Capitolo 18

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Zia Lucia per me era più di una semplice zia.

Era una di quelle persone che per me c'era sempre stata, in qualsiasi circostanza. E, per quanto durante i primi giorni avessi tentato di non pensare a ciò, la cosa che più mi faceva star male era il fatto che avessi perso la persona che più mi era stata vicino durante quei giorni di giugno.

Non era stata la mamma a tenermi la mano, quando ero uscito dalla sala operatoria. Era stata lei.

Non era stato papà a parlare con i medici, per accertarsi che stessi bene. Era stata lei.

E ora lei non esisteva più. Era andata via, scomparsa in un modo assurdo. Non era più una persona, non era più nulla.

Non avevo mai condiviso l'euforia generale che accompagnava la morte di una persona amata: un funerale in grande stile, un bellissimo vestito per la salma, bellissimi fiori da poggiare sulla bara. A tutti gli altri queste cose sembravano doverose, come se il defunto avesse davvero potuto trovare giovamento grazie a una cerimonia in pompa magna.

Io non la pensavo così. Non riuscivo a capire il senso di tutto ciò.

A tal proposito ero un ragazzino molto realista. Zia Lucia era morta, non esisteva più. C'era ancora il suo corpo, ma ciò che la rendeva zia Lucia ormai era andato.

Col senno di poi posso dire che non la penso più così. Suppongo che quando accadano degli eventi particolari, si sia costretti a cambiare un po' la propria visione delle cose.

E, pensandoci, anche allora mi ero reso conto che forse erano solo i familiari della persona deceduta, a trovare giovamento in una "festa d'addio" esagerata. Pensai che in qualche modo, spendendo migliaia di euro, riuscissero ad accettare la perdita più facilmente.

Giulia era seduta sul mio letto, di giovedì pomeriggio

I funerali della zia si sarebbero svolti fra qualche ora, ma io avevo deciso di restare a Torino.

Mamma e papà, ovviamente, avevano accettato la mia scelta. Ne erano stati costretti.

Sapevamo tutti che avrei avuto un altro arresto cardiaco, se avessi visto il suo corpo in una bara. Lei se n'era già andata, ma vederla lì, distesa immobile, mi avrebbe sicuramente fatto un certo effetto.

E quindi avevo scelto di restare da solo, al Nord, aspettando che quei momenti passassero.

Ormai era il terzo giorno che trascorrevo da solo. Loro due, oltre a lasciarmi più soldi di quelli che mi sarebbero serviti in un anno, mi avevano detto che volendo avrei potuto restare a casa.

E così avevo fatto.

«Ne vuoi parlare?»

«No, sul serio. Non c'è nulla da dire.»

Giulia si era alzata lentamente dal letto, andandosi a piazzare dietro alla sedia sulla quale ero seduto io, accanto alla scrivania.

«Non è "nulla", è il contrario di "nulla". Ti prego, ti prego, dimmi qualcosa.»

Aveva ancora la lingua bianca. Ancora bianca come il primo giorno in cui l'avevo vista, che ormai mi sembrava secoli fa.

«Giulia, tu...»

Mi fermai, sperando che le sarebbe bastato.

«Sì, continua. Io...?»

Sbuffai internamente, facendo un piccolo respiro profondo dal naso.

Non sapevo cosa dirle, non sapevo come giustificarmi.

«Ascolta, tu sei una ragazza fantastica. E credimi se ti dico che ti ringrazio per essere venuta qui ad assicurarti che stessi bene. E puoi restare per tutto il tempo che vuoi. Però io... non voglio parlarne. Per favore.»

Fece un piccolo sorriso amareggiato, poi tornò a sedersi sul letto.

«Lo sapevo.»

Aspettai che fosse tornata a guardarmi, prima di risponderle.

«Sapevi che cosa?»

«Che non eri perfetto. Lo sapevo, io lo sapevo. Lo sapevo che avevi qualche segreto. Qui tutti hanno un segreto, è assurdo.»

Notai che i suoi occhi avevano incominciato a inumidirsi.

«E' solo che credevo che per una... per una volta, avevo trovato la persona giusta.»

«Giusta per cosa?»

«Giusta per tutto, giusta per tutto. Per poterle parlare del mio segreto. Perché anch'io ho un segreto, sai?»

La voce di Giulia era la più triste che avessi mai sentito. Secondo dopo secondo continuava a piangere sempre più intensamente.

«E proprio quando penso che finalmente posso fidarmi di qualcuno che non sia Sam, vengo da te, pronta a parlartene, e ti trovo a drogarti con delle pasticche. E poi ti chiedo spiegazioni e dici che non me ne vuoi parlare.»

Mi alzai di scatto dalla sedia, andandomi a sedere accanto a lei.

Se solo sapesse quanti altri segreti custodisco.

«Ohi... Giulia», tentai di dirle, «tu puoi dirmi tutto.»

Con l'indice e il medio della mano destra le sfiorai il mento in modo da alzarle la testa, perché mi guardasse negli occhi.

«Anch'io ci tengo a te. Tengo a te più di chiunque altro. E non è colpa tua se non te ne voglio parlare. Sono io, capisci? Io non ho mai parlato a nessuno di me. E ora, tutt'a un tratto, Matteo si interessa a me, Claudia si interessa a me, e così tu, e Sam. E io mi sento così... sopraffatto... dall'affetto che sto ricevendo, che non riesco a mettermi l'anima in pace. Cioè, non riesco a rendermi conto che è affetto vero, non realizzo che c'è davvero qualcuno a cui importa di me. Ecco perché non te ne voglio...»

E all'improvviso non esisteva più nulla. Ed eravamo io e Giulia, Giulia ed io, e la mia lingua rosa sulla sua lingua bianca.

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