Capitolo 6. Ritrovarsi

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La giovane non riusciva a smettere di guardarsi. Si contemplava, vanitosa e arrogante, osservando il suo volto addolcito da un sorriso estasiato. La superficie riflettente del grande specchio laccato in oro le restituiva la deliziosa immagine di una graziosa ragazza bionda avvolta da una nuvola di tulle bianco. Sulla vita, un nastro verde a spezzare quel candore di sposa.

Astoria non poteva essere più felice, e mentre le zelanti mani di due abili sarte ritoccavano il prezioso vestito, tempestato di brillanti e ornato da pizzi, sete e broccati, stoffe raffinate che abbellivano l’abito, lei non riusciva a smettere di sorridere.

«Siete così bella, signorina Astoria» squittì al colmo dell’adorazione una piccola elfa domestica, che trafficava con l’orlo ai suoi piedi. La ragazza non la degnò di una sola occhiata, ma dentro di sé si trovò perfettamente d’accordo con quel complimento.

«Ti sta bene» commentò una voce atona dal fondo della sala. Astoria guardò dentro lo specchio, ma stavolta i suoi occhi si puntarono oltre la sua spalla. La figura minuta ma splendida di sua madre sembrava quasi oscurarla con la sua bellezza, nonostante lei indossasse una semplicissima veste da casa. Niente, però, avrebbe mai potuto oscurare il luminoso sorriso di quella ragazza, che era cresciuta con l’idea che il matrimonio fosse il suo fine ultimo, e il più importante, e che quello, e solo quello, l’avrebbe fatta avvicinare allo splendore e alla beltà di sua madre. Tentava di eguagliarla, compiacendo al tempo stesso quel padre che la vezzeggiava con ogni capriccio, e intanto coltivava la sua segreta passione, quell’amore ossessivo nato tanti anni prima e mai spento, e che lei pensava fosse la sua unica ragione di vita.

Galatea si avvicinò con passi lenti ed aggraziati, guardando la figlia negli occhi attraverso lo specchio. Dal suo volto non sembrava trapelare alcuna emozione: le sue iridi erano fredde quanto la superficie che rifletteva l’immagine di Astoria.

«Credevo che Daphne l’avrebbe indossato prima di te» disse piano, sfiorando con un dito la gonna traslucida. Se c’era biasimo o dispiacere, nella sua voce, Astoria non lo intuì, troppo presa dall’eccitazione del momento.

«Pensavo di fare qualche modifica qui» indicò con allegria la scollatura, gesticolando per spiegare alla madre cosa aveva in mente. Lei ascoltò in silenzio, annuendo piano ad ogni proposta. Quando la figlia finì di parlare, schioccò le labbra.

«No» disse laconica, facendo un breve giro attorno alla figlia, che le restituì uno sguardo deluso e incerto.

«Perché?» domandò in un pigolio impaurito, totalmente messa in soggezione dalla pacatezza fredda della madre.

«Questo abito è nella nostra famiglia da generazioni. Non si fanno modifiche, porta male» rispose con tranquillità. Si fermò un attimo, come considerando tra sé quell’idea, poi scosse piano il capo biondo, ed emise un lievissimo sospiro, schiudendo appena le labbra rosee. «Allenta qui» ordinò con tono delicato ma perentorio a una delle sarte, indicando un punto sulla fascia lombare, poco al di sotto del nastro verde. Poi voltò le spalle alla figlia, lasciandola al suo sorriso. Uscì dalla sua stanza, percorse lentamente il corridoio, e si fermò solo quando incrociò gli occhi verdi di sua figlia maggiore.

«Non guardarmi in quel modo. Dispiace anche a me» dichiarò, e il suo tono, fino a quel momento piatto e privo di intonazioni, sembrava ora acceso da una punta di sincero dispiacere. Daphne abbassò lo sguardo, e la smorfia di disgusto che prima le corrugava il viso si distese.

«Cambierebbe idea se sapesse. Risparmieresti dolori a tutti» disse piano la ragazza, in un sussurro sofferente. Galatea strinse le labbra, e nei suoi occhi si accese un lampo di timore.

«È meglio così, Daphne. Credimi» replicò la donna, riacquistando in un attimo il suo distacco. Sua figlia scosse la testa, ed emise una risata bassa e scettica.

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