Capitolo 1 - Ospedale

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—Marco, che ha detto Sara, stanno bene?— chiesi. Ero seduto sul lettino della sala operatoria e da circa venti minuti l’operazione per richiudere il taglio nel braccio era terminata con successo. Stavo guardando Marco con gli occhi socchiusi. Il sonno si stava lentamente prendendo il suo posto all’interno del mio corpo. Lo fissai per altri due secondi con il braccio sinistro, appoggiato sulla mia gamba, quando ad un certo punto, Marco abbassò il telefono e mi fissò negli occhi.
—Fabio ti prego, dobbiamo tornare a casa!— esclamò improvvisamente.
—Che , cosa... Marco che stai dicendo? C’è il diluvio universale la fuori e tu vorresti tornare a casa? No, tu non devi sentirti molto bene—  sbottai io incredulo.
—Fabio ti scongiuro! Ho chiamato adesso Sara, ha risposto per soli tre secondi ma poi ho sentito un tonfo, come se qualcuno cadesse. Poi ha iniziato a parlare Miriam, era spaventatissima, ha detto che Sara era svenuta in quel momento, lei crede a causa di una crisi nervosa. Ha... ha detto che era andata via d’improvviso la luce, e che sono andate di sopra a cercare Anna, ma lei non c’era cosi sono andate nell’attico e l’hanno trovata in fondo che piangeva attaccata a... Giselle. Cioè cosi ha detto la tua ragazza — Disse lui in fibrillazione.
— Giselle? Sara svenuta? Anna che non si trova... ma cosa cazzo è successo mentre non eravamo li?— mormorai iniziandomi a grattare la testa. Stavo osservando nel frattempo il braccio destro fasciato e legato al collo con una fascia quando notai una cosa alquanto insolita. Oltre a Marco che stava imprecando tra sé, notai un particolare inquietante.
Il silenzio.
In quell’ospedale c’era adesso un silenzio di tomba. Si sentiva addirittura il ticchettio costante e rilassante della pioggia. La stanza in cui ci trovavamo era una sala operatoria alquanto spoglia, che ricordava vagamente una cucina di un hotel da mezza stella, ovvero, un vero e proprio tugurio. Non riuscii nemmeno a capire cosa mi avesse spinto a farmi operare li. Avevo buoni motivi per pensare che il bisturi che avevano usato poco prima, fosse lo stesso con cui Jack lo squartatore mieteva le sue vittime secoli prima, mentre i fili per richiudere l’arteria e la ferita in realtà fossero del comune spago per roastbeef. Dopo quindi aver soppesato brevemente cosa poteva comportare l’essermi fatto operare da quel vecchio dottore che supposi essere una sorta di maniaco pedofilo, focalizzai la mia attenzione sul corridoio che intravedevo dall’oblò della porta della sala operatoria.
Da quel che avevo capito il paese era piccolissimo e la popolazione non era sicuramente composta da giovani. Forse la persona più giovane aveva novanta o forse anche cento anni. Osservai per un po’ l’orologio nella schermata del mio cellulare. Le undici in punto. La stanchezza stava per farmi chiudere gli occhi quando un’osservazione di Marco mi fece destare dal mio imminente torpore.
— Fab, qualcosa si è mosso in corridoio —
—Marco non fare lo stupido, sarà qualche dottore che è passato di li siamo in un ospedale del resto — ribadii io
— No amico, non era un dottore quello— Disse lui senza staccare gli occhi dal corridoio.
—Marco sarà stato un paziente, dannazione!— esclamai sottovoce.
Passò qualche secondo dalla mia frase che un rumore di campane penetrò all’interno della sala operatoria. Un brivido mi percorse la schiena. Mi massaggiai quindi il collo lentamente e quasi istintivamente per far svanire quella leggera sensazione di freddo e gelo che si era instillata nel mio corpo.
—Marco, l’hai visto anche tu?— dissi improvvisamente.
— Si.. — disse lui stringendo la mano al lettino su cui ero semi seduto. Di nuovo le campane. Le udimmo altre undici volte dopo quella. Infine all’undicesimo rintocco, scrutai il cellulare.
Mezzanotte.
Dunque le campane non avevano sbagliato a suonare una volta in più. Come era possibile che fosse accaduta una cosa simile. Attirai quindi l’attenzione di Marco.
— Senti, tira fuori il telefono. Che ore fa il tuo —
Marco estrasse all’istante il cellulare fissandolo.
— Le ventiquattro in punto… .e allora che vuol dire che... no. No aspetta,  non è possibile —bisbigliò lui intimorito.
Marco lasciò cadere il cellulare a terra e mi guardò gli stessi occhi di un bambino impaurito
— Si, c’è qualcosa che non va... — dissi. Mi sentivo a disagio. Era come se qualcosa mi fosse rimasto sullo stomaco, e di certo non era la cena di Miriam. Era come se stesse per accadere qualcosa di strano, qualcosa di non inspiegabile a parole. Non passò molto tempo che un lampo enorme fece risuonare l’intero complesso dell’ospedale, facendo saltare tutte le luci. Fuori si sentiva ancora il ticchettio costante della pioggia, adesso ancora più forte di pochi attimi prima. Era buio pesto. Le uniche fonti di luce erano le luci di emergenza che si erano avviate da sole in quel momento. Il loro colore era di un blu alquanto tetro e freddo. Marco mi prese per il braccio sinistro e si accovacciò a raccogliere il suo cellulare, l’attuale unica fonte di luce nella sala. Avviò il video, in modo da poter usare il flash per avere un po’ più luce.
—Fabio— iniziò a dire — dobbiamo andarcene e alla svelta— concluse. Marco aveva ragione, per una volta. Una strana sensazione mi diceva che dovevamo andarcene di lì al più presto. Marco fece luce con la torcia del telefono e mi aiutò a scendere dal lettino. Quando fui quindi a terra, Marco si avviò verso la porta ma si blocco immediatamente.
— Marco! Che cazzo fai? Muoviti dobbiamo andarcene! — sussurrai.  Mi avvicinai così a lui per cercare di capire cosa lo avesse bloccato e lo capii immediatamente. Dall’oblò della porta scorgemmo una strana figura, che si stava avvicinando verso di noi. Prima avvolta dalle tenebre, si fece sempre più nitida finché non passò sotto una luce di emergenza per circa qualche frazione di secondo, il tempo che mi bastò per intravedere i contorni di quella che mi parve una bambola. Un altro tuono echeggiò lontano da noi in quel momento. Ci guardammo indietro entrambi attirati dal tuono ma quando ci voltammo di nuovo, una visione completamente diversa da quella che ci aspettavamo si materializzò di fronte ai nostri occhi.
Una ragazza. Una ragazza stava di fronte a noi a pochi metri dalla porta. Era parzialmente illuminata da una luce di emergenza del lungo corridoio che ci separava dalle scale che portavano ai piani inferiori. Cinque piani separavano la nostra stanza dal piano terra e dalla nostra possibile “via di fuga” . Concentrai poco dopo la mia attenzione di nuovo sulla ragazza. Aveva più o meno quindici, forse sedici anni. Era alta sul metro e sessanta, era snella, molto snella ed indossava un lungo abito rosa carne, con dei ricami in pizzo sull’orlo dell’abito. Il suo corpo, qualora ne avessi indovinato l’età nella mia valutazione, non era molto sviluppato. Aveva dei fianchi stretti e quasi inesistenti ed il seno era molto piccolo, quasi assente. Passai al volto. Capelli biondi ed estremamente lunghi sino in fondo alla schiena che si raccoglievano in tre grandi punte rivolte verso l’alto in maniera quasi innaturale. Erano inoltre estremamente lisci e leggermente gonfi. Il volto alquanto magro mostrava delle guance stranamente paffute, quanto agli occhi, riuscivo a scorgerne solo uno, più una piccola porzione di naso. Le altre parti erano avvolte nell’ombra in un punto in cui la luce d’emergenza non arrivava. Il naso da quel che scorgevo era piccolo ed all’insù, mentre l’occhio era allungato e decisamente largo. L’iride mi parve quasi viola, così feci cenno a Marco di alzare il telefono e fare uno zoom. Marco eseguì senza far rumore. Ingrandì il suo volto. Avevo ragione, l’iride era viola ma la pupilla aveva qualcosa di strano che era impossibile da notare con lo zoom sul telefono ma se avessi dovuto azzardare, avrei giurato che quella pupilla fosse stata bianca e dalla forma felina, ovvero una cosa umanamente impossibile. In quel momento una smorfia si formò sul volto della ragazza. Era come se stesse sorridendo, ma quel sorriso mi sembrò alquanto innaturale, come se fosse forzato da qualcosa che non comprendevamo. La ragazza alzò in quell’istante un braccio, e fece cenno di seguirla con la mano. Stavo per aprire la porta per farlo, ma Marco mi afferrò per una mano.
— Fabio che cazzo fai idiota? Dove vai?— disse sussurrando. Ritornai in me.
— Oddio, che cazzo stavo facendo? — dissi spaventato — Non lo so Marco, non lo so, senti, qua c’è qualcosa che non va, chi credi che fosse quella la? Una paziente? — continuai.
—Fabio, senti non credo che quella là fosse una paziente, qua i pazienti non hanno quei vestiti— Sussurrò lui —Amico, davvero, adesso andiamocene da qua al più presto, sento che le cose andranno sempre peggio se restiamo qui... — prese a dire ma concluse immediatamente la frase. Un brivido gelido percorse la schiena di entrambi. Non passò molto tempo da che provammo quella sensazione che udimmo una voce.
— Avanti, seguitemi, mi occuperò io di voi, suvvia, di cosa avete paura— La voce diceva questo. Era una voce femminile, quasi di una ragazzina. Ipotizzai che potesse essere quindi la voce di quella ragazzina vista poco prima. Non la riuscivamo a vedere più ormai, quasi come se fosse sparita nell’ombra ma riuscisse ancora a vederci.
— Avanti uscite, vi porto al piano terra — Continuò.
Guardai Marco, gli feci cenno rialzare il cellulare e cosi fece. Aprii lentamente la porta facendo cigolare i cardini esterni. Feci quindi un passo nel buio ma subito chiesi a Marco di illuminare il corridoio.
— Fab, cazzo hai un S2 dove la torcia funziona senza video, avanti usalo e non rompere—  Presi il cellulare e avviai la torcia. Iniziammo a procedere lungo il centro dello stretto corridoio a piccoli passi. Ai lati si trovavano le varie stanze che teoricamente dovevano ospitare i pazienti. Tutte erano vuote e buie e tutte avevano lo stesso arredamento. Lettino in legno con coperte rosa, fuxia e televisori alquanto vecchi, di quelli a tubo catodico. Quelle dal lato sinistro avevano una finestra, mentre quelle sul lato destro al posto di una finestra avevano un enorme quadro, raffigurante l’intero paese nel quale ci trovavamo. Dissi a Marco di avanzare poiché io mi sarei infilato per un attimo in una stanza a capire dove ci trovavamo di preciso osservando il quadro. Entrai quindi in una stanza. Mi misi ad osservare l’enorme quadro raffigurante il paese. L’ospedale in cui eravamo si trovava in periferia, dal lato opposto alla strada che avevamo percorso per arrivare. Eravamo circondati dai boschi, che si allungavano fin sulle montagne, poco lontane dai confini del paese.  Questo non era molto grande, al massimo poteva contenere occhio e croce, sulle ottocento o mille persone. Non molte, forse si conoscevano pure tutti.  Vicino all’ospedale che rimaneva in periferia, c’era un Irish-pub e una chiesa che si trovava proprio davanti. Intuii che il parroco molto probabilmente era un assiduo frequentatore del locale in questione. Più in là invece c’erano delle piccole casette tutte accalcate tra di loro e fatte in mattoni. Il quadro era una sorta di fotografia scattata da un’angolazione molto ampia dalla quale si riusciva ad intravedere anche il promontorio dove era situata la villa. Stavo cercando di individuarla quando d’un tratto sentii qualcosa sulle spalle.
Un tuono echeggiò rumoroso proprio sopra di noi.
Dopo essermi ripreso da suono, abbassai il cellulare, lo inserii lentamente in tasca e ingoiai la mia saliva.
Una mano.
Anzi, due mani mi stavano appoggiate sulle spalle.
—Ma-Marco, se-sei tu? —  Balbettai intimorito.
Silenzio.
— Se questo è uno scherzo giuro che non sei divertente — Questa volta, però mio malgrado ebbi una risposta.
— A-ah, mi spiace Fabio, non sono Marco— Era la voce di una ragazza. La stessa ragazza di prima. Compresi che le mani erano le sue. Erano reali. Non un sogno. Le sentivo gelide e delicate sulle mie spalle. Deglutii di nuovo. Le mani allentarono quindi la presa e mi voltai lentamente. La vidi. Era lei.
L’altezza non l’avevo sbagliata nella mia valutazione e nemmeno il colore degli occhi. Mi stava fissando con le braccia adesso conserte dietro la schiena e leggermente chinata verso di me in atteggiamento incuriosito.
— Cosa vuoi... da me...— dissi con voce tremante.
— Mhmh... — fece una piccola risata a bocca chiusa e guardò a terra. Poi tornò a fissarmi come prima
— Sei... una paziente? — chiesi.
— Beh Fabio, se vuoi che lo sia posso esserlo, per te, non è così?— disse lei con voce ridente andando a gettarsi di schiena sul lettino lì accanto. Poi tornò a fissarmi dopo alcuni secondi rimasta impassibile a fissare il soffitto.
— Come fai a sapere... il mio nome. Chi sei? Cosa vuoi da noi? — chiesi per l’ennesima volta.
— Oh Fabio andiamo, sai cosa voglio, non voglio nulla da voi, solo... da... te..— disse — da te voglio qualcosa, qualcosa che potresti avere solo tu — concluse.
— Senti forse abbiamo iniziato col piede sbagliato eh? Ora tu mi dici chi sei— chiesi a quel punto innervosito dal sua atteggiamento infantile e misterioso. Evidentemente in quel momento si era accorta del mio nervosismo e cambiò subito tono della voce quasi come per calmarmi.
—Oh caro, ma come siamo nervosetti stasera eh? È il temporale che ti rende così? Si forse è quello, rende inquieti un po’ tutti di questi periodi, soprattutto se… — cominciò a dire ma la interruppi. Impaurito e innervosito, camminai furente verso di lei, la afferrai con il braccio sinistro per la veste e la sbattei contro lo schienale del letto.
— Tu adesso mi dici chi cazzo sei! Non te lo ripeterò una seconda volta stronzetta. Ho già abbastanza problemi, non farmene venire altri!— le sbraitai in quel momento mentre la tenevo col solo braccio che mi rimaneva utilizzabile. Nell’afferrarla però le avevo fatto salire verso l’alto il suo vestito, mostrando le sue parti intime. Non indossava biancheria, cosa che mi fece supporre che fosse una paziente. Il mio istinto maschile mi traviò nel portare lo sguardo proprio verso le sue intimità per stare poi immobile ad osservarle, quasi ipnotizzato. Dopo alcuni secondi, la ragazza evidentemente attirata dalle mie attenzioni verso di lei, mi prese per la maglia avvicinandomi a se ed avvicinando la mia bocca alla sua, dedicandomi poi uno sguardo malizioso.
— Lo vorresti eh? Ammettilo, non puoi resistere... io sono qua, per te, sono tua, fammi ciò che vuoi, Fabio... — disse con voce sensuale e prendendomi la mano la porto lentamente sul suo pube, facendola scendere sempre di più, fino a sentire il calore del suo corpo. Dopodiché, si avvicinò ancora di più alle mie labbra ma la figura di Miriam mi balenò in quel momento nella testa e mi ritrassi istintivamente.
— Troietta, vattene da qui, sono impegnato, mi spiace— dissi allontanandomi dal suo corpo. In quel momento, un brivido mi percorse per l’ennesima volta la schiena, mi voltai per un attimo e quando tornai a fissare il letto il letto la ragazza era sparita.
— Fabio, mi spiace, speravo davvero che mi avresti accettata, ma se non mi desideri ti capisco, mi spiace solo che… dovrò vederti soffrire — La sua voce mi giunse da dietro. Feci in tempo a voltarmi e vederla con un sorriso macabro sul volto, quasi folle. Vidi i suoi occhi viola farsi sempre più scuri fino a  che la sclera non divenne nero pece per poi sciogliersi in lacrime scure che colarono sul volto, un volto che si stava smagrendo sempre più fino a diventare scheletrico pur conservando la pelle candida. I capelli, iniziarono a diventare crespi e scuri. Il corpo sempre più esile e longilineo mostrava gran parte dell’ossatura ed il vestito da rosa, mutò colore in verde acido iniziando a decomporsi assieme al resto del corpo. A quella visione rimasi paralizzato, mentre quell’essere camminava verso di me.
— Fabio, Fabio, Fabio, mio caro tesoro, mi spiace, davvero molto, potevi semplicemente accettarmi subito no? Era questo lo scopo di tutto, del resto sono finalmente riuscita a trovarti e tu mi tratti così?— disse e prese un bastone di ferro accanto al letto che prima non avevo notato. Lo alzò verso di me e vidi quell’oggetto piegarsi come un o stecchino da denti e poi spezzarsi in due. Il mio sguardo terrorizzato da quell’evento impossibile, compiacque quell’essere. Lei fece un sorriso senza aprire le labbra o quel poco che ne era rimasto. A quel punto avanzò di nuovo verso di me a piccoli passi e quando alzai il braccio ingessato in modo istintivo per proteggermi, lei ci sferrò contro un pugno frantumandomi l’osso di netto. Vidi il braccio afflosciarsi lentamente e piegandosi in due parti. Urlai dal dolore con tutto il fiato che avevo in gola. Con l’altro braccio me lo afferrai e me lo strinsi con forza sperando che il dolore passasse ma non fu così. Mi ritassi indietro cadendo a terra fissando con gli occhi fuori dalle orbite per il dolore quella che fino a poco prima era una ragazza. Aveva un sorriso sornione adesso stampato sul volto scarno e demoniaco. Mi fissava divertita mentre io mi contorcevo dal dolore per il braccio rotto che aveva ripreso a sanguinare copiosamente dalla ferita richiusa poco prima. Mentre cercavo ancora di indietreggiare, lei avanzò nuovamente verso di me raccogliendo da terra il palo di ferro e iniziò a percuoterlo sul muro.
Ero impaurito a morte.
— Marco!— urlai — Marco!— gridai nuovamente.  Nulla. Non mi sentiva. — Brutta stronza che cazzo gli hai fatto??— imprecai.
— Io? Oh, nono, tesoro ti sbagli, io non l’ho toccato. Se proprio ti interessa lui è a quattro piani sotto di noi. Ma sta tranquillo, dopo che varò finito con te, mi occuperò di lui se sarà rimasto un po’ di tempo — disse lei. 
— Puttana!— sbraitai indietreggiando ancora. Ero arrivato finalmente nel corridoio, quando lei con un passo veloce, mi raggiunse.
—Tranquillo, sentirai un leggero prurito e poi nulla, fidati, ci sono passata anch’io tesoro… contro il mio volere ma ci sono passata anche io— Sghignazzò lei mentre io mi ero sollevato di nuovo in piedi per cercare di scappare.
—No aspetta! Cosa vuoi fa...— non finii la frase che prese il palo e mi colpi con violenza sull’addome, provocandomi un dolore assurdo che mi tolse il respiro. Caddi a terra, ma la mia caduta fu bloccata dalla sua mano che si strinse attorno al mio collo ed in quel momento mi bloccò addosso al muro tenendo il mio corpo sollevato da terra. In quel momento osservò il braccio rotto e fece una faccia dispiaciuta.
—Non credi che sia un po’ poco cosi?— disse.
—No aspetta cosa vuoi fare… no!—  sbraitai, cercando di farle cambiare idea. Ma era troppo tardi. Lasciò la presa dal mio collo e afferrò al volo il mio braccio stringendolo al muro del corridoio come aveva fatto col collo poco prima. Alzò la sbarra e me la conficcò tre o quattro volte nel braccio destro. Osservai la scena inerte e preso dalla paura e dal dolore iniziai ad urlare. Sentivo di nuovo le ossa rompersi sotto la spranga che entrava nel braccio più e più volte. Stavo piangendo come non avevo mai pianto prima, mentre osservavo disperato fiotti densi di sangue uscire dai vari fori creati dalla spranga. Alcuni schizzi di sangue le macchiarono il volto e quando fu soddisfatta del lavoro svolto su di me mi lasciò il braccio e si leccò il denso liquido rosso. Poi mi afferrò nuovamente per il collo e mi fissò negli occhi. Lentamente il suo corpo ritornò ad essere umano. Adesso i miei occhi erano fissati dai suoi ,viola e con una pupilla felina bianca come la neve.
—Il tuo sangue mi ha appena rivelato molte cose interessanti su di te…ma… mi ha rivelato che non sarò io qui ad ucciderti… c’è veramente qualcosa di particolare in te, più di quanto mi aspettassi ma… Mi spiace, speravo che dopo tutto questo non avresti più dovuto soffrire e che il passaggio sarebbe stato immediato. Evidentemente c’è qualcosa che non va in te ancora. Pare che passerai una brutta nottata. Puoi stare tranquillo. La morte umana è solo di passaggio e non è certamente dolorosa ma ciò che ti aspetta è decisamente peggiore probabilmente. Come ti ho detto, ci sono passata anche io, contro il mio volere— disse dopo poco. Non capivo, era tutto confuso in quel momento, stavo per svenire quando ad un certo punto, la vidi alzarsi ed osservare in direzione delle scale per i piani inferiori.
—Vedo che il tuo amico ci ha sentiti eh? Beh, voglio farmi perdonare mentre viene qua. Mi spiace tesoro di averti fatto soffrire così tanto, vediamo di ottenere qualche punto... a mio favore. Allevierò il tuo trapasso, momentaneamente — Detto questo si accovacciò accanto a me. Non stavo capendo cosa faceva, sentivo solo un strano rumore, provenire da una qualche parte del mio corpo. Evidentemente stava facendo qualcosa, ma non capivo cosa.
— Ecco fatto. Spero che nei prossimi giorni andrà tutto bene. Tornerò a vedere come stai, inizi a piacermi adesso — disse alzandosi. La seguii con lo sguardo mentre si dirigeva verso le scale per poi iniziare a dirigersi verso di esse per scendere. Vidi Marco in fondo al corridoio, puntare la luce del telefono verso di lei. Ma questa non si interessò particolarmente a lui, e si avviò verso le scale. Marco indietreggiò e si fece da parte sul corridoio, seguendola intimorito con lo sguardo, finché entrambi non la vedemmo scomparire senza alcun rumore, nell’ombra.
—Marco...— sussurrai senza forza in quel momento.
— Fabio!— esclamò lui vedendomi a terra, in mezzo a un lago di sangue.
— Mio dio, che ti è successo?— disse impaurito e tremante.
— Lei... lei… Andiamo a casa— sussurrai.
— Chi era quella Fabio? Chi era quella??— esclamò Marco terrorizzato.
— Io...i o... non lo so, lei era… è— iniziai a farfugliare. Poi quasi istintivamente un nome si materializzò nella mia mente.
— Giselle... — conclusi la parola e svenni.  In quel momento, mentre il buio mi avvolgeva, udii di nuovo la voce della ragazza. I miei occhi vedevano Marco che mi scuoteva ma le mie orecchie non sentivano lui, sentivano lei, lei e soltanto lei.
— Bravo tesoro, ora che hai appreso il mio nome, andrà tutto bene... riposa pure — questa fu l’ultima cosa che udii quel giorno. Dopodiché più nulla. Solo un assordante ronzio proveniente dalla mia testa, insieme ad uno strano scricchiolio che ricordava quello di ossa che si rompevano ed infine una luce abbagliante che pervase la mia mente pochi attimi dopo avvolgendo tutto il resto.

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