Medea, Anna Karenina e il fardello magico

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Dal greco “medeomai”, il nome Medea rientra nella categoria di nomi parlanti, composti cioè da termini il cui significato, associato, rimanda a una particolarità del personaggio, un tratto caratteriale, morale o fisico che lo consegna alla storia mitica. In questo caso, l’origine del nome richiama all’attività del pensiero, all’incessante meccanismo di associazione di idee e di strategie, per cui, per estensione, sottolinea la scaltrezza e la furbizia dell’eroina tragica.
Il critico N. Frye in “Anatomia della critica” indaga la storia della tradizione letteraria occidentale partendo da modelli-archetipi di stampo mitico e antropologico. Analizza la nascita dei generi narrativi come grandi costruzioni su base simbolica, realizzando che i simboli che si attivano nell’ipotesto collegano l’immenso patrimonio poetico come tante tessere di uno stesso mosaico.
Frye individua quattro costruzioni: la tragedia, la commedia, l’ironia e il romance.
Riconosce nella tragedia il motivo del pathos, sia che esso rimandi a una situazione gloriosa, sia che ci parli di disfatta e sconfitta (così come associa alla commedia l’agnizione, al romance l’agone, e così via…). La tragedia di Medea, del resto, e le declinazioni moderne di tragedia, tra le quali potremmo includere la monumentale Anna Karenina, sono segnate da un pathos che cammina in filigrana nell’opera, fino all’exploit finale.
La tragedia di Medea conosce diverse varianti, da quella euripidea alla riscrittura ovidiana, fino alla sanguinaria messinscena di Seneca, per citarne alcune. È variamente ripresa anche a livello cinematografico; basti pensare alla Callas di Pasolini o alla trasposizione di Lars Von Trier. Un’uguale fortuna ha conosciuto Anna Karenina, variamente trasposta e analizzata dal cinema alla televisione.
Il nome di Medea è legato indissolubilmente al compagno Giasone, uno dei protagonisti della nota spedizione degli Argonauti, un gruppo eterogeneo di eroi partiti alla volta della Colchide alla ricerca del Vello d’Oro. Romanzo di viaggio, di esplorazione e di formazione, è stato scritto in età ellenistica da Apollonio Rodio.
Giasone è un personaggio “amèkanos”, un antesignano dell’inetto, un incapace di azione che non sia mediata o veicolata da un aiuto esterno. Per conquistare il Vello, infatti, deve vincere tre prove degne di Eracle. Di fronte alla prospettiva di così dure e cocenti sconfitte, piange e invoca gli dei.
A soccorrerlo sarà Afrodite, da cui è protetto. È la dea a determinare il destino di Giasone, ma anche quello di Medea, questa donna di arte e magia, colma di pratiche divinatorie e profetiche, dalle fattezze orientali e dal forte potere magnetico e seduttivo. Afrodite fa in modo che Medea si innamori perdutamente di Giasone e che lo segua ovunque vada, aiutandolo ad affrontare gli ostacoli attraverso la sua astuzia magica.
È Medea, dunque, con la sua capacità di guidare gli Argonauti, con lo sforzo di una mente superiore, a guadagnarsi la statura di vera eroina. Giasone è oscurato dagli stratagemmi con cui Medea gli assicura il Vello d’oro e il ritorno in patria. Senza questo vento provvidenziale e orientale, la spedizione sarebbe finita nel fallimento, e il destino della donna, forse, risparmiato dal doloroso epilogo.
Giasone giura amore a Medea, ricambiandola. In realtà, questo amore è un sentimento “coatto”, cioè spinto a forza nell’animo di Giasone da un incantesimo, un artificio che non ha niente in comune con la naturalezza o la spontaneità di un sentimento. Il compagno ne sfrutta le arti, la invoca in suo aiuto, la blandisce per servirsene. La mente, pur lucidissima, di Medea è ottenebrata dal furor amoroso, dall’assoluta dedizione alla causa dell’uomo, per cui lascia il suo mondo, l’età adolescenziale e il nome rispettabile di “maga” che aveva in origine.
La colpa di Giasone è menzionata brevemente nel XVIII canto della Divina Commedia, dove l’uomo è collocato nell'ottavo cerchio dell'inferno, e più precisamente nella prima bolgia (quella dei ruffiani e seduttori) per aver sedotto e abbandonato prima Ipsipile e poi Medea, costretto a correre nudo sotto le sferzate dei demoni.
Medea è, di ritorno dal viaggio, un’orientale a Corinto, dove i due risiedono con il pegno del loro amore, i due figli. Trattata da strega e giudicata come tale per le sue pratiche e i suoi modi, è una straniera in terra straniera. Nella terra del pensiero razionale, dell’armonia, dell’ordine, c’è qualcosa che va a incidere una frattura, un movimento non più lineare nella concatenazione degli eventi.
È l’oscuro, il magico, il soprannaturale, il barbarico. Straniera, appunto, esperisce, al pari di tutti i “forestieri della vita” della letteratura novecentesca, da Pirandello a Camus, un’alterità rispetto al reale.
Questa alterità si potenzia e si complica quando l’anti-eroe, Giasone, accetta di prendere in sposa la figlia del re di Corinto, Glauce, e perpetuare la discendenza. L’inganno è così svelato: Giasone non ama Medea, né Medea può più servirgli. L’uomo vuole rientrare nel cerchio razionale, integrarsi nel mondo degli altri, imprimere la sua virilità con la propagazione della specie.
Tradendo il patto di amore, viene meno anche il sentimento che ha tenuto insieme quell’embrione di famiglia che pure avevano costituito. Non siamo di fronte al vincolo sacrale del matrimonio, ma di una giovane promessa che, appena giunto il vento, è crollata in pezzi.
Qui Medea si inserisce sui cocci di quel che è stato: una donna passionale, emotiva, di viva intelligenza, che può diventare, all’occasione, fredda e calcolatrice. Acuita dalla disperazione e dall’abbandono, questa intelligenza ordisce la trama che tutti conosciamo.
Medea uccide Glauce con la magia, con l’elemento irrazionale che la civiltà tende a reprimere; uccide i figli e poi scompare in un’ascesa al cielo, gettando Giasone nell’oscura conseguenza della vendetta.
Sarebbe interessante rifarci qui alla teoria di Orlando, critico letterario che, riprendendo le espressioni psicanalitiche del Freud propriamente semiologo, ha teorizzato la letteratura come molla di un “ritorno del superato”, cioè di tutto quello che non ha funzionalità, che non risponde alla razionalità o il progresso della Storia: l’oggetto desueto, il brutto, l’anti-merce, il magico, il soprannaturale. Medea potrebbe avere un suo posto nell’elenco.
Spostandoci nell’Ottocento, sappiamo che l’altezza tragica di Anna Karenina, personaggio monumentale disegnato da Tolstoj, è segnata da un matrimonio infelice.
Anna vive una situazione di tedio, di noia, di totale inadempienza all’amore coniugale che la lega, solo formalmente, al marito, ufficiale governativo incapace di amare. L’unico appiglio affettivo della donna, così come lo scrittore ce la presenta all’inizio del romanzo, è il figlio Serëža.
All’infuori della sfera privata, Anna vanta una luminosa posizione pubblica. Possiede una claritas, un brio, una capacità di stare in società che affascinano l’aristocrazia russa. Tra gli altri, a esserne affascinati sono la dolce, giovane e inesperta Kitty e l’altra metà ideale di Anna, Aleksej Vronskij, un ufficiale affascinante, un rinomato tambeur de femme, cinico e rapace.
I due intraprendono una relazione clandestina brillantemente descritta, una discesa nel delirio della passione e nella incapacità di riflessione sui problemi morali a essa legati, in un crescendo di gelosie, senso di colpa e rivendicazioni fino alla dissoluzione finale. Anna Karenina assapora la libertà per rimanere subito invischiata nel suo contrario. L’arbitrio individuale è così ridimensionato e ristabilito dalle coordinate sociali, spesso meschine e soffocanti, nonché dai dubbi e dalle perplessità di ordine morale, che lacerano l’individuo nella lotta tra sentimento e vincolo alla famiglia, ai figli, all’equilibrio personale.
Medea e Anna Karenina sopportano un fardello tragico, acuito da una comunanza di carattere: coinvolte fortemente nei propri drammi personali, emotive, protagoniste di relazioni distruttive, scelgono la morte come soluzione o espiazione.
Entrambe volano via da un nucleo originario. Medea si allontana dal padre e dalla terra della sua infanzia per seguire Giasone; Anna si svincola dal matrimonio, spezza l’anello sacro per percorrere da amante l’Europa. Si ritrovano estraniate dalla società e le convenzioni su cui si regge.
Entrambe, del resto, toccano il proprio oggetto del desiderio attraverso un mediatore, una calamita a induzione che spezza tutte le certezze, o le illusioni di tali. Medea resta invischiata attraverso l’incantesimo di Afrodite. Cade nella trappola amorosa con quei mezzi che conosce bene. È vittima del suo stesso potere.
Anna è attratta da Vronskij attraverso la mediazione di Kitty, in cui rivede una gioventù ormai dissipatasi, un ardente spirito, una voglia di innamorarsi che crede sopita. Secondo la teoria del desiderio mimetico di Girard, il desiderio non è spontaneo né originale, come vuole la menzogna romantica, ma sempre mediato. Esiste il desiderio di qualcosa, che poi altro non è che desiderio di essere, e, dato che non possiamo essere, vogliamo che l’Altro ci aiuti ad essere, ad attivare l’essere attraverso il desiderio. Questo “altro” è il mediatore, colui che ci fa accedere al desiderio, ma ci nega le chiavi per aprirlo, perché spesso è anche il nemico, colui che aspira al nostro stesso desiderio.
Ad avvicinare queste due donne è il ruolo di madri che vivono un forte rapporto di dipendenza dai figli, acuito dal senso di colpa per quello che hanno fatto (Anna ha dovuto allontanarsi dal figlio) o che faranno sul finale (Medea li ucciderà entrambi). Medea si vendica, quindi, nel più brutale dei modi, impedendo a Giasone quella felicità che voleva costruirsi. Anna si ucciderà per liberare i figli dall’ignominia. I figli sembrano essere, sull’epilogo, il pensiero dominante sulla scena.
Anche Giasone e Vronskij, del resto, presentano alcune caratteristiche comuni: seducono la donna, la avvincono, ma non riescono a completare appieno il loro statuto virile: Giasone piange davanti alle prove da affrontare, Vronskij cade da cavallo, decide di scappare di fronte alle complicanze della storia con Anna, cerca di uccidersi dopo la magnanimità mostrata dal marito ma invano. 
La forza della donna sembra controbilanciare, in entrambi i casi, la mancanza di carattere dei due uomini.
Un simile suicidio mancato di amanti mi ricorda, infine, Antonio e Cleopatra di Shakespeare, dramma storico in cui Antonio, sul finale, decide di uccidersi ma riesce a ferirsi solamente, morendo tra le braccia di Cleopatra, che invece riesce a darsi una morte eroica, tragica e serena, non accettando il destino di diventare schiava di Roma e di Ottaviano.


Bibliografia essenziale

Euripide, Medea, Feltrinelli.
Lev Tolstoj, Anna Karenina, Einaudi.

Federica Picaro

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