Capitolo 10

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«D'accordo, allora a presto.»

Chiusi la conversazione cercando inutilmente di far rallentare il mio cuore.

Giulia si era accorta della mia esistenza, mi aveva chiamato.

Avevamo passato due minuti a parlare, era stata la nostra prima conversazione.

«Sto chiamando tutti voi della classe per informarvi che stasera vi aspetto a casa mia. Festeggiamo la mia guarigione, e tu puoi approfittarne per conoscere tutti. Mi farebbe piacere averti. Se ti va, ho parlato con Matteo e ha detto che può passare da te alle sette.»

Aprii l'anta dell'armadio, iniziando a guardarmi allo specchio.

No, non ci sarei andato.

Oramai era una settimana che aspettavo questo momento, ma sarei rimasto a casa.

Non era stata una decisione ponderata, in realtà. Avevo avuto le idee chiare fin dal primo istante.

La gente non fa per me. Non posso andarci, non posso.

Il cuore continuava a battere sempre più forte, oramai era impazzito.

Uscire di casa avrebbe significato fronteggiare tutti i demoni che vivevano dentro di me.

E se mi trovano noioso? E se dicono che sono brutto?

Ero davvero disposto a sconfiggere tutte le mie paure e a distruggere la mia apatia, solo per conoscerla?

In pigiama e col cuore scalpitante, presi in mano il cellulare e feci partire una canzone a caso.

When I look into your eyes

It's like watching the night sky

or a beautiful sunrise, there's so much they hold.

Era sufficiente.

Avevo passato gli ultimi mesi chiuso in casa, rifugiato nel mio dolore che sembrava non dovesse passare mai. Tutta la sofferenza e tutte le umiliazioni avevano lasciato un marchio indelebile nella mia anima.

Il ricordo di quel pomeriggio di Maggio, il terrore negli occhi delle persone che più amavo al mondo. E poi i lunghi giorni di silenzi. Nessuno sapeva cosa dire, nessuno aveva ancora voglia di vivere.

Erano tutte cicatrici che avrei portato per il resto della vita.

E quindi sì, ero diventato asociale. Mi vergognavo di me stesso, mi vergognavo a condividere l'ossigeno con le persone.

Ed era strano, era così strano.

Un ragazzo che sembrava così forte all'esterno, dentro era una bomba ad orologeria. E dentro di me non c'era nulla. Forse erano rimasti gli organi, forse circolava ancora un po' di sangue.

Ma poi?

Avevo tagliato i ponti con l'umanità già da un po'.

E non ci stavo male. Stavo così bene nella mia solitudine. Ero felice solo quando ero chiuso in camera, isolato dal resto del mondo.

Ciò che mi faceva star male era il fatto che non ci stessi male. Mi sembrava tutto naturale, normale.

Ma non c'era nulla di normale in me. Forse un tempo c'era stato, ma ora no. Ero diventato l'ombra di me stesso, un fantoccio dallo sguardo spento.

Avevo quindici anni, ero stato invitato ad una festa e mi ritrovavo seduto sul letto meditando il da farsi: andarci? O restare a casa a drogarmi sperando che il dolore passasse?

Ero stufo. Era ora di cambiare. Anche se ciò avrebbe significato sentirmi costantemente a disagio quando a contatto con i miei coetanei.

E' davvero ora di cambiare? Ne vale la pena?

E in effetti la risposta era no: non ne valeva la pena.

Una sola serata non avrebbe cambiato le cose. Una sola serata non avrebbe fatto innamorare Giulia di me. A stento avrei rivolto la parola a qualcuno.

Ero da solo.

Come lo ero sempre stato. Da solo con me stesso.

E non importava quanto tentassi di convincermi del contrario, quanto cercassi di pensare positivo. Io ero solo.

E toccava a me decidere di cambiare le cose.

Tornai alla realtà guardando l'orologio sul mio polso sinistro. Erano le 18:00.

Avevo un'ora per prendere una decisione. Un'ora per decidere se valesse la pena passare una serata orribile solo per avere qualche minuto da passare con Giulia.

Un'ora per decidere se valesse la pena tentare di ricominciare a vivere.

Ti Amo da SoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora