Prologo

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Sono sola. È buio e sento freddo. Un gelo penetrante che si insinua sotto la pelle e raggiunge l'interno delle ossa, dandomi la sensazione che possano congelarsi e andare in frantumi. Mi stringo di più su me stessa, arrotolandomi dentro l'unica coperta che ho. Non so da quanto tempo sono in questa posizione ma, se non trovo il modo per scaldarmi, morirò trasformata in una statua di ghiaccio. Mi immagino i titoli sul giornale: "quattordicenne si cristallizza e viene esposta in una villa insieme ai cimeli coreani."

Che stronzata. Se morissi, non se ne accorgerebbe nessuno. Probabilmente brucerebbero il mio corpo, o lo getterebbero in un fosso da qualche parte. Anche se qualcuno lo trovasse, chi lo rivendicherebbe? Un'orfana il cui unico parente in vita è suo fratello che, ironia della sorte, è rinchiuso nella mia stessa struttura infernale.

Basta.

La rabbia mi dà la forza per alzarmi di scatto e mi costringo ad ignorare il dolore lancinante ai muscoli e alle articolazioni, rimasti immobili al gelo per troppo tempo. Comincio a saltare sul posto, prima piano e poi sempre più veloce. Corro in circolo nella minuscola stanza e, di tanto in tanto, fendo l'aria con una serie di colpi a vuoto.

La porta davanti a me si spalanca di colpo e io sobbalzo appena. Quando mi rendo conto che è Mok, l'addetto ai reclutamenti, mi armo del mio peggior ghigno di rabbia e digrigno i denti. Mi ignora, come fa sempre, e mi ordina di seguirlo. Purtroppo non ho scelta, ma mostro comunque il mio disappunto sbattendo forte la porta dietro di me che emette un sonoro clangore metallico. Mok si stizzisce, ma decide saggiamente di tenere la bocca chiusa; l'ho già steso più volte e, se me ne desse la possibilità, lo ucciderei senza troppi rimorsi.

Percorriamo il lungo corridoio costeggiato da quelle che loro chiamano stanze: io preferisco il termine "celle". Arrivati in fondo, come consuetudine, abbandono i miei vestiti nel cesto situato all'ingresso e mi posiziono al centro della stanza. Mok e i suoi uomini afferrano le canne dell'acqua affisse al muro. Con un sorriso malefico, lo vedo girare lentamente la manovella e il getto d'acqua ghiacciata mi colpisce in pieno petto. Chiudo gli occhi e stringo i pugni lungo i fianchi, lottando contro la voglia di avventarmi su di loro e strangolarli con il tubo dell'acqua.

La prima volta che mi hanno sottoposta a questa tortura avevo tredici anni, e la cosa più dolorosa che avessi provato fino ad allora era stata l'appendicite. All'epoca, nella mia beata innocenza delle elementari, ero convinta che fosse la cosa più dolorosa che un bambino potesse sperimentare. Che illusa.

Il getto d'acqua si interrompe bruscamente e io rimango immobile, grondante, senza emettere un fiato. Mok mi prende per il gomito, pronto a trascinarmi, ma me ne libero con uno strattone.

<<Conviene che non mi tocchi>> sibilo. Il mio coreano è ancora parecchio arrugginito, ma lui non fatica a comprendermi. Mi lascia andare all'istante e, con un cenno della testa, indica la palestra. Onestamente, io preferisco chiamarla "arena". In realtà, tutti quelli che sono rinchiusi qui come me la chiamano così. Ricorda esattamente l'arena del Colosseo, dove i gladiatori erano costretti a combattere per la loro sopravvivenza. Vivere o morire. Questa era la scelta con la quale ero costretta a convivere ogni santo giorno.

Raddrizzo la schiena ed entro. La mia fierezza mi muore in viso quando noto il mio avversario, che mi sta già aspettando al centro del cerchio. Vladimir.

È tre anni più grande di me ed è a dir poco enorme. Fingo indifferenza e cerco invano di non farmi scoraggiare dalla sua stazza e dalla sua maggiore esperienza.

Il capo, che tutti chiamano Kim, è in attesa sulla pedana rialzata situata alla mia destra. Ha le mani giunte in grembo mentre due donne gli servono da bere. Vladimir raggiunge il deposito armi e sceglie due bastoni; io, invece, vado sul sicuro con i coltelli da lancio, le mie armi preferite. Il gong riecheggia sonoro nelle mie orecchie e mi provoca un brivido in tutto il corpo. Cominciamo a girare in cerchio e, prima del previsto, Vladimir si avventa su di me. Schivo i suoi colpi e riesco a graffiargli il braccio con la punta del coltello. Quel gesto lo fa letteralmente infuriare e il suo attacco successivo è troppo feroce per poterlo evitare. Mi colpisce alle costole con uno dei due bastoni e il fiato mi si mozza in gola. È un dolore lancinante, anche se non il peggiore che abbia mai provato. Continuiamo così, a colpirci e schivarci a vicenda, finché entrambi sentiamo lo sbuffo spazientito di Kim. Mok mi lancia un sorriso di sfida, pregustandosi la mia imminente sconfitta.

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