Stare bene

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Non ci pensai due volte, prima di spalancare la porta della camera di Giovanni. Lui era seduto alla scrivania e stava armeggiando con qualcosa, quando mi avvicinai capii che era un orologio. Andrea era seduto sul suo letto e stava leggendo; mi bastò una sola occhiata per fargli capire che doveva lasciarmi solo con la pecora nera della famiglia.

Se fino a quel momento avevo ritenuto il suo comportamento qualcosa di poco conto e da non approfondire con la speranza che sarebbe passato presto, adesso ero fermamente convinto che così non potevamo andare avanti. E poi, soprattutto, dentro avevo covato così tanta rabbia che, se non l'avessi sfogata, sarebbe finita male.

«Ti rendi conto di quello che hai fatto?» esordii, quando Andrea uscì dalla stanza.

«Cosa?» fece lui, continuando a fare ciò che stava facendo e senza prestarmi la dovuta attenzione.

Mi avvicinai a lui e gli tolsi l'orologio di mano. Alzò finalmente gli occhi su di me. «Quella donna era l'assistente sociale.»

«Ah sì?»

«Sì, e tu stavi per mandare tutto all'aria! L'ispezione era andata abbastanza bene, poi sei arrivato tu e hai parlato dell'incidente...»

«Non sapevo fosse l'assistente sociale.»

«Ah, perché secondo te è normale rivolgersi in quel modo a una donna? La tua ignoranza non ti giustifica per niente!»

Giovanni si alzò dalla sedia e si riprese l'orologio. «Ti ho detto che non lo sapevo, non c'è bisogno che ti scaldi tanto.»

Mi avvicinai a lui di un passo. «Mi scaldo tanto perché stavi per mandare tutto a puttane! Tutto ciò per cui ho lavorato in questi mesi. Se non le avessi fatto capire quando ci tengo, molto probabilmente avrebbe deciso seduta stante di non darci la tutela dei nostri fratelli!»

«Ma mi pare di capire che non è successo, giusto?»

Mi fermai e respirai a fondo. Non poteva fare sul serio. C'era qualcosa di sbagliato nel suo comportamento e nel suo modo di rispondermi. Sembrava non comprendesse la gravità della situazione, non capiva che con una sola frase avrebbe potuto costringere i nostri fratelli minori a vivere in case separate.

«Non te ne frega niente? Di tutto questo, intendo» gli domandai.

«Senti, Donato, capisco che l'ispezione era importante, ma se non vogliono darti la tutela, non te la daranno comunque. Non credo che per aver detto quella frase io abbia fatto chissà quale danno. E poi, scusa, gli incidenti capitano a tutti, no?»

Scossi la testa. «A me non sarebbe capitato. Non con in macchina i miei fratelli» ribattei, duro.

«Avevano tutti la cintura di sicurezza.»

«Non è questo il punto. Dovevi prestare più attenzione.»

A quel punto e senza che potessi aspettarmelo, Giovanni gettò a terra l'orologio che aveva tra le mani e mi si parò di fronte, minaccioso.

«Che cavolo ne sai tu di come è andato l'incidente?» ringhiò, a pochi centimetri dal mio viso. Da quella posizione, potei vedere le sue pupille dilatate e le vene rosse molto più accentuate del normale. «Mi stai dando la colpa senza sapere cos'è successo! Dai per scontato che è colpa mia, ma che ne sai? Quello stronzo ci è venuto addosso e io ero fermo, all'incrocio, per assicurarmi che non ci fossero pericoli e che potessi attraversarlo indenne. Per fortuna è stato solo un piccolo tamponamento, ma io non ho colpe. Invece, come al solito, tu dai per scontato che la colpa sia mia. L'hai sempre fatto, sempre.»

«Non è vero, Giovanni» replicai. «Non iniziare a fare la vittima.»

«Io? Se c'è una vittima in tutta questa storia sei tu, Donato. È da quando hai deciso di vivere di nuovo tutti insieme che non fai altro che comportarti come se ti fossi caricato da solo il peso del mondo intero.»

Io e i miei sette fratelliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora