Cioccolata scaduta (Capitolo III)

0 0 0
                                    

Van Basten era il nostro calciatore preferito. Nel torneo della Champions League di quell’anno era
candidato ad essere capocannoniere del campionato. Il Milan era arrivato in finale di coppa contro la
Steaua Bucarest e in famiglia ogni giorno passato era un passo di ventiquattro ore verso la notte più bella
della nostra vita, quella in cui mamma e papà sarebbero sembrati meno in odio l’uno contro l’altro, in cui i
miei vicini avrebbero urlato non per liti domestiche, in cui un’ansia immotivata legata al sogno e al successo
di qualcun altro ci avrebbe presi così prepotentemente da immobilizzarci davanti al tubo catodico per due
ore. Balik tifava Inter, perché i suoi amici in Burkina Faso, per giocare a pallone, si erano fatti una divisa di
colore blu e nero che avevano realizzato anche per lui. Sono ancora convinto del fatto che abbia scelto
l’Inter anche per essere in competizione con me e per fare del giorno del derby un giorno di sfida in cui
ognuno di noi due avrebbe dovuto mostrare all’altro quanto avesse sbagliato a scegliere la squadra
perdente come propria squadra del cuore.
Un giorno di aprile di quel 1988 decisi di invitare a casa il mio amico Cioccolata a vedere il derby con me e i
miei genitori. Non avevo mai parlato a loro della mia grande affezione nei confronti di quel ragazzo di
colore, ma mia madre più di una volta ci aveva visti giocare dal terrazzo e sapevo che sapesse.
Mio padre non reagì male. O meglio, non reagì, perché mi fece capire che non c’era niente per cui reagire.
L’ansia del derby, nei minuti precedenti alla partita, quando il collegamento in tv con il campo da gioco era
già iniziato, si mischiò ad uno strano malessere. Iniziai a pensare di aver commesso un errore invitando il
mio amico nero a casa, perché forse sarebbe stato un problema per i miei genitori: avrei potuto
condizionare quella partita magica.
Quando bussarono alla porta, il cuore mi salì in gola. Nei Promessi Sposi, quando Don Abbondio vede i Bravi
da lontano con aria cattiva e malintenzionata nei suoi confronti, non potendo scappare né ignorarli, decide
di affrettare il passo per avvicinarsi a quello che inevitabilmente gli sarebbe capitato, perché ritardarlo o
rallentarlo non avrebbe avuto proprio senso. Invece, ricordo benissimo che quel giorno feci l’esatto
contrario di Don Abbondio. Ad ogni passo cercavo un motivo per non aprire, per rimandare a casa Balik,
inventando che la tv fosse rotta, che l’antenna sul tetto fosse stata mossa dal vento e dalla pioggia dei
giorni prima, che mio padre fosse stato invitato a casa di colleghi e che quindi anche io non ci sarei stato.
Quando poggiai la mano sulla maniglia per girarla ed aprire, temporeggiai ancora di più.
- Chi è?
Dissi al mio amico dall’altra parte della porta.
- Apri, è Balik. Ci sono anche gli zii.
Rispose mio padre.
Lo zio di Balik, Gaspare, milanese fiero, salutò papà lasciandosi tenacemente cadere sul braccio teso in
avanti l’estremo della sciarpa dell’Inter che si era passato intorno al collo. Il mio vecchio, quel discolone che
aveva già capito tutto e che aveva invitato la famiglia del mio migliore amico a casa per rendermi felice e
motivarmi a coltivare quella relazione così importante per me, strinse la mano al panciuto ospite e gli baciò
le guance, strofinandogli sulla camicia la sciarpa del Milan che teneva anche lui intorno al collo.
I due risero, e io Balik facemmo altrettanto, anche se nel corso della giornata continuammo a ridere solo io
e mio padre, quando prima Gullit e poi Irvis chiusero lo scontro col risultato di due gol a zero.
Quel derby emotivo che avevo vissuto, iperteso tra quello che realmente ero e quello che credevo dovessi
essere, è una partita che non rivivo da tempo e che porto nel cuore come un momento unico di
cambiamento interiore.
Balik si era fermato da me anche dopo la sconfitta dell’Inter – che potrei sostituire con “vittoria del Milan”,
ma fa ancora un particolare effetto per me scrivere la prima in luogo della seconda – e fu in quella giornata
che mi aveva chiesto di giocare a “dito” per la prima volta. Lo aveva chiamato così perché se nel calcio si
usavano le gambe effettivamente per dare un calcio alla palla, in quel gioco che gli piaceva tanto si
dovevano usare le dita per calciare la carta, e quindi chiamarlo dito per lui aveva dannatamente senso.
Quella partita la vinse. E vinse anche quella successiva e quella dopo ancora.
- Mi piace Elisabetta.
- Chiedile di fidanzarvi.
- L’ho fatto. Mi ha risposto che non devo toccarla, perché il nero secondo lei è contagioso e potrei farla
diventare tutta scura di pelle.
Ricordo quell’attimo in cui ci guardammo negli occhi e decisi di toccargli le labbra con un dito e di
passarmelo sulle mie.
- Peccato, non è successo niente: ci speravo.
Gli confidai con un sorriso da ebete.

Ciro Terlizzo

23PugnalateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora