Ne vale ancora la pena?

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E cosa resta davvero dentro la memoria?

Così inesorabile e tramutata dagli anni; così dipinta da mille sfumature ancheggianti armonie; bagnata dagli acquerelli che profumano ancora di chimico.

Cosa resta, se ci distacchiamo da essa?

Cosa resta veramente, se scordiamo di averla avuta?

Penso che ci sia l'ultima volta per tutti. Anche un'ultima volta, per i nostri ricordi impacchettati dentro la nostra memoria.

Per ritrovarli, abbiamo bisogno di dormire. Soccombere con le braccia e le gambe sul letto e scordarci, per un attimo, perfino di respirare.

Per ritrovarli, davvero, dovremmo dormire almeno per l'ultima volta.

Spogli delle nostre falsità, nudi di vergogna e pronti per affondare dentro la nostra dimensione.

E' in questo modo che ho percepito il mio corpo, come un'entità pura, come una luce dentro questo mio universo, che ho maltrattato col tempo.

Mi sono ritrovata, qui dentro, con i miei occhi; soltanto con i miei occhi, ho potuto constatare di quanto mi fossi allontanata dalla mia integrità umana e di quanto, malamente, avessi perso il mio contatto con la mia umanità.

E ho provato una paura, quasi incurabile; ho provato a circondarla quella mia paura, così assordante e l'ho immaginata e trasformata negli anni.

Adesso la immagino come un grosso albero, spoglio, senza foglie; con rami che grondano tremori, scossi dal vento gelido. La sua corteccia secca e smorzata dalla pioggia, che cerca calore dai miei occhi; occhi, che non donano nulla.

Ho provato ad abbracciarlo, numerose volte; e solo io, l'ho trovato meraviglioso, nella sua inquietudine.

L'ho abbracciato, nonostante le larve impietrite di Sarcofaga corteggiavano la sua corteccia e mangiavano i suoi resti; nonostante ciò sono rimasta con lui, ogni giorno.

Nonostante, le sue incrostazioni mi provocassero un dolore abominevole, io sono rimasta.

Restavo, perché sentivo che, quello, era il mio maledetto albero.

Era la mia ombra sul mondo, che avevo lasciato alla mia nascita.

Era il mio seme, io il suo frutto e i suoi fiori, che spiccavano nelle nudità di un clima impenetrabile. Fiori fantasma, che spalavano dentro la mia memoria, accorciando strade di vendetta e di oblio e avvicinando quelle della consapevolezza e della muta.

Era così inerme, ma io accanto ad esso brillavo come mai avevo fatto prima.

Brillavo e le sue decorticazioni, mi armonizzavano i fianchi, i nei, che venivano uniti dalla sua linfa morta insabbiata e secca, che desiderava scorrermi sui seni e sul ventre.

Ma io, non avrei mai potuto donargli nuovamente la vita.

Lui rappresentava a pieno la mia verità, il mio mondo e il bruciore che mi ha forgiato, un'altra volta scappata dalla pancia di mia madre.

E non mi restava altro che impacchettarlo sotto un lenzuolo bianco. Per proteggerlo, per rendere il suo marcio più duraturo.

Ma quel lenzuolo si sporcò subito di rosso, quasi a richiamare il mio sangue.

Quel lenzuolo si sporcò così tanto, che arrivò pure dentro di me la sua linfa stanca e offesa.

Era la sua forza, la sua luce, che tornava per avvilirmi, per sporcarmi, per rendermi partecipe della sua resa. Della sua fine e della sua perdita.

LagerWhere stories live. Discover now