Andrea era steso nel mio letto e, con un mezzo broncio, aspettava che il tempo passasse, così che avrei potuto sapere se aveva ancora la febbre. Erano due giorni che la febbre gli saliva e scendeva e io, per precauzione, l'avevo fatto sistemare in camera mia, in questo modo non avrebbe contagiato anche gli altri. Insomma, era in quarantena perché avevo paura che infettando i più piccoli non sarebbero andati a scuola e che poi mi sarebbe toccato tenerli a casa. In quell'anno la fortuna aveva quasi sempre girato dalla mia parte e bene o male la mattina casa Leonardi era sempre stata vuota, ma l'inverno era arrivato e raffreddori, influenze e roba varia mi avrebbero costretto ad averli in giro per casa anche di giorno.
La scuola, lo ammetto, era una benedizione e mi sorpresi a pensare che ero diventato come quelle mamme che non vedono l'ora di mandare a scuola i figli e che non sanno come fare quando questa resta chiusa.
Cominciavo a capirle soprattutto perché averli a casa avrebbe significato non riuscire a organizzare il pranzo, ma essere costretto ad assecondare i loro capricci o ad ascoltare i loro bisogni; avrebbe significato averli tra i piedi mentre sistemavo; avrebbe significato non godere della calma e del silenzio che solo quando andavano a scuola avevo.
«Quanto tempo è passato?» mi chiese Andrea.
Guardai l'orologio: cinque minuti abbondanti erano trascorsi. «Puoi toglierlo» gli dissi.
Andrea si tolse il termometro da sotto il braccio e me lo porse. Storsi la bocca: segnava oltre i trentotto gradi.
Gli misi una mano sulla tempia e gli dissi: «Ce l'hai ancora alta, credo che dovrò chiamare il medico.»
«Però stamattina non ce l'avevo» si lamentò lui.
«Sì, beh, la febbre tende a salire la sera, quindi è normale. Adesso però chiamo il medico e vediamo cosa dice.»
Andrea annuì e si rannicchiò meglio sotto le coperte, mentre io uscivo dalla stanza. Era sera, ma i miei fratelli non erano ancora tornati dalla scuola di danza e così andai in salotto per chiamare il medico. Non appena estrassi il cellulare dalla tasca, però, squillò. Era Ilian.
Risposi quasi subito. «Ehi, ciao» gli dissi.
«Ciao» ricambiò lui. «Come va?»
«Abbastanza bene, stavo per chiamare il medico per Andrea.»
«Cos'è successo?»
«Ha la febbre.»
«Mh, vedrai che gli passerà presto» mormorò. «Senti, volevo parlarti dell'altra sera.»
«Sì, dimmi.»
«Ecco... volevo dirti che avevo bevuto molto e che ero particolarmente felice per la serata e per la riuscita dello spettacolo. Onestamente non so se io abbia fatto qualcosa di sbagliato o detto, ma...»
«Assolutamente no» mentii. «Nulla di tutto ciò.»
Da come mi aveva parlato Ilian, non mi sembrava il caso di rinfacciargli che avesse provato a baciarmi, o che l'avessi visto flirtare sia con donne che uomini. Era stato strano il modo in cui si era comportato, ma sinceramente non mi interessava molto come si divertiva e con chi. E poi, soprattutto, se ero capace a tenere i miei segreti, ero capace di tenere anche quelli degli altri.
«Okay, bene» fece lui.
«Mi avevi chiamato solo per questo?» Non volevo che attaccassimo subito, ma dovevo chiamare il medico al più presto.
«No, anche per sapere come stai, veramente, però.»
Sospirai. Quella era proprio una bella domanda. In fondo mi ero lasciato coinvolgere dalla sua idea ed ero andato a quella festa per svagare la mente, Ilian sapeva che c'era qualcosa che non andava e mentirgli non aveva senso, a quel punto.
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Io e i miei sette fratelli
General Fiction*** PREQUEL DI IO E I MIEI SETTE FRATELLI MAGGIORI*** Donato Leonardi ha solo diciannove anni quando i suoi genitori muoiono in un incidente d'auto lasciando lui e i suoi sette fratelli minori orfani. Il lutto sconvolge le loro vite e li costringe...