Fogli

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Lo senti questo sole che sbatte? Cerca di entrarti dentro il corpo. Non ti fa paura?

Finirà per lacerare la tua pelle. I suoi raggi piovono sugli occhi tuoi e cercano di penetrarti l'iride. Desiderano colorarla e tenerla tutta per loro.

Questo sogno fa un pò da scudo.

Sono vicina ai miei fogli bianchi, che da piccola non ho mai scarobbocchiato.

Li abbraccio e li tengo stretti a me, come se fossero l'ultimo mio collegamento con questo mondo.

Alcuni sono bagnati, altri stropicciati; ma io, giuro non ho fatto nulla.

Ci siete stati per convenienza, per rispondermi, ma io stavo meglio senza affermazioni, senza scuse e senza spinte.

Eppure, i miei fogli mi conoscono più di chiunque altro.

E non è vero che sono bianchi, puri, nuovi; li avrò sfruttati tante di quelle volte, che di bianco non ne è rimasto nulla.

Io li ho sempre visti bianchi, forse per salvarmi da loro.

Ma li ho sporcati tante di quelle volte, che mi sono cascati dal cielo come pianeti persi.

In uno ho trovato i miei occhi, avvolti da una polvere di oblio; stanchi e pieni di nero. Scartati dal mio corpo, ignari della loro esistenza, privi della propria vista; fragili e poco illuminati. Persi e svuotati. Aridi, bruciati e avidi di speranza.

In un altro ho trovato solo angoli: di tutti i tipi.

Pendii, dirupi, montagne, valli, terre, rocce; tutto ciò che avrei voluto che restasse fermo.

In un altro, solo cappi.

Di ogni dimensione e misura. Lì per essere scelti, dalle mie mani, dal mio collo e dal mio odore.

In un altro solo scarabocchi, densi come le mie crune.

In un altro c'era lui. Che non reggeva i miei battiti, che schivava i miei sogni. Solo un'ombra, che riusciva a vedermi prima di chiunque altro.

In un altro c'ero io. Ed è stato il primo che ho perso, il primo che ho necessariamente sporcato.

L'ho sporcato delle mie idee, delle mie tristezze; dei miei perchè, delle mie non risposte, del mio silenzio. C'ero io, sdraiata su una spiaggia, senza orizzonte. Senza una fine. Io, che non mi sono amata. Pronta per gettarmi in acqua, colta dalla paura della vita.

Io, pronta per ricongiungermi con il mio addio.

Pronta per divenire il pasto del mare.

E in quel momento, in stasi, col desiderio di uccidermi ho sperato che i pesci riportassero il mio cadavere alla mia famiglia.

I miei resti al mio corpo. La mia anima, al mio stato.

Le mie emozioni ai miei guantoni.

E non mi ha fatto male il mio abbandono, ma la consapevolezza di non essere mai stata indecisa sulla mia fine.

Avrei voluto far volare un ultimo aquilone: ho sempre odiato vederli volare via.

Così liberi, da cancellarsi unicamente da soli.

Scappano via, per poi tornare. A volte ti piombano addosso. E ti fanno male.

I miei aquiloni in quel foglio acre erano i miei ricordi, il mio passato che bussava sempre alle mie porte. Io, non rispondevo mai. Lui, quelle porte le sfondava.

Voleva avermi ogni giorno. Io gli ho consegnato i miei occhi, le mie orecchie, il bene, i miei sottofondi, i miei silenzi, le mie gambe perfino, il mio rifiugio, il mio rispetto e le mie confessioni.

Ho mentito a me stessa per evitarlo. Mi sono persa dentro me stessa, provando così tanto dolore da abituarmi.

Avrei voluto esprimermi dentro di esso; dentro i miei ricordi avrei voluto piangere, soccombere, costruirmi una lapide e sbatterci la testa addosso.

Erano le mie umiliazioni, gli occhi degli altri, i miei traumi, la mia pioggia che bruciava sulla mia pelle.

Avrei voluto bruciarli quei fogli. Sono diventata aggressiva nei loro confronti. Ma contenevano tutto. La mia bomba, il mio cuore e il mio veleno.

Avrei voluto sbattere il mio capo su un chiodo per sconfiggerli, per farli andare via da me.

Strozzarmi, con le mani degli altri.

Sono circondata da loro, in paranoia, che cercano di sfondarmi, perseguitandomi.

Quando stavo per esplodere, loro mi hanno placata. Quando ero calma, mi hanno resa aggressiva. Così tanto da volermi azzannare, così tanto da prendermi di scatto il collo e girare su di esso.

I miei fogli, hanno esaudito tutte le mie cattiverie.

E si sono accorti, del gelo che provo, quando parlo con me stessa.

Che non mi rispondo e che cerco di parlare con gli altri, che mi raffreddano ancora una volta; arresa me ne torno dentro la mia dimensione. Congelata dall'odio e priva di ogni forma di movimento.

Loro sanno che dentro tengo l'inverno e di quanto io abbia il bisogno di raccontarlo.

Girano tra i miei neuroni, mi entrano dalla bocca; si posano sull'esofago, svalvolano tutti gli organi; rompono tutto ciò che c'è di vitale.

Guidano il mio corpo verso la necrosi, ma io, non muoio mai.

Mi allontano da me, mi allontano e non capisco mai come tornare indietro.

Vedo me stessa:la osservo.

Sono la cavia perfetta.

Sono me stessa fuori dal mio corpo estraneo.

E le giro intorno. Non mi riconosco.

Quella non è la mia faccia. Quelli che urlano non sono i miei pensieri.

Finisco col bruciare quei fogli, ormai anziani e appassiti; intrisi delle mie parole.

Loro, sembrano non vivere. Ma restano dentro di me.

E suonano e parlano, cantano la loro musica; si sposano con i miei tessuti ed entrano in crisi con la mia coscienza.

Sputano sui miei piedi stanchi e scordati.

Sputano sul mio coraggio.

Mi sputano la loro rabbia addosso.

Mi chiedono di tornare ai miei dieci anni.

Le mie memorie perdute stringono tra le loro sfumature quelle dieci candeline.

Mi rivedo, sorridente, felice di crescere.

Ancora la mia porta del perdono era aperta.

Ancora quel compleanno era prezioso e poteva essere il mio paracadute.

Ma quando ho deciso di volare, di buttarmi; non si è aperto.

Sono crollata.

E sono morta.

Sono sveglia di nuovo, non ho nessun livido.

I lividi sono dentra la mia testa che, una volta sveglia, decide di disegnare su quei fogli.


LagerWhere stories live. Discover now