Ognissanti

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La osservai qualche minuto prima che si svegliasse, stupito. Non avevo neanche bisogno di mettermi la sveglia. Ero vigile e basta. Stupito perché non so mai cosa stia accadendo dentro quegli ingranaggi cromati di biondo che lei ama coprire con qualche cappello buffo, ora un basco che le manca soltanto la baguette in mano, ora una bombetta che potrebbe girare uno di quei film muti in bianco e nero, ora qualche altra stravaganza che ha comprato in giro per il mondo. Le vacanze che ho passato con lei si possono contare sulla punta delle dita. Barcellona. Io volevo andare ad ubriacarmi, toccarla un po’ mentre i nostri corpi, madidi di sesso, unti di feromoni si strofinavano in qualche angusta discoteca; lei voleva visitare tutti i musei, dal Museo di Picasso al MACBA, senza pause, un panino al volo, il vento settembrino che la schiaffeggiava con la sua stessa sciarpa e tutta la città da esplorare. Litigammo tutto il tempo. Poi Firenze, un weekend romantico. Le cose già non andavano bene da un po’ e facemmo sesso soltanto la prima sera in albergo. Venni subito. Per il resto, la routine non era molto diversa dal nostro soggiorno spagnolo: io in albergo, lei al museo, solo che stavolta sbraitammo molto di meno. Come ho detto, le cose non andavano bene da un po’.
Si svegliò alle sette come faceva da sempre: sparando le palpebre verso l’alto come saracinesche, nessun indugio, nessun tentennamento. Ho sempre amato questo aspetto di Dani: è una che non ha tempo da perdere, sa quel che vuole, non temporeggia, non si masturba con mille pensieri affollati di se e ma e forse e dopo e se mai. Aveva una mascolinità nel modo di prendere le decisioni che mi aveva da sempre affascinato. Se non fossi sicuro di essermi inginocchiato per chiederle di sposarmi – e ne sono sicuro perché per la fretta stavo perdendo l’equilibrio - avrei giurato che fosse stata lei a chiedermi di sposarla, lei a organizzare le nozze, lei a dare la quarta mano di vernice al soffitto quando abbiamo ristrutturato l’appartamento, lei a mandarmi avanti. E forse è davvero andata così. Si raccolse i capelli in una coda di cavallo come fa lei quando sono unti da un paio di giorni ma non ha la forza di lavarli – adesso la conosco troppo bene – ma non mi diede neanche il buongiorno. Dopo la sua toelettatura – quei denti, avorio cesellato, uno dei motivi per cui mi sveglio ancora la mattina accanto a lei – corse verso la macchina e nel mezzo dell’automazione dei suoi gesti da pinzatrice nella bowl dove ammucchiavamo le chiavi dell’appartamento provai a strapparle un sorriso, una carezza, un contatto. Fu come se non l’avessi neanche toccata. Si limitò a scrollarmi di dosso come un cattivo pensiero. Non la seguii direttamente all’ufficio. Del resto in dodici anni di matrimonio non mi ero mai interessato veramente a cosa facesse in quel cubicolo da criceti, claustrofobico, su una tastiera a ticchettare come un orologio impazzito ma ora le cose erano cambiate. In realtà sapevo che faceva la giornalista, ed anche per una buona testata. Dico buona per non dire nazionale. Mai andato con lei ad una festa aziendale, mai letto volontariamente un suo articolo di cronaca – la cronaca nera mi dà il voltastomaco, figuriamoci poi la rubrica “Il club del libro” di Dani: era repellente per topi, repellente per tipi come me – e non ho mai neanche saputo se le piacesse davvero il suo lavoro. Dalle volte in cui tornava tardi la sera, dalle volte in cui a letto se ne stava a leggere e sottolineare scartoffie, a cancellare bozzoli di articoli direi tanto. All’epoca mi andava bene così. Più tempo per invitare gli amici a casa a vedere le partite, più tempo per dedicarmi alla cucina – so fare una carbonara che è uno spettacolo pirotecnico- più tempo per qualche amante, penserà qualche maligno. E penserebbe bene perché maligno ero io. Anzi, una merda. Ad oggi mi chiedo ancora perché la tradivo. Perché era più facile? Più facile cambiare scarpa se il laccio è troppo corto piuttosto che provare a rifare il nodo? Meno imbarazzante? Meno imbarazzante che ammettere che avevo sbagliato. Avevamo sbagliato. Aveva sbagliato. Avevo sbagliato. Meno imbarazzante di fare i conti con la mia virilità e dirmi che avevo fallito. Avevo fallito e avevo sbagliato e lei era del tutto in diritto di mandarmi a fanculo. Avrei potuto dirglielo che era colpa mia, che non avevo mai provato davvero a capirla, che innamorarmi era stato facile, chiunque può farlo con vent’anni di battito cardiaco, l’erezione facile e la voglia di innamorarsi ma mantenere il camino caldo quando fuori soffia il vento e le finestre sono spalancate, quello è difficile. E non ci sono riuscito.
La seguii dopo un po’ in ufficio e la sorpresi ad asciugarsi gli occhi: erano bucce di melograno, non avevano niente più da offrire, quel vecchio luccichio dell’iride di chi ne sapeva una più del diavolo era stato appannato da notti in lacrime che io, in silenzio, avevo fatto finta di non sentire ma che mi dilaniavano nel profondo. Una collega, seduta sulla scrivania del suo cubicolo la abbracciava, la confortava, le ripeteva: “Passerà”. Ritrovò un proprio equilibrio, un contegno che un tempo avrei tranquillamente ignorato ma adesso lo potevo indovinare da come si racconciò la coda, non un capello fuori posto. Seria, mia moglie. Si intrattenne a tamburellare sulla tastiera per tutto il pomeriggio ma con sguardo assente, fissando il sole girarle in tondo dal grande finestrone di plexiglass che dava sul tramonto, non tenendo mai lo sguardo fisso sul monitor del suo laptop per più di dieci minuti. Qualcosa la distraeva. Qualcosa la turbava. Feci per avvicinarla di nuovo, doveva sapere che ero lì, la stavo fissando come un maniaco alle sue spalle da ormai troppo tempo ma un tipo, altissimo, spalle grosse, capelli fluenti, uno di quegli esemplari di maschio alpha che credevo di aver visto soltanto nei film di sparatorie o corse d’auto clandestine, mi tagliò la strada così bruscamente che per poco non inciampai rovinando su una stampante vicina. Urlai dallo spavento e dalla rabbia e quello non si girò neanche. Non mi degnò di attenzione e quando anche lui abbracciò – per troppo tempo a mio parere – mia moglie capii che era uno che voleva fregarmela. So che è la cosa più ipocrita da dire da parte di uno che con l’amante ha sfogliato per ben due volte tutte le pagine del kamasutra ma adesso ero cambiato. Le cose erano diverse. Non volevo lasciarmela scivolare via così. Adesso ci tenevo, adesso mi interessava, adesso volevo che fosse felice con me, di me al suo fianco. Per l’occasione avevo imparato a memoria tutto lo scibile su di lei: musica preferita, cantautorato italiano; colore preferito, porpora; film preferito con Nicholas Cage, “Segnali dal futuro”. Avevo materiale da poter scrivere una biografia ed ogni volta provavo a farglielo capire, forse troppo tardi.
Non mi accorsi se non dopo le sei che se n’era andata dal giornale ma riuscii a trovarla. Non so come. Con un tailleur, una gonna e dei tacchi da urlo andò al cimitero. Non avevo notato che si era vestita così fin dalla mattina ma io non faccio mai caso a queste cose. Sono quello che dimenticava i compleanni, ricordava la classifica della Champions, dimenticavo quanto fosse importante per lei che mi prendessi cura del mio corpo, ricordavo le luci abbaglianti del corridoio dell’ospedale dopo l’infarto, dopo l’ultima volta, mi dimenticavo di lei, mi ricordavo solo di me. Portava stretta in mano una rosa, di quelle color del sangue che avrebbero usato alle lezioni di anatomia per far vedere cos’è il cuore e come è facile sparpagliarlo al vento. Arrivò ad un gruppetto di cappelline funerarie, fatte costruire qualche generazione prima dai ricchi del tempo. Mio padre mi diceva che mio nonno ne aveva fatta costruire una proprio in quel cimitero ma io non la visitavo da qualche anno ormai e fu proprio lì che andò. Sapevo, avevo sentito nel trambusto del tran tran mattutino che qualcosa era successo e che lei avrebbe fatto un salto non so dove e non so quando.
La osservai mentre armeggiava con la serratura del museo delle cere morte della mia famiglia e pensai praticamente a tutto. Vedere la vita che aveva dentro di lei sulla soglia della morte alzava i suoi zigomi, illuminava i suoi capelli. Volevo abbracciarla e dirle tutto quello che non avevo mai avuto il coraggio di dirle perché ero stato troppo egoista, troppo stupido, troppo maledettamente eterosessuale per dirlo. Perché quello che avevamo non era monouso, avrei solo dovuto prestare un po’ più di attenzione a lei, a noi, al tutto. Entrò ed iniziò a piangere. Pianse prima, quando posò la rosa sul pavimento e dopo, quando richiuse la porta alle spalle, mentre camminava e mentre perse l’equilibrio sui tacchi, piangendo ancora più profondamente, se possibile. Quel pianto mi rosicchiava dalle viscere. Anche quando le avvolsi il braccio sulle spalle per riscaldarla col mio alito lei non reagì. E non doveva farlo: non lo meritavo, almeno non ancora. Quel pianto mi ricordava tutto il male che le avevo fatto, il bivio al quale ci eravamo lasciati la mano, io le avevo lasciato la mano e mi ero avviato da solo. A volte penso che dovrebbero metterla qualche benedetta segnaletica. “ATTENZIONE: MOMENTO IMPORTANTE DELLA TUA VITA. NON FARE CAZZATE”. Ora come ora mi bastava un “LAVORI IN CORSO”. Me lo meritavo, meritavo una seconda chance. Tutti dicono che la vita dà sempre seconde chance, non fa che farti vincere al Superenalotto al tuo quarantasettesimo tentativo. Tutti lo dicono. Dovrebbe. O no?
È questo quello che stavo pensando quando entrai nella fredda saletta costruita con tufo e ceri, mi tolsi la giacca - ma quando me l’ero messa addosso? Non mi importava però pensai, mentre leggevo il mio nome inciso con uno di quei font gotici che piacciono tanto a mia moglie – adesso sapevo che le piacevano: “Certo che potevano scegliere una foto migliore da incorniciare! Questa mi fa il naso troppo grosso...”

Davide Aruta

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