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«Sveva! C'è tuo fratello che vuole salutarti!»

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«Sveva! C'è tuo fratello che vuole salutarti!»

Distesa su una sdraio a bordo di una piccola piscina dal fondo verde acqua, Sveva si godeva il sole caldo mentre leggeva una rivista di medicina. Si voltò in direzione della voce; sua madre la stava raggiungendo. Guardava lo schermo del cellulare e sorrideva, il passo deciso e i capelli biondo cenere a caschetto che ondeggiavano di qua e di là.

Il giorno prima Sveva era partita per trascorrere il fine settimana con i suoi genitori che non vedeva da troppo tempo. Vivevano in un casolare immerso nel verde della val d'Orcia, un'oasi di pace e tranquillità. Appena arrivata il padre le aveva mostrato orgoglioso la piccola vigna che aveva messo su e le varie piante di cui si prendeva cura, la madre i suoi fiori e l'arredamento della casa rinnovato. Li aveva trovati ringiovaniti ed energici e respirare quell'aria delicata le aveva dato subito un senso di soave benessere.

Prese in mano il telefono e si accorse che si trattava di una videochiamata. Sapeva che anche Enrico era partito il giorno prima con la squadra per disputare l'ultima partita di campionato a Cagliari.

«Sorellona, ti stai rilassando?» chiese subito il fratello quando la vide comparire nello schermo.

«Insomma. Mamma e papà non mi danno tregua» rispose lei in tono scherzoso. Lanciò un'occhiata divertita alla madre che si stava accomodando sulla sdraio accanto alla sua.

«Li puoi biasimare? Non ti vedono mai.»

«We Romanini! Smettila di amoreggiare al telefono!»

Enrico spostò lo sguardo verso la voce con pesante accento straniero che aveva pronunciato quella frase. Sorrise e gli fece un gesto con la mano che Sveva non riuscì a vedere.

«È mia sorella.»

«Ah, è tua sorella?» subito nello schermo comparve anche il volto allegro di Mark. «Ciao Sveva!»

Sveva sorrise. «Ciao Mark.»

«Non prendere impegni in queste sere, ok? Appena torniamo ci sarà una festa a casa mia per la chiusura del campionato e tu sei invitata.»

«Va bene, adesso levati dalle palle.» Enrico spinse via Mark.

Ma si udirono altre voci e ad un tratto Sveva si ritrovò a salutare tutta la squadra, compreso Christian con il quale aveva messaggiato pochi minuti prima. Non aveva nemmeno il tempo di parlare che altri si intromettevano, si prendevano in giro e scherzavano tra loro. Lei rideva, contagiata da quell'allegria generale. Anche sua madre partecipava alla chiamata di gruppo.

«Kieran!» chiamò ad un tratto Enrico. «Vieni a vedere chi c'è!»

Sveva avvertì un sussulto alla bocca dello stomaco. Le scappò un flebile lamento e si agitò tanto che la madre si mise a fissarla.

Dopo pochi secondi il volto magro e affilato di Kieran fu davanti ai suoi occhi. Sorrideva ma appena la vide divenne serio. Si fissarono per alcuni secondi attraverso lo schermo.

«Vedo che ti sei ripreso. E soprattutto che sei vivo.»

Lui sollevò un angolo della bocca, divertito. «Che ti avevo detto? Dovresti imparare a fidarti di me.»

«Sei un incosciente.»

«E tu sei una rompipalle.»

Scoppiarono a ridere all'unisono. Ed era una risata che sapeva di liberazione, come se ogni tensione si stesse disperdendo volatilizzandosi nei suoni cristallini che uscivano dalle loro bocche, l'effetto di una bomba che polverizzava tutti i loro sguardi astiosi e le battutine al vetriolo.

«Cerca di segnare, oggi» disse lei, infine.

«Mi guarderai?»

«Sì.»

«Allora guarda con attenzione, perché te lo dedico.»

«Sempre se lo segni...»

«Vedrai» le fece l'occhiolino e diede il telefono a Enrico.

Si salutarono poi lei lo passò nuovamente alla madre. Riprese in mano la rivista. Lesse qualche riga di un articolo riguardante una nuova tecnologia per le operazioni al cervello in fase di sperimentazione ma si distrasse quasi subito. Aveva in mente il sorrisetto di Kieran, quegli occhi scuri scintillanti e pieni di divertimento.

Forse avevano ragione tutti quando le dicevano che era troppo rigida. Forse doveva lasciarsi andare di più alla vita e prenderla con leggerezza. Era sempre stata concentrata sulla sua realizzazione personale e a volte aveva dato per scontato che tutto sarebbe andato secondo i suoi piani, come aveva fatto con Logan.

Sempre tutto programmato nel minimo dettaglio. Non pensava di essere una persona arida, solo fortemente razionale. Ai sentimenti aveva sempre accostato la ragione e non aveva mai permesso a questi di influenzarla nelle decisioni. Anche l'idea di partire per l'Italia e non vedere più Logan era stata una scelta ragionata. Da questa esperienza universitaria ne avrebbe tratto molti benefici a livello accademico, per le sue ricerche e i suoi studi sul campo. Di avventato non aveva fatto mai nulla nella vita e l'idea di iniziare a comportarsi diversamente non la entusiasmava ma era arrivata in un momento della sua esistenza dove sentiva il bisogno di mollare la presa sul controllo.

Tolse le scarpe, arrotolò i pantaloni fino al ginocchio e si sedette a bordo piscina. L'acqua era gelata ma in contrasto col sole cocente era piacevole. Chiuse gli occhi, distese la testa all'indietro e lasciò che i raggi caldi le accarezzassero la pelle.

Si sporse ancora di più nell'acqua, fino a bagnare i pantaloni. Era agitata, avvertiva in sé un'urgenza pressante e quasi fastidiosa. Si lasciò cadere completamente nella piscina, il corpo scosso da brividi. Immerse anche la testa. Come aveva fatto a trasformarsi in una persona debole, dedita all'autocommiserazione? Come aveva potuto permettere che accadesse?

I polmoni cominciarono a bruciarle. Accolse il dolore, lasciò che crescesse. Sentiva come se per lungo tempo avesse vissuto in una bolla che le aveva risucchiato l'energia vitale. Era stanca di sentire solo tristezza, di sentirsi vuota e infelice.

Uscì fuori di scatto, batté le palpebre e respirò. L'aria entrò prepotente e dolorosa, proprio come quando nasciamo e per la prima volta respiriamo, proprio come se stesse nascendo di nuovo. Si distese e allungò le braccia verso il sole. Il venticello dolce giocherellava tra le sue dita, i raggi filtravano fino a raggiungere parti del viso e gli occhi. Li chiuse e sorrise.

Si perdonò per tutte le volte in cui non si era voluta bene, per tutte le volte in cui aveva permesso a sé stessa di sentirsi debole, poco adatta, infelice.

Era libera, adesso.

Così dannatamente belloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora