Lo specchio

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Mia madre aveva partorito a vent’anni. Era rimasta incinta una notte d’estate, con la luna
piena e le cicale in concerto tra gli oleandri in fiore; lei e mio padre si amavano da qualche
settimana, quelle che non bastano a riempire un mese ma che sembrano abbastanza, nella
giovinezza accondiscendente di una coppia di antichi adolescenti, per consacrarsi all’amore e
alle sue lusinghe.
Dopo quell’incontro non si erano più visti. Mia madre era tornata feconda nella sua arida terra
di fichi d’india; mio padre era tornato anche lui chissà dove, lontano da lei e dai miei ricordi.
Qualche anno più tardi, quando sarei stata abbastanza grande per riuscire a sciogliere la
metafora dei fiori, delle api e delle calde sere d’estate gravide di baci e promesse, avrei
cominciato ad odiarli, a considerare lei una puttana della peggior specie e lui un
irriconoscente, inconsapevole omuncolo da quattro soldi. Tali erano rimasti negli scomparti
della mia memoria.
Io e mia sorella eravamo nate premature, livide e apparentemente morte; ci avevano
strappate al grembo di nostra madre con un cesareo d’urgenza, senza vagiti, senza urla:
avevamo salutato il mondo per la prima volta in silenzio. L’infermiera di turno quella mattina
era una zitella sulla cinquantina con le mani rovinate e i capelli stopposi; era stata lei la prima
a vedermi, ancora avvolta in un asciugamano di spugna, ricoperta di sangue. Mi aveva
guardata ed era inorridita: la immaginavo storcere la bocca, spalancare gli occhi e trattenere
un rantolo di disgusto mentre osservava l’evidente sproporzione della mia testa, le mie mani
troppo grandi per un corpo così piccolo e le mie orbite riversate all’indietro, quasi il Signore si
fosse reso conto del mio aspetto e volesse impedirmi di rendermene conto a mia volta quando
sarei cresciuta, per non farmi del male, per proteggermi dalla sprezzante onestà della realtà e
dell’esistenza.
Ero storpia. I miei arti sembravano pezzi di stoffa sfilacciati tagliati grossolanamente e cuciti
insieme dalle dita storte di una sarta cieca; nulla dell’equilibrio e della perfezione di Vitruvio
si accordava con la geometria della mia figura. L’uomo col camice bianco che aveva seguito
mia madre e che, al momento del parto, aveva presenziato in sala, mi chiamava
scherzosamente Quasimodo. L’intera equipe medica intenta a ricucire con parsimonia la ferita
dalla quale avevamo intravisto la luce rideva maliziosamente.
Mia sorella si chiamava Angelica. Tutti avevano sempre pensato fosse figlia illegittima di un
cherubino e di una dea olimpica; piangeva lacrime dolci e sommesse, quando mia madre
l’aveva appoggiata sul suo petto la prima volta. Aveva pianto assieme a lei e si era sentita
immensamente felice mentre nutriva l’idilliaca creatura del suo vergine latte materno. L’aveva
stretta a sé e per un attimo aveva pensato all’odore pungente e setoso degli oleandri in fiore e
ad un sussurro d’amore perso nello scirocco di fine Luglio. Io, per la prima parte della mia
distorta vita, avevo sempre bevuto latte in polvere al sapore d’industria farmaceutica.
Il giorno della nostra nascita, per festeggiare il lieto evento, la nonna aveva regalato a nostra
madre due semi; lei li aveva piantati in giardino qualche sera più tardi. Diversi anni dopo
guardando fuori dalla finestra della cucina, quella che affacciava sul prato, avevo riso di gusto
dinanzi allo spettacolo macabro e realistico delle nostre due vite, intrecciate
indissolubilmente in un unico, grande tronco dai rami separati, divisi dal vento e dalle
intemperie del tempo: boccioli in fiore e verdi, tenere foglioline primaverili si alternavano,
schivandole quasi, a secche sterpaglie rachitiche, perse in una malinconia necrotica. Angelica,
gettando occhiate imbarazzate aldilà del vetro, si scherniva e arrossiva di fronte al mio
sarcasmo; intimamente le davo della stupida.
Io e Angelica avevamo condiviso tutto da sempre: lenzuola e cuscino, che lei bagnava di
lacrime quando i suoi incubi notturni la tenevano sveglia e nostra madre dormiva
profondamente con la porta della sua stanza chiusa a chiave, stordita dal sonno frenetico degli
ansiolitici; camice e calze, quasi sempre di sua proprietà, che si ostinava a volermi far
indossare nel vano tentativo di vedermi a mio agio nei suoi vestiti. Me li porgeva timidamente
e mi osservava mentre provavo a raddrizzarne le maniche e le pieghe e farle combaciare con
l’asprezza e la disarmonia delle mie ossa, per poi intervenire nel dissacrante processo della
mia vestizione, perenne missionaria della mia vita; mi trascinava davanti allo specchio del
salotto, quello dai fregi barocchi appeso a mezz’altezza al muro.
Ci riflettevamo nel vetro lucido, i volti affiancati, guancia a guancia; i capelli biondi e ricci di
Angelica assomigliavano ad una nuvola di sogni dorati. Mi coprivano la faccia, li sentivo nella
bocca, tra i denti, mentre lei tentava di stringermi a sé con tutta la forza, l’affetto ipocrita di cui
era capace. I miei occhi storti vagavano confusamente nello specchio, sfuggenti, dello stesso
colore di quelli di mia sorella ma più sbiaditi, come un cencio vecchio usurato dal tempo.
Nessuno li guardava mai; mi dicevo che non era un problema, che le cornee della mia gemella
in realtà valevano doppio. Angelica era figlia unica e io la sua terrificante deformazione in una
casa degli orrori bianca e senza finestre.
A scuola passavo inosservata. I banchi mi coprivano il corpo come trincee e la mia testa
sgraziata spuntava appena tra le altre; non avevamo amici. Per me non era mai stato un
problema: le persone non mi piacevano ed io, a mia volta, non suscitavo le simpatie di
nessuno. Le giornate scolastiche erano tutte uguali e si ripetevano in schemi precostituiti,
mentre i miei compagni di classe non erano altro che sagome infantili e butterate.
Mia sorella piangeva spesso. Non sapevo il perché; ma piangeva.
Più volte mi era capitato di sentire certi inutili discorsi delle nostre compagne cosparse di
profumo scadente, provinciali da quattro soldi che giocavano a fare le signore. Parlavano di
nostra madre; spesso le davano della puttana. Noi, agli occhi loro e dei loro superbi genitori,
non eravamo altro che il frutto di un rapporto bastardo e incosciente, quasi questa fosse una
giustificazione per la mia disarmonia e la bellezza splendente di Angelica. Figlie del demonio,
ma nate per scopi diversi: io per ricordare alla cittadinanza quali fossero i frutti deformi dei
rapporti fuori dal matrimonio, mia sorella per portarne avanti la tradizione, quasi fosse una
scudiera del peccato.
La città dove eravamo nate, così come la nostra famiglia, sembrava intrisa di un puritanesimo
becero e scostante che negli anni aveva sempre causato problemi a nostra madre: una ragazza
così giovane diventata mamma così presto non era di certo una cosa dabbene, il crocifisso di
legno della chiesa del centro sarebbe inorridito, se solo lo avesse saputo. Da parte mia, me ne
infischiavo; la religione, così come i suoi più accaniti paladini, non mi interessava, e di fronte
alle occhiate schive dei compaesani durante le nostre sporadiche passeggiate in compagnia di
nostra madre per le vie del paese reagivo con impassibilità, abituata com’ero agli sguardi
inorriditi degli sconosciuti.
Angelica, attaccata al braccio della mamma, arrossiva fin sopra alle orecchie, piantandosi le
piccole unghie trasparenti nel palmo delle mani. Quando tornavamo a casa, puntualmente,
vomitava.
Mamma si vestiva di nero. Si atteggiava a vedova di guerra inconsolabile e portava solo abitini
leggeri su calze fumé trasparenti; aveva sempre un’espressione grave sul viso, nel lutto
costante dei suoi errori e del profumo degli oleandri. Si ostinava a frequentare la chiesa del
paesello e ci obbligava a presenziare con lei alle pedanti omelie del sacerdote. Ci sedevamo
sempre in ultima fila, nella panca più vicina all’ingresso, sulla difensiva, quasi la fuga apparisse
come la soluzione migliore alla tracotanza con cui ci presentavamo nella casa del Signore.
Accanto a noi sedeva sempre, con cadenza regolare, Il Muto.
Il Muto era un uomo di mezz’età dai lineamenti duri e irregolari che, sebbene non provenisse
da una famiglia borghese come la nostra, era stato confinato anni prima nella fila degli
indesiderabili per qualche storia demoniaca di cui noi, a differenza del resto della comunità,
non eravamo mai venute a conoscenza. L’epiteto era proporzionale ai suoi comportamenti;
non parlava, non gesticolava e, talvolta, sembrava non respirasse nemmeno.
Aveva un’aria burbera e arcigna, con le sopracciglia costantemente aggrottate e il cappotto
abbottonato fino al collo; mi ero sempre domandata se in realtà sotto a quel soprabito non
nascondesse fucili e rivoltelle. Angelica, come da copione, ne aveva sempre avuto pietà.
Una mattina Angelica era uscita di casa prima del solito. Era sparita per l’intera giornata ed
era rientrata solo a sera inoltrata: mamma non era in casa.
Aveva varcato l’uscio della porta tremando; il vestito a fiorellini di cotone leggero era
rovinato. Gli mancava una spallina e si era abbassato, lasciando intravedere la tenera curva
del suo seno virginale. Era sporca di terra e aveva le ginocchia sbucciate: le avevo chiesto dove
diamine fosse andata.
Era scoppiata a piangere. Si era accasciata a terra lentamente, scossa dai singulti. Aveva
cominciato a darsi della puttana e dell’assassina.
Più tardi, l’avevo vista in piedi davanti allo specchio; non si era cambiata, aveva ancora lo
stesso abito strappato addosso e il viso sporco e madido di sudore. Le avevo guardato le mani:
le teneva strette a pugno, in una morsa fatale. Poi le aveva aperte; sui palmi, il relitto
insanguinato delle sue unghie.
Qualche giorno dopo, la perpetua del paese aveva bussato alla nostra porta per avvisarci della
morte del Muto. Probabilmente si era suicidato; lo avevano trovato con un coltello conficcato
all’altezza del cuore. Per quella donna con la retina in testa era stato un dono della
Provvidenza; avevo riso di fronte alla mistificazione di un alterato criterio manzoniano.
Dopo quella sera, Angelica piangeva spesso. Stava sempre rintanata su sé stessa, quasi una
presenza invisibile le stesse piegando la schiena con forza.
Per tirarle su il morale, nostra madre le aveva comprato una macchina da scrivere: non la
usava mai. Per gioco, avevo cominciato a scriverci storie brevi e racconti che poi,
puntualmente, gettavo via. Una notte avevo sognato Il Muto e ne avevo parlato con mia
sorella; lei era inorridita e aveva chiuso le mani di nuovo. Dopo la nostra conversazione, avevo
cominciato a scrivere sul serio.
Schiacciavo freneticamente i tasti della macchina da scrivere; le lettere erano sbiadite, quasi
scomparivano sotto il flusso ininterrotto della mia rapsodia. Avevo cominciato a pensare di
averle annullate io, di averne asciugato la vernice bianca con la mia sete irrefrenabile, di
averle amate talmente, quelle lettere, da annullarle per l’eternità. Per giustificarmi, mi dicevo
che il mio era un atto d’amore.
Quell’amore che mi era stato negato da sempre, quello che serve meritarsi
inconsapevolmente, lo riscoprivo nel silenzio rumoroso delle mie frasi d’inchiostro; lì Angelica
non poteva arrivare con la sua finta amicizia da strapazzo, con i suoi sorrisi pietosi e
invadenti, con le sue mani perfette, con il suo corpo da ninfa d’oltremare. Le mie pagine erano
mie; le mie pagine erano brutte e distorte, rivoltanti come me, ma leggendole, toccandole con
le mie unghie necrotiche, smettevano di appartenermi e divenivano bellissime, incantevoli,
cannella per dolci appena sfornati. Avevano il profumo di mia sorella, e potevo amarle con la
naturalezza che contraddistingue l’amore che si prova verso un padre, una madre, un fratello
e sentirmi libera nella mia prigione di ossa scadenti. Non odiarmi per pochi istanti mi
permetteva di amare la copia ben riuscita di me stessa: Angelica, il mio riflesso nello specchio
quando mi ci specchiavo, ogni giorno, ogni mattina.
A volte la vedevo scrivere ininterrottamente su pezzi di carta a righe che strappava dai suoi
quaderni di scuola. Sembrava soffrire; seguiva con gli occhi la punta a sfera della penna e
piangeva sommessamente. Puntualmente, si accorgeva della mia presenza dopo non molto e posava tutto nel cassetto della scrivania come se stesse nascondendo un segreto
inconfessabile. Mi sorrideva e mi chiedeva come stessi, mentre tirava su col naso e si
aggiustava i capelli sudati dietro alle orecchie; io le voltavo la schiena e andavo via,
zoppicando.
Un giorno, mentre lei era fuori, avevo scavato nella sua camera fino a scovare le sue preziose
composizioni, che dovevano costarle ogni volta tanta fatica: poesie.
Le avevo afferrate a piene mani, stringendole quanto potevo tra le dita, cercando di non
perdere l’equilibrio mentre scendevo le scale traballando; mi ero avvicinata al caminetto della
sala da pranzo.
Era inverno e il vento soffiava forte. Lo sentivo ululare attraverso la cappa del camino, mentre
il fuoco strepitava fumeggiando lento. Avevo accartocciato le poesie con veemenza, guardando
con distacco il gomitolo di fogli sporchi delle parole di mia sorella. Poi lo avevo gettato nelle
fiamme, senza esitazione.
Osservavo i versi bruciare alla rinfusa e trasformarsi in cenere debole e calda; di lì a poco,
quando mamma sarebbe tornata e, dopo avermi lanciato un’occhiata distratta, si sarebbe
avvicinata alla fucina per attizzare il fuoco, rime e ossimori sarebbero stati solo un vacuo
ricordo insieme al dolore di Angelica. Voltandomi, l’avevo vista guardarmi in silenzio, i grandi
occhi azzurri spalancati su di me, vuoti, disperati. Non avevo detto nulla; la stanza aveva
cominciato a puzzare di figure retoriche.
Parlava sempre meno. Dopo il rogo dei suoi scritti, sembrava che qualcuno le avesse reciso
per sempre le corde vocali. Passava il tempo e imbruttiva; mia madre guardava sgomenta i
capelli caderle a ciocche e il viso impallidirle. Nulla sembrava essere rimasto del suo angelo
ancestrale: ciò che rimaneva era un vuoto, pallido involucro di giovane donna.
L’aveva portata da uno psichiatra che aveva cominciato a imbottirla di farmaci per farla
dormire; io glieli nascondevo sistematicamente, gettandoli nello scarico del bagno non appena
ne avevo la possibilità. Ad Angelica dormire non serviva; era sempre stata triste.
Con gli anni, avevo cominciato a pensare che la causa della sua malinconia fossi io. Che
inconsapevolmente, nel suo modo melenso di viziarmi, di guardarmi e di fare in modo che mi
guardassi alla stessa maniera, stesse cercando qualcosa cui pensare per distrarsi da sé stessa
e dall’odio, dalla rabbia che covava dentro di sé.
Si metteva davanti allo specchio, sempre lo stesso, osservandosi con aria trasognata;
pretendeva che stessi accanto a lei mentre lo faceva. Una volta, mi aveva chiesto cosa vedessi
nell’immagine riflessa che entrambe stavamo guardando. Le avevo risposto che vedevo lei. I
suoi occhi si erano riempiti di lacrime; non riusciva a vedere niente che non fossi io.
Una sera, a cena, la mamma aveva parlato con voce stridula e fintamente ossequiosa, dicendo
che quella era l’ultima volta che avremmo cenato assieme per un po’ di tempo: il giorno
seguente, prima ancora che il sole nascesse, Angelica sarebbe partita per una vacanza.
Un mese, forse due, in un luogo accogliente e gioioso dove avrebbe avuto modo di rilassarsi e
star meglio. Al suo ritorno si sarebbe sentita rinata, glielo assicurava.
Mentre parlava, Angelica fissava il piatto inebetita; apparentemente quella notizia sembrava
non toccarla minimamente. Nostra madre, sua madre, continuava a blaterare a proposito della
sua imminente villeggiatura in modo nervoso, quasi avesse qualcuno aggrappato alle spalle a
suggerirle le parole da dire in un panegirico sprovvisto di gobbo. Immaginavo che l’idea di
vivere sola con me dovesse spaventarla: non aveva ancora dimenticato la mia totale mancanza
di gratitudine nei suoi confronti.
Dopo aver mangiato, Angelica era salita in camera sua. Percorreva i corridoi della casa con
trasparenza, trascinando con fatica l’immagine di sé stessa: un fantasma.
Non l’avevo seguita; ero rimasta da sola in salotto, seduta storta sulla poltrona. Avevo pensato
a mia sorella, alle nostre vite sbagliate quasi quanto le forme in cui erano state concepite e alla
loro interconnessione costante, morbosa, destinata ad interrompersi di lì a poche ore. Allora avevo afferrato un cuscino, uno dei tanti sparsi sul fodero barocco del divano di mia madre, e
mi ero alzata. Avevo salito le scale, percorso i disegni dei pavimenti intarsiati, lucidi che per
tutta una vita erano stati calpestati dalle nostre scarpe; riascoltavo i passi timidi di Angelica,
inorridivo al pensiero dei miei, più sgraziati, più rumorosi, più arrabbiati e ripensavo a quanto
li avessi odiati, quei pavimenti, a quanto avessi sperato che un giorno si aprissero per
inghiottirci tutti in un solo boccone.
Zoppicando, mi sentivo fantasma; mi sentivo mia sorella, e mi vedevo dal di fuori entrare in
camera sua silenziosamente e osservarla dall’uscio della porta, già a letto, i pochi capelli
rimasti sparsi alla rinfusa sul cuscino. Mi ero avvicinata al suo capezzale; non dormiva.
Fissava il vuoto riflesso nella patina della sua iride, immobile. Non mi aveva fermato quando le
avevo calato il cuscino sulla faccia con tutta la forza di cui ero capace, schiacciandole il naso, la
bocca, trattenendo il respiro mentre facevo in modo che il suo si fermasse per sempre:
Angelica non mi aveva detto nulla neanche mentre la ammazzavo.
Per un istante, un solo attimo pesante quanto un’eternità, mi aveva guardata. Sembrava grata;
come sapesse che stavo facendo la cosa giusta. Il fatalismo nella sua espressione segnava il
traguardo di tutte le giornate passate a fissare la nostra immagine nello specchio. Morivamo
insieme in silenzio, esattamente come eravamo venute al modo. Con rassegnazione.
Qualche ora dopo ero scesa di nuovo al piano di sotto e mi ero messa davanti allo specchio,
sempre lo stesso. Non mi ero guardata; avevo afferrato il fermacarte posato sul tavolo e lo
avevo lanciato goffamente contro il vetro. Si era rotto in mille pezzi; le schegge ricoprivano il
pavimento in un mosaico orroroso e scintillante. Persa nei frammenti, il mio corpo era per la
prima volta come avrebbe dovuto essere: intero.
Ne avevo preso un pezzo da terra, alzandolo all’altezza del viso: gli occhi di Angelica mi
fissavano dal riflesso del vetro.
Mi ero ferita il braccio; un taglio non molto profondo, lento, che non mi aveva procurato alcun
dolore, adesso sanguinava copiosamente, formando dense pozze scure per terra. Io le
guardavo sorridendo, mentre percepivo il sangue di mia sorella sporcarmi la pelle.

Anna Battista

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