"Cogli, questi resti"

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Stavolta, non so davvero da chi stavo scappando.

Stesso posto, stesse lapidi, stessi alberi; ma stavolta era giorno. C'era il sole cocente, che sbatteva sulle vene delle mie tempie, che scattavano sulla mia pelle, pulsando sangue che danzava dentro quei vasi sanguigni.

Fuggivo da qualcuno, pur non conoscendo le sue sembianze; ma fuggivo. E correvo, sotto il caldo che mi penetrava gli indumenti, che si poggiava sulla mia fronte e mi grondava il sudore sugli arti. Fuggivo ed ero molto stanca, affaticata. Quasi non riuscivo a reggermi in piedi. Cascavo sui prati verdi, ricoperti da ciottoli, da ortiche che mi frustavano le gambe nude che ricercavano un posto per riposare.

Ho incontrato un bambino nero, che giocava con dei fiori; era così solo e avrei voluto fargli compagnia, immersi nella sua solitudine; ma non potevo farlo e mi affliggeva tanto questo peso, quel bambino e quei fiori che avrebbero voluto soltanto essere sfiorati.

Quel bimbo vaneggiava una gioia che era stata tradita, un pò bruciata, ma che, nonostante quel reame brutto alla quale fosse stata abituata, riusciva ancora a regnare dentro i suoi occhi.

Quella gioia e quella speranza, brillavano su di lui come se fossero tante piccole stelle, che gli illuminavano la giacca; come se potessero abbattare ogni sua singola paura immonda.

Quando ho deciso di avvicinarmi alla solita lapide, che non ero mai riuscita a raggiungere, iniziò a piovere.

-Piove sulla mia testa calda, piove sul quel bimbo che scappa; i fiori scompaiono, cercando riparo intromettendosi nel terreno umido e puro ed io rimango da sola, ai piedi di quella lastra di cemento. Intrappolata dai soliti rami nodulosi che cercano sempre di proteggerla dal mio arrivo.

Ed io, la osservo: quella lapide, fredda e sola, che non si muove. Come un'onda anomala in mezzo ad un oceano, che lotta per essere la più grande ed insolita.

Attorno, il solito gruppo di uccelli, che cantano alle sue spalle. Cantano, la sua resa e la sua esistenza, come se fosse una lapide che contenesse un corpo ancora in vita.

Come se dentro l'oceano, navigassero i pensieri di quel moribondo che non si è fatto ancora vivo.

Di scatto, i rami degli alberi mi afferrano gli arti inferiori e mi tirano verso di essa; mi fanno del male, mi feriscono, ma finalmente li ringrazio per essersi avvicinati alla mia carne.

E davanti quel pezzo di marmo, vedo i miei occhi... così persi e freddi. La mia fronte spianata, i miei capelli che piumeggiano ondulati sullo sfondo, le mie guance gonfie che provano a riscaldare il mio sguardo e il mio sorriso, così accennato e inadeguato, che mi mette i brividi.

Sono io la moribonda, che aspettava da vent'anni. E' il mio corpo che stava affrontando l'oceano e, tutti questi uccelli, cinguettavano per me, per il mio arrivo e per la mia presa di consapevolezza.

Finalmente, si avvicinano anche loro a me; si posano sulle mie spalle, sulla mia lapide e il loro canto diventa sempre più triste. Mi stanno chiamando ad entrare, ma io non sono ancora pronta.

Voglio osservarmi ancora un pò in vita.

Quella pella scura, trafitta dai miei ripensamenti e la mia testa, che si è frammentata anno dopo anno.

Mi mancherà osservare le nuvole che coprono il cielo, come un velo; offrendosi alla natura come meraviglia, unica meraviglia, in grado di affascinare i solitari.

Mi mancherà tutta questa prepotenza di questa natura che riesce sempre a mascherarsi dentro di me e ad impossessarsi delle mie sembianze.

Mi mancherà credere di poter comandare il vento e la sua potenza; di essere il vento stesso e di sputare addosso agli individui. Mi mancherà sentirmi pioggia, mi mancherà essere neve fredda e ghiaccio. Mi mancherà di certo, congelare gli occhi degli altri e nutrirmi dei loro dolori.

Mi mancheranno le mie battaglie; i miei fantasmi, che rimarranno da soli a cercare altre psiche invase, come la mia.

Mi mancherà il sole, che ho sempre cercato, ammirato ed invidiato.

Mi mancherà la mia musica, quella che sprigionavo di notte.

I miei occhi, la mia bocca, il mio corpo che detestavo. Mi mancherà il suo sguardo, che forse raggiungerò.

Mi mancheranno le parole dei cari, che spero, mi tolgano presto di mezzo.

Non mi domando nemmeno, se mancherò a qualcuno.

Sono certa che la mia morte, sia una liberazione per questa terra sporca e nervosa, che ho riempito di sabbia per renderla sempre meno fertile. E per questo, il cielo mi odia così tanto.

Ho cercato sempre di rovinare il quadro perfetto di quest'armonia naturale che mi sono ritrovata attorno. Ho cercato di portare l'odio fra i petali di un fiore, allegoria dentro le radici e pianti sulle foglie; non mi hanno mai voluta, nè accettata. Per loro sono stata il male maggiore e non meritavo i loro colori e la loro prudenza.-

Mi decido: entro, nel luogo che diverrà mia dimora per il resto dei giorni terrestri.

E' tutto molto freddo e bagnato, come se qualcuno che mi ha preceduto avesse lasciato le proprie lacrime.

E' splendido come mi sono allontanata da quel mio sacrificio così grande, che era il mio respiro.

Finalmente i miei polmoni si calmano e sento il mio nodo alla gola, sciogliersi. Il peso del vuoto si sta allontanando e finalmente, so per certo che mi sto perdonando. Non potrei fare altro imbucata qui dentro.

Sto morendo, dietro questa lapide che porta le mie iniziali e la mia foto.

Sto morendo, dentro quest'albero; intrappolata dentro le pareti muscolose e impenetrabili della mia natura, che mi stava solo aspettando.

Sto morendo e sento che sto per cadere.

Sto morendo, è il mio sacrificio, che ho lasciato sulla terra. Spero che qualcuno mi trovi e possa trovare la mia luce, che qui dentro ho perso.

Spero che la mia luce, possa invadere il mondo reale.

Mi sto spegnendo, i miei occhi sono davvero stanchi. Ho molto sonno.

Ho bisogno di riposare.

Voglio far riposare la mia carne piena di cicatrici, la mia mente piena di misfatti; voglio chiudere e sperare di ritrovare i tuoi, che avevo perso.

Sento che il mio ultimo respiro si sta facendo avanti dentro i miei polmoni. Sono sempre più debole e mi lascio cullare da questo umido, che culla i miei resti, derisi da questo posto amaro e saggio.

Chiudo gli occhi, arriva il mio eterno rantolo. Sono spenta. I miei occhi ripassano la scena di quel bambino nero che raccoglieva, triste, i suoi fiori; lo osservo e lo vedo sorridere e salire sulla mia lapide; li poggia accanto alla mia foto, che muta.

Ho il sorriso, non è più un dannato accenno, ma è un bel sorriso. E dentro quei miei occhi brilla qualcosa. Che esce da quel pezzo di marmo congelato ed entra nella pancia di quella creatura.

Adesso, sarà meno triste. Lo vedo correre disparato su quel prato che sboccia fiori coloratissimi, che si alzano in cielo, in direzione della mia lapide. Quasi a danzare, quasi per ricordarmi. Il vento soffia, piove, col sole; la natura mi sta in qualche modo ricordando.

Non comando più nulla; il bambino scompare, non sento più la mia musica. So che sono rimasta sola, adesso.

E le lacrime che ho versato qui dentro, si fissano sulla pioggia, che cade su quei fiori, decidendo di bagnarli per farli esplodere nella loro bellezza.

Non passa più niente nella mia testa. Mi sento così leggera.

E mi sveglio.

Incredula. Da sola, con il ricordo di quei fiori bagnati dalla rugiata mattutina, che spero, sappia ancora un pò del mio sangue.


LagerWhere stories live. Discover now