ne accorgesse.
Einar lo sovrastò col corpo, gli si premette addosso, tanti piccoli granelli di sabbia ad incastrarsi tra le pieghe dei loro vestiti - proteggerlo, Einar voleva proteggerlo da tutto, voleva proteggerlo dal vento che si era alzato, dal rumore lontano di una festa ancora in atto. Voleva proteggerlo dalle emozioni che Filippo sentiva dentro, dalla tristezza che gli era caduta addosso e che non riusciva più a sopportare da solo, che lo faceva spezzare per il peso. Allora baciò via quelle lacrime, piano, dolcemente, una per una, respirando sul suo viso. Lo capiva così tanto, lo capiva più di quanto pensava che fosse possibile - chiuse gli occhi, baciando via un'altra lacrima.
Il cantautore strinse tra le mani la maglietta dell'altro, provando a trattenere le lacrime senza riuscirci. Si sentiva completamente in balia di tutte le emozioni che aveva represso in quei mesi: era confuso, triste, arrabbiato - tutto insieme. Strinse forte gli occhi, lasciandosi baciare.
E quello lo baciò, lo baciò con tutta la delicatezza del mondo, lo baciò sfiorandogli le guance con le labbra, assaporando quelle gocce salate contro la lingua - lo baciò e lo strinse, coi vestiti che frusciavano appena, mentre lui piegava un ginocchio per farglisi meglio addosso, per far sentire di più la sua presenza, il suo appoggio. Lo baciò sul mento, lì dove era arrivata una lacrima, poi giù, sulla gola - posò la fronte contro la sua, in totale silenzio.
"I serpenti sulla mano non le piacevano." cominciò con la voce rotta, guardandolo negli occhi. "Glieli ho fatti vedere appena li ho fatti e lei si è spaventata." sorrise piano con gli occhi lucidissimi.
Einar sorrise, la mano che scivolava d'istinto lungo il suo braccio, seguendo le linee di inchiostro nero. "Escometto che però te ha dicho che erano muy belli, vero?" mormorò tornando sdraiato su un fianco, ma sempre appiccicato a lui.
Quello annuì, tirando su col naso. "Sì, giusto per farmi -" chiuse gli occhi e deglutì. "- farmi felice."
"Lo sai," mormorò l'altro asciugando le ultime lacrime con i pollici - piano, piano, delicatamente - "non c'è niente de male a sentirci tristi, no? Tristes per le persone che ci mancano, no? Es normal echarlos de menos, significa che erano importanti per noi y che lo saranno sempre" gli disse, gli occhi nei suoi ed un sorriso sulle labbra.
"Llorar nos hace humanos, Feli" aggiunse poi.
Piangere ci rende umani, già: cosa lo rendeva non aver pianto quando avrebbe dovuto? Strinse forte le labbra, ma poi sbottò, incapace di trattenersi oltre - si sentiva così stanco, così esausto. Scoppiò in lacrime, stringendosi fortissimo all'altro, quasi gli servisse da àncora. Forse lo era stato, in quei giorni, l'unica cosa che lo tenesse a galla.
"Ehi..." mormorò Ein qualche minuto dopo, mentre continuava a consolarlo, a cullarlo in quell'abbraccio che era diventato stretto come una morsa. Gli accarezzò la testa, la schiena, percependo quel momento come - probabilmente - l'ultimo passo di Filippo verso la totale libertà: l'aveva ricercata tanto, quella libertà, e non riuscire a trovarla era diventato un peso, un peso che quello si era trascinato ovunque per mesi e mesi, spezzandocisi sotto. E poi eccolo, a Cuba per caso, in quel locale dove era entrato per caso, dove aveva trovato lui, lì, per caso, che ballava: e da lì era stato tutto un vivere, così, a caso, un vivere il momento e liberarsi pian piano.
"Scusa." sussurrò Filippo, appena riuscì a parlare. "Scusa, io non -" scosse il capo, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
Quello gli baciò il palmo della mano, il naso premuto appena contro. Gli si fece più vicino - era davvero possibile farglisi ancora più vicino? - e posò le labbra sulle sue, brevemente.
"Va tutto bene. Tutto bene" mormorò facendo cadere il silenzio per qualche attimo. Ma poi iniziò a riempirlo di tanti bacini a stampo, ovunque sul viso, producendo degli schiocchi umidi e buffamente rumorosi, le mani sulle sue guance - che voleva sentirlo ridere più di ogni altra cosa al mondo.
Il biondo sbuffò divertito, alzando gli angoli della bocca in un sorriso - gli ci volle poco per cominciare a ridere, infilando le mani tra i ricci dell'altro. "Ein." lo chiamò, cingendogli la vita con le gambe.
"Te comiste todos los dulces, hoy" la lagnò quello. "Como los niños - no me dejaste tampoco un dulcito" continuò, le labbra protese in un fintissimo broncio.
"Te ne ho lasciato qualcuno, sai?" confessò l'altro, sorridendo un po'. "Anche se sembri tu il niño così." rispose, baciandolo sul naso.
Einar socchiuse gli occhi sorridendo, la mano tra i suoi capelli, ancora quella treccina intatta a bloccargli il passaggio che lo fece imbronciare davvero. "Sì, es que-" sbuffò "- tienes esta jodida treccia che -" si tirò su a sedere, indispettito, le dita tra le ciocche per mettersi a disfarla - lo sguardo concentrato, nonostante stesse lasciandosi guidare dal tatto, che era davvero buio.
Filippo rise piano e si allungò a baciarlo - lo baciò forte, come a volergli cancellare quel broncio assurdo, ignorando il cellulare che vibrava in tasca.
"Fammi togliere esta treccia" lo morse lui, sottraendosi a quel bacio fino a cadere sdraiato sulla sabbia - sorrise. Non te l'ho mai detto: tu mi fai stare bene, desiderò dire, ma non riuscì, si limitò a pensarlo.
"No, no, no." rispose il cantautore e lo baciò ancora, quasi per dispetto. "La togli dopo."
"Dopo quando?" domandò con un sorrisetto quello, le gambe adesso leggermente divaricate, per farlo aderire meglio a sé.
"Dopo." mormorò ed appoggiò la testa sulla sua spalla, lasciandogli un bacino sul collo.
Einar chiuse gli occhi, le braccia a cingergli il corpo: si sentiva tanto bene, troppo bene, così rilassato e in pace col mondo - così in linea con la sua filosofia di vita, quella che aveva trasmesso anche a Filippo negli ultimi giorni e della quale andava piuttosto orgoglioso.
"È stata una bella giornata" mormorò, mentre un'onda colpiva il bagnasciuga con poca più forza.
Quello restò in silenzio, continuando a dargli qualche bacio qui e lì. Non si era ancora ripreso dal pianto di prima e non gli andava poi molto di parlare, ma si sforzò. "La partita è stata divertente."
La risposta dell'altro assomigliò allo sbuffo di una risata, mentre gli si accoccolava di più contro - "Sì" rispose però. Subito dopo seguì altro silenzio ed Einar socchiuse gli occhi, un sospiro assonnato che scivolava via dalle labbra senza che quasi se ne rendesse conto.
"Quando ho bisogno de parlare con mio papà vengo al mare - quando tutto va male, sai, o quando estò muy triste" disse pianissimo, pensando per un attimo di averlo solo pensato. "El suo respiro está nel rumore delle onde."
Filippo lo strinse un po' di più. "Non ho pianto, sai?" sospirò, sperando di non averlo detto ad alta voce. "Al funerale non ho pianto." chiarì, chiudendo gli occhi.
Oh. Quella confessione colpì forte il cubano, che sentì tutto il peso, tutto il senso di colpa di Filippo, tutta la rabbia verso se stesso. "Questo non significa che tu non abbia sofferto" mormorò posando un bacio - in realtà solo sfiorando - sull'angolo dell'occhio e percependo ancora il sapore salato delle lacrime di poco prima. La sua sofferenza e la sua rabbia lo facevano sentire, in un certo senso, meno solo, che per quanto lui si fosse consumato a furia di piangere, l'idea di non essere riuscito a dire addio un'ultima volta a suo padre lo massacrava.
L'italiano annuì soltanto, portando una mano sul suo viso ed accarezzandogli una guancia. Appoggiò la fronte contro la sua e lo baciò piano, avvertendo la tristezza dell'altro farsi spazio - aspettò fosse lui a parlare, non fiatò.
"Lo sai quante ore dura un viaje en treno da qui a Santiago - mi casa?" chiese d'un tratto, quella malinconia che aveva assorbito da Filippo e aveva fatto sua - voleva condividerla, voleva condividere anche quella. "Quasi quindici ore. E non ci sono nemmeno todos los días, i treni che arrivano fino là, sai? L'aereo, invece, cuesta troppo per un cubano medio" buttò fuori, poi deglutì piano. "Non ho potuto salutare mio padre. Dirgli -" scosse la testa, nascondendosi contro di lui.
Filippo gli lasciò un bacio tra i capelli e lo strinse a sé, accarezzandogli la schiena. "Credo lo sapesse, sai." mormorò. "Sapeva che lo amavi quanto lui amava te."
Einar annuì piano, quasi si accartocciò contro di lui, come se avesse tenuto dentro per troppo tempo quella colpa che sentiva, quella colpa che a volte era così pesante da sostenere, da farci i conti - annuì ancora e ancora, brevemente, quasi a volersi convincere delle sue parole.
Il cantautore gli baciò la fronte e tenne stretto stretto a sé, quasi volesse proteggerlo da quello che provava - quel familiare senso di colpa. Tornò a riempirgli il viso di baci umidi per farlo distrarre un po'.
E lui si lasciò contagiare da quel momento di leggerezza, da quell'atmosfera totalmente rilassata - seppur malinconica - dentro alla quale continuavano a farsi piccole confessioni e poi a consolarsi e ancora dopo a baciarsi, per ricominciare un attimo dopo con le ammissioni di colpe che sentivano dentro - facevano un po' meno male, adesso. Solo un po' meno male, ora che erano state condivise.
"Tus besitos molestos" scherzó allora, cercando di allontanargli il viso, divertito.
"Te gustan i miei besitos molestos." rispose quello, ridendo un po', mentre si metteva su di lui per dargliene ancora ed ancora. Era così bello, pensò, così bello che quasi gli faceva male: si perse per un attimo a guardarlo in quegli occhi blu (ma che a volte erano azzurri, altri grigi, altri ancora chissà) e divenne serio all'improvviso, sospirando piano e baciandogli la punta del naso senza abbandonare il suo sguardo. Cazzo, si sentiva così pieno di sentimenti che quasi gli fischiavano le orecchie, mentre nello stomaco sentiva mille e più farfalle. Chiuse gli occhi mentre strusciava il naso contro il suo, poi la fronte, respirando sulla bocca del barman - nell'aria una tensione diversa da quella sessuale, però quasi complementare.
"Ein." soffiò, portando le mani ai lati del suo viso e riconoscendo nei suoi occhi i suoi medesimi sentimenti - condividevano tutto, sembrava. "Einar, Dio, voglio fare l'amore con te." mormorò, quasi stesse svelando un segreto.
Voglio fare l'amore con te - quel sussurro, ad Einar, esplose in testa, gli esplose ovunque, fino alla punta delle dita che si mossero ad accarezzargli il viso, fino alla bocca che raggiunse la sua in un bacio. Chiuse gli occhi dopo aver fatto suo quello sguardo, dopo aver tremato contro quel corpo che aveva imparato a conoscere, che aveva avuto il permesso di esplorare e di avere - sospirò contro le sue labbra e - voglio fare l'amore con te - un sorriso enorme gli nacque sul viso, mentre iniziava a spogliarlo di ogni vestito inutile, di ogni più futile emozione, che non serviva più niente, che si erano messi a nudo in tutti i modi, ormai. Solo loro, solo loro in quella spiaggia deserta, solo loro e l'eco di una canzone lontana. Solo loro e l'infrangersi lento delle onde. Loro e basta - e poi quei granelli di sabbia che gli si appiccicavano ovunque, che pizzicavano un po' e li faceva ridere dentro ad un altro bacio. Loro due, così come avevano imparato a convivere negli ultimi giorni, bastandosi e, in un certo senso, amandosi.
E lo fecero, sì, si amarono su quella spiaggia, tristemente inconsapevoli del messaggio arrivato poco prima sul cellulare di Filippo.
"Dopodomani vengo io a prenderti all'aeroporto, bro."*
*Bentornati a Cuba!
Insomma, inutile girarci troppo attorno: la partenza di Filippo è imminente, anche se lui ancora non ne è consapevole.
Sarà uno shock scoprirlo?
Buffo che la fine della sua esperienza a Cuba coincida proprio con l'ultimo fardello del quale Filippo si è dovuto liberare per essere finalmente davvero libero.
Caridad e Yanet hanno giocato un importante ruolo in questo capitolo e dolcissime, non trovate?Insomma: la vacanza è agli sgoccioli, Lorenzo è pronto ad andare a prendere Filippo in aeroporto.
Ma la domanda è: Felipe ed Einar sono davvero pronti a questa notizia?Fateci sapere cosa ne pensate di questo capitolo, se vi è piaciuto e cosa vi aspettate che possa accadere con la partenza imminente di Filippo.
E ricordate #cubalibreff su Twitter!A presto,
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Cubalibre || Eiram
FanfictionCOMPLETA | Eiram | 2017 e Filippo vede tutti i suoi sogni andare in frantumi, intrappolato in una realtà che gli sta stretta e che non gli permette di essere chi vorrebbe essere davvero. Cambiare aria potrebbe essere la vera soluzione: sì, ma dove a...