Non avevo mai pensato a cosa significasse essere felice. Nella mia testa avevo sempre immaginato la felicità come una chimera, qualcosa a cui tutti aspirano per anni, ma alla quale nessuno arriva mai. Ero convinto che il mio destino non fosse quello di essere felice, e stavo cominciando ad accettarlo.
In fondo c'è chi nasce bello, chi nasce ricco, intelligente, bravo a calcio. E sì, fra le varie opzioni, spesso qualcuno nasceva anche felice. Mi capitava sovente d'incontrare ragazzi così. Ragazzi che venivano fuori dall'utero materno con quell'ottimismo che li avrebbe contraddistinti per tutta la vita, e che sarebbe stato la causa della loro stessa felicità.
Io, a parer mio, non ero nato felice. O bello, o ricco, o intelligente (volendo la lista poteva continuare). Ma sapevo di avere un talento. O forse mi stavo convincendo di averne uno per evitare una crisi suicida. In realtà non avevo ancora scoperto quale fosse. Ero forse bravo a suonare la tromba? A giocare a scacchi? A cucinare? Chi poteva dirlo.
Iniziavo a pensare che fosse normale detestarsi così tanto, alla mia età. Avevo 15 anni, in fondo. Quell'età in cui sei tutto e niente. Avere 15 anni per me era come camminare su una corda, in bilico fra il voler restare bambino per sempre, ed il voler crescere, essere indipendente.
Smisi di definirmi "diverso dagli altri", anche se in realtà lo ero. Oramai non m'importava più del fatto che non m'importasse di nulla. Probabilmente ci ero nato, così. Piatto come la pianura, senza passioni, senza interessi e senza motivazioni.
Non mi ero mai riconosciuto nei coetanei che incontravo per strada: tutti troppo idioti, troppo sicuri di sé, troppo convinti che il mondo girasse intorno a loro. Ma soprattutto felici. A volte anche troppo, per essere credibili.
Probabilmente fingevano, sì. Probabilmente passavo vicino a miei "simili" diverse volte al giorno, ma non riuscivo a riconoscerli. E perché no? Perché si uniformavano alle masse. Avevano paura, loro. Paura di non essere accettati, di restare soli.
Io non avevo paura di restare solo. In fondo lo ero dalla nascita, tutto il resto era stata solo una dolce illusione. E quindi ora non mi importava più di dovermi amalgamare agli altri. Avevo smesso di mangiare meno di 1000 calorie al giorno per non ingrassare. Avevo smesso di preoccuparmi dei brufoli, dei capelli in disordine. Semplicemente non m'importava. Ero solo quando mi facevo mille paranoie, lo sarei stato anche quando avrebbe smesso di importarmene, no?
E a me andava bene così, davvero. Ero abituato alla solitudine. Non ci facevo neanche più caso, oramai amavo essere da solo. Quando arrivava il venerdì non facevo altro che pensare al sabato sera. Ci pensavo, perché finalmente sarei potuto stare a casa in pigiama senza preoccupazioni per il giorno successivo. L'idea di uscire, socializzare, stare a contatto con le persone non mi toccava minimamente. Non più, ormai.
E sì, pian piano stavo imparando ad accettarmi per quello che ero: non malato, gravemente obeso, senza denti, omosessuale o quant'altro. Stavo solo capendo che la solitudine era il mio destino. Le mie future fantasie sullo sposarmi e avere bambini avevano cessato di esistere da qualche mese. Per me era diventato naturale pensare di morire da solo. Neanche ci davo più peso, quando qualcuno faceva qualche commento cattivo su di me. Avevano ragione, in fondo. Qualsiasi cosa dicessero, loro avevano ragione.
Sarei cresciuto in solitudine, invecchiato in solitudine e morto allo stesso modo. E a me stava bene. Mi spaventava pensare che in realtà mi andasse bene, ma era la verità.
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Ti Amo da Solo
Teen Fiction"Sarei cresciuto in solitudine, invecchiato in solitudine e morto allo stesso modo. E a me stava bene. Mi spaventava pensare che mi andasse bene, ma era la verità."