Fotografia, film e politica nell'opera di Walter Benjamin (Italiano)

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Il presente saggio è volto all’analisi delle teorie di Walter Benjamin sulla fotografia e il film espresse nei suoi brevi saggi Piccola storia della fotografia (1931) e L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). In seguito ad un’attenta analisi di questi lavori, sostengo che sembra che Benjamin non sia del tutto pessimista in merito allo sviluppo dei nuovi strumenti tecnologici subentrati nella sfera artistica e culturale. Piuttosto, la tesi di Benjamin è che ci sono buoni e cattivi aspetti della fotografia e del film, dal momento che entrambi possono essere utilizzati come strumenti politicizzanti o “estetizzanti”. Inoltre, Benjamin suggerisce che nel ventesimo secolo l’arte acquisisce un senso politico ed è volta ad avere un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone, influenzando i loro comportamenti. Tale influenza, di matrice politica, può essere esercitata in una direzione progressiva o reazionaria. Con il suo studio della fotografia e del film, Benjamin intende proporre una serie di concetti estetici alternativi che possano racchiudere ed interpretare queste nuove forme di arte visiva, concetti volti a promuovere una liberazione ed un’emancipazione rivoluzionaria, tale da non poter essere utilizzata dai regimi fascisti.
La mia analisi si concentrerà sulla relazione tra fotografia, film e politica e sarà divisa in due parti principali. Nella prima sezione di questo saggio, considererò le discussioni di Benjamin sulla fotografia, mentre nella seconda sezione, relativamente più corta per evitare ripetitività, considererò le discussioni di Benjamin sul film e sull’industria cinematografica.
Benjamin discute estensivamente il rapido sviluppo della fotografia in Piccola storia della fotografia, pubblicato per la prima volta in Die literarische Welt, rinomata rivista culturale tedesca. In questo breve saggio, Benjamin offre una critica retrospettiva alla tecnologia moderna, esaminata in relazione alla storia sociale. A questo proposito, Benjamin afferma che non c’è una corrispondenza perfetta tra sviluppo tecnologico e sociale. Benjamin tenta di dimostrare come la fotografia possa servire gli obiettivi di una politica sia progressiva che reazionaria e crede che, fino ad allora, la fotografia fosse stata principalmente utilizzata per preservare gli interessi della borghesia. La fotografia aveva il potere di nascondere l’imminente declino della borghesia attraverso la creazione di un’aura finta, artificiale, volta a conferire un senso di eternità e permanenza ai soggetti fotografati. Questo è il motivo per il quale Benjamin critica l’utilizzo della fotografia come strumento estetizzante (ciò che lui chiama fotografia creativa) e presenta diversi esempi di quella che considera essere una buona fotografia. 
Benjamin struttura il suo saggio come un fotomontaggio, discutendo le singole immagini, tirandole fuori dal loro contesto originale e reinterpretandole, ponendole in relazione tra di loro. Benjamin procede nella sua analisi cronologicamente, considerando prima le foto prodotte con macchinari meno sofisticati. Queste foto avevano un’aura naturale, qui definita come “l’unica apparenza o sembianza della distanza, non importa quanto lontana” (Piccola storia della fotografia, p. 518). Con quest’affermazione, Benjamin si riferisce all’hic et nunc delle prime fotografie, che presentavano la giustapposizione di due temporalità. Ad esempio, se prendiamo in considerazione la foto di Dauthendey con sua moglie, possiamo vedere simultaneamente un tempo che è passato, il periodo in cui la coppia era in vita, ma anche un tempo che ancora non era arrivato nel momento in cui la fotografia era stata scattata, una sorta di futuro-nel-passato, rappresentato dal tragico suicidio della donna.

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l’aura denota l’autenticità dell’opera d’arte che, secondo Benjamin, si perde nel processo di riproducibilità tecnica. Pertanto, al fine di stabilire una sorta di denominatore comune, possiamo pensare all’aura come ad una caratteristica naturale, un marchio di autenticità che caratterizza la maggior parte delle opere d’arte, come dipinti e sculture, e le prime fotografie. Nelle prime fotografie, l’aura era un effetto tecnico prodotto dalla tecnologia delle prime fotocamere presenti sul mercato, che presentavano un lungo tempo di esposizione ed un continuum assoluto tra ombra più scura e luce più chiara. In seguito, a partire dal 1880, le tecniche fotografiche si svilupparono ulteriormente, il tempo di esposizione fu ridotto quasi ad un istante e la fotografia divenne istantanea, mentre la nozione borghese di permanenza andava gradatamente a svanire. Non avendo intenzione di affrontare e accettare il proprio declino, la borghesia si rivolse alla creazione artificiale dell’aura al fine di mantenere un senso di permanenza. Benjamin affronta questo tema nelle ultime due pagine del saggio (526-527), quando parla della fotografia creativa. Come già accennato precedentemente, quest’ultima è una sorta di fotografia estetica distaccata dalla realità materiale ed è, pertanto, priva di qualsiasi connotazione sociale, politica ed etica. Di conseguenza, la fotografia creativa non serve alcun altro obiettivo che far sembrare il mondo bello, velando così la realtà dei fatti.
La fotografia creativa è uno strumento ingannatore. Dapprima usata dalla borghesia per mascherare e celare la propria decadenza, poi usata dai regimi fascisti per creare “l’estetizzazione della politica”, la fotografia creativa è al servizio di una politica reazionaria. Tuttavia, ciò non implica che la fotografia e il film siano intrinsecamente cattivi. Benjamin accetta l’esistenza di strade alternative e dimostra che, anche dopo l’industrializzazione e la mercificazione della fotografia, alcuni fotografi hanno utilizzato la fotografia come strumento di rappresentazione piuttosto che come strumento di mistificazione ed estetizzazione. È questo il caso della fotografia di Atget e Sander. Il motivo per cui Benjamin apprezza Atget è che quest’ultimo ha uno sguardo documentativo che storicizza le cose, piuttosto che estetizzarle. La fotografia di Atget va nella direzione opposta a quella della fotografia creativa: Atget intende demistificare la città di Parigi che, nelle sue foto, è presentata attraverso i suoi particolari ed appare come già morta. Con le sue fotografie a strade vuote e piccoli dettagli, Atget vuole dare il senso che la fotografia sia una forma di commiato che permette di dire addio a cose e luoghi. Contrario all’idealizzazione di Parigi come città eterna, Atget la presenta come un momento fuggevole, lontano dal continuum del discorso mistificatore creato attorno alla capitale francese.

Eugène Atget, Church of St Gervais, Paris, about 1903.

Benjamin stabilisce un’importante distinzione tra la fotografia ritrattistica e la fotografia di Sander. Sander prende la riproducibilità della tecnologia e la applica ai suoi soggetti. Al contrario della fotografia ritrattistica, Sander de-individualizza i suoi soggetti, riducendoli a tipi riproducibili senza distinzioni di classe sociale. Ad esempio, Benjamin presenta due foto scattate da Sander: quella ad un pasticciere e quella ad un rappresentante politico. Sander sacrifica l’individualità per enfatizzare la riproducibilità della funzione sociale dei suoi soggetti, e uno dei modi attraverso cui fa questo è l’utilizzo di didascalie. Possiamo vedere, con Sander, lo stretto legame tra linguaggio visivo e linguaggio verbale, la fondamentale interconnessione tra immagine e didascalia.

    

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin considera gli effetti della fotografia, in particolare il significativo cambiamento nella percezione che ha provocato. Tra i cambi portati dall’avvento della fotografia, di rilevante importanza è l’accelerazione della riproduzione pittorica, la quale ha permesso di riprodurre qualsiasi opera d’arte profondamente modificando il suo effetto sull’osservatore e la sua ricezione in generale. L’enfasi è posta sul decadimento dell’aura, che Benjamin associa al desiderio delle masse di avvicinarsi a cose a cui non avevano accesso precedentemente. L’avvizzimento dell’aura, persa attraverso la riproducibilità tecnica, è il prezzo da pagare per rendere l’arte accessibile alle masse. “La riproduzione tecnologica…permette all’originale di incontrare il destinatario a metà strada” (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, p. 21). Durante questo viaggio, tuttavia, l’originale perde la propria autenticità, la propria aura, il proprio hic et nunc su cui si fondava il valore cultuale, legato al rituale e alla tradizione. Il valore cultuale caratterizzava la ricezione delle opere d’arte prima dell’avvento della fotografia, che l’ha sostituito con il valore espositivo. Questa sostituzione non ha causato la perdita del valore cultuale, quanto la sua mercificazione: il valore cultuale delle opere d’arte è stato massificato, non perso, dal momento che chiunque è adesso invitato a condividere i parametri di valutazione estetica. L’unicità si perde in un ambiente in cui gli oggetti sono soggetti a processi di riproducibilità di massa. Il valore espositivo era stato, fino ad allora, utilizzato dai regimi fascisti per motivi di estetizzazione della politica, con l’intento di portare le masse a pensare che la loro condizione fosse migliorata dal momento che avevano, adesso, la possibilità di prender parte al mondo borghese della critica estetica. L’obiettivo del saggio di Benjamin è di presentare un possibile re-indirizzamento del valore espositivo: anziché estetizzare le masse, il valore espositivo dovrebbe politicizzarle attraverso la loro rappresentazione. In altre parole, Benjamin è sostenitore di una fotografia che esibisca le masse, piuttosto che di una fotografia che esibisca l’arte per le masse. È interessante notare che nella versione francese di questo saggio Benjamin utilizza il verbo exposer che, in francese, non solo significa “esibire”, ma anche “denunciare” e “accusare”. Pertanto, la scelta lessicale di Benjamin qui richiama la conclusione di Piccola storia della fotografia, in cui Benjamin afferma che le fotografie di Atget sembrano fotografie scattate su una scena del crimine: non estetizzano, ma forniscono evidenza. Per Benjamin, le fotografie dovrebbero assegnare la colpa.
La fotografia ha il potenziale di mostrare cose che, altrimenti, resterebbero invisibili all’occhio umano. A questo proposito, Benjamin presenta la nozione dell’“inconscio ottico” (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pp. 37-38), il più importante cambiamento nella percezione portato dalla fotografia. Come la psicanalisi ha avuto il merito di scoprire l’inconscio, così la fotografia, attraverso primi piani e la tecnica di slow-motion, rivela certe dimensioni della realtà che, non noteremmo altrimenti. L’effetto provocato dalle immagini catturate dall’inconscio ottico è un effetto di sorpresa. Queste immagini mostrano, infatti, aspetti della vita quotidiana che sono sempre stati lì ma che sono sempre rimasti inosservati, come la frazione di secondo in cui una persona fa un passo. L’inconscio ottico è dunque uno degli esiti positivi della fotografia e del film dato che, per usare la terminologia di Viktor Shklovsky, porta alla de-automatizzazione della percezione, necessaria per far sì che le masse siano consce delle condizioni sociali e politiche del loro tempo.
La critica di Benjamin alla fotografia può essere applicata, per la maggior parte, anche al film. Alla fine di Piccola storia della fotografia, Benjamin menziona la fotografia e il cinema russo, affermando che questi ultimi costituiscono un esempio di utilizzo positivo dei nuovi mezzi, in quanto utilizzati come mezzi di sperimentazione ed istruzione. Una discussione più estensiva del film è situata ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui Benjamin critica l’industria del cinema ed il rapido, irrefrenabile sviluppo che ha avuto fino ad allora. Come la fotografia, per Benjamin, il film ha il potenziale di essere utilizzato per fini benigni, ovvero per servire un tipo ti politica progressiva. Tuttavia, era stato principalmente utilizzato come strumento del fascismo volto ad estetizzare le masse e, anche più della fotografia, veniva utilizzato come strumento di indottrinamento. Essendo una rapida successione di immagini, i film risucchiano lo spettatore nel vortice di una narrativa più ampia. Tale narrativa instilla nello spettatore l’illusione che, per comprendere una singola sequenza, bisogna che lo spettatore la ponga in relazione alle sequenze precedenti con cui è stato bombardato dall’inizio del film. Il film è dunque inteso come un continuum, ed è proprio questo a renderlo uno strumento potenzialmente più pericoloso della fotografia. Tuttavia, un film è anche un montaggio di sequenze e immagini. La continuità dei filmati può essere suddivisa in frammenti più piccoli che possono essere interpretati singolarmente. Per questa ragione, i film possono essere analizzati con più meticolosità rispetto alle performance teatrali, in quanto la performance presentata nel film può essere isolata più facilmente. Pertanto, Benjamin afferma che uno dei potenziali utilizzi rivoluzionari del film è dato dal fatto che quest’ultimo può essere analizzato minuziosamente e, dunque, può rivelare aspetti della società umana che restano inosservati, in quanto estetizzati dai poteri politici vigenti. Essenzialmente, il film rappresenta gli esseri umani tramite una macchina. “La rappresentazione degli esseri umani attraverso un apparato ha reso possibile un utilizzo altamente produttivo dell’auto-alienazione degli esseri umani” (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, p. 32). Vale a dire che gli esseri umani sono rappresentati attraverso un macchinario che li aliena da se stessi, separandoli dalla loro immagine situata al centro della rappresentazione cinematica. Inoltre, quello cinematografico è un sistema di sfruttamento che aliena l’attore sia dal pubblico che dal regista, dai produttori e dagli esecutori. L’invisibilità di coloro che registrano, modificano e manipolano il macchinario serve a rinforzare la loro autorità, il loro potere e il loro controllo su ciò che viene rappresentato. La padronanza del macchinario coincide con la padronanza della politica. Pertanto, per far sì che venga utilizzato per conseguire gli obiettivi della politica rivoluzionaria, il film deve liberarsi dall’apparato di sfruttamento capitalista qual è l’industria cinematografica.
Per concludere, Benjamin sostiene che la fotografia e il film possono essere utilizzati come strumenti al servizio di buoni propositi, finché soggetti ad esaminazione e ad analisi critica. Quando usati come strumenti di estetizzazione, questi diventano pericolosi poiché creano una falsa, mistificata versione della realtà che nasconde la realtà materiale della politica e dello sfruttamento. Al contrario, se utilizzati per politicizzare, ovvero per denunciare la realtà attraverso la sua rappresentazione, la fotografia e il film possono divenire strumenti al servizio di una politica rivoluzionaria e progressiva, lontana dalle grinfie del fascismo.

BIBLIOGRAFIA.

Benjamin, Walter. “Little History of Photography” in Walter Benjamin, Selected Writings, ed. by Michael W. Jennings, Howard Eiland, and Gary Smith, trans. by Rodney Livingstone and Others (London: THE BELKNAP PRESS OF HARVARD UNIVERSITY PRESS, 1999), pp. 507-530.

———  “The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility, Second Version” in The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility and Other Writings on Media, ed. by Michael W. Jennings, Brigid Doherty, and Thomas Y. Levin, trans. by Edmund Jephcott, Rodney Livingstone, Howard Eiland, and Others (London: THE BELKNAP PRESS OF HARVARD UNIVERSITY PRESS, 2008), pp. 19-55.

Maria Chiara Caiazzo

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