L'infanzia del principe di Numenor

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I Signori di Andúnië recarono visita ai loro congiunti, esprimendo grande letizia per la nascita dell'erede di Gilnar; i Noldor di Gil-Galad colmarono il bimbo di doni preziosi e si rallegrarono della nascita del principe númenóreano: per ultima, giunse colei che i mortali chiamavano Manëa La Veggente. Alcuni mormoravano che la donna fosse araldo dei Valar del remoto occidente, ché sapeva scrutare nei cuori degli Uomini e la sua sapienza era pari solo alla sua saggezza. La veggente, preso il bambino tra le anziane ma ancora vigorose braccia, lo guardò sorpreso, sicché tutti coloro che erano nella sala del palazzo di Minas Laurë osservarono, angosciati, il suo viso oscurarsi. Infine, dopo aver riposto delicatamente l'erede di Gilnar nella sua culla, sospirò e pronunciò tali parole: "Signori di Númenor, mai mi era capitato, nel corso della mia lunga esistenza, di guardare un simile bambino. Eärél è stato chiamato, eppure sappi, Gilnar figlio di Nardil, che egli muterà il suo nome allorché giungerà l'ora. Il destino di tuo figlio sarà solitario e si concluderà in terra straniera: non si vincolerà a nessuna mortale o immortale, a meno che non deciderà di abbandonare il percorso che gli eventi cui sarà partecipe lo costringeranno a seguire".

Inquieti, i volti di Gilnar e di Nimrilien osservarono in silenzio la Veggente; infine, la dama dell'Andúnië parlò e lasua voce era rosa dal dubbio e dal timore: "Vuoi forse dire che il nostro primogenito avrà una vita travagliata? Non domandavo per mio figlio ricchezze o vita lunga; eppure, il mio cuore piange presagendo quali conseguenze avranno le parole da te pronunciate".

Il volto di Manëa rimase impassibile, come le rocce rese impenetrabili alla salsedine del mare: "Non temere Figlia di Andúnië, ché egli è destinato a grandi imprese e se il suo cuore resterà saldo, acquisterà grande fama tra le Genti Libere di Endor ed il suo nome non sarà obliato".

La veggente si inchinò lentamente e afferrata la sua bianca verga si accinse ad abbandonare la sala; giunta, tuttavia, alla soglia della porta, si voltò e parlò ancora una volta: "Colui che ora dorme nella culla vivrà a lungo e la sua vita si spegnerà a tarda età: se la sorte non gli sarà contraria, solo Elros Tar-Minyatur avrà avuto un'esistenza più lunga della sua. Amerà, signora di Andúnië e sarà a sua volta amato. Se dolorosa sembrerà a tuo figlio la separazione allorché giungerà l'ora, sappiate che non perderà quanto sarà caro ai suoi occhi, ché il destino dei Figli Minori di Ilúvatar si compie al di fuori del mondo: i mortali, tuttavia, non lo comprendono, mentre coloro che sono degli Eldar lo ignorano. Ho parlato".

Nessuno fra i presenti osò sovrapporre la propria voce a quella di Manëa: essi, infatti, pur onorandola, la temevano, ché, sebbene avesse sembiante umano, pure percepivano che non era della stirpe dei Figli di Ilúvatar e che aveva assunto tale aspetto per confondersi fra loro.

Gli ospiti, al termine dei festeggiamenti, abbandonarono la dimora di Gilnar, recandosi ciascuno nei propri domini: negli anni seguenti serbarono nel proprio cuore il ricordo di quanto era avvenuto quella notte, consapevoli che se il sovrano o uno dei suoi vassalli avesse appreso la profezia, non avrebbe esitato a sopprimere il figlio di Gilnar. Trascorsero dunque dieci lunghi anni, ed Eärél crebbe forte e vigoroso nel corpo e nella mente, sebbene parlasse poco e le sue parole fossero oscurate da un'ombra di pallida malinconia. Stupiti, i suoi genitori lo vedevano discutere sovente con gli anziani che avevano dimora nella città di Minas Laurë: Eärél, infatti, aveva un animo curioso ed era ansioso di conoscere le leggende ed i racconti che il suo popolo aveva tramandato; nelle ore serali consultava i manoscritti e le pergamene che giacevano nelle grandi e silenziose sale sotterranee di Minas Laurë.

Gilnar, suo malgrado, si avvide che il primogenito non volgeva quasi mai lo sguardo al mare: se i suoi occhi grigi si soffermavano per qualche istante sulle tumultuose onde che si abbattevano fragorosamente sulle sponde rocciose dell'Hyarrostar, ne restavano turbati. Ben presto, in cuor suo, Gilnar si rese conto che le parole pronunciate anni prima da Manëa si erano mostrate veritiere e che mai il suo erede si sarebbe dimostrato un esperto marinaio.

Grande fu dunque la sorpresa che Gilnar nutrì, allorché scorse il figlio avvicinarsi ai possenti stalloni che aveva ricevuto pochi giorni prima come dono da parte dei popoli della Terra di Mezzo. Eärél non sembrava mostrare alcun timore e le bestie lo lasciavano avvicinare al loro chiaro pelame, mostrando di gradire i suoi affettuosi buffetti.

Stupefatto, il Signore dell'Hyarrostar condusse l'erede da colui che un tempo era stato il suo scudiero, Manveru, perché gli insegnasse quanto era nelle sue conoscenze riguardo ai figli di Oromë. Eärél trascorse molte ore nei boschi e nelle praterie battute dal soffio di Manwë, mentre il suo maestro lo istruiva, meravigliandosi che un Númenóreano si mostrasse abile nell'apprendere esercizi che i Dunédain comprendevano a fatica, essendo per lo più i loro cuori rivolti al mare e non ai destrieri delle contrade settentrionali.

Da mane a sera, il figlio di Gilnar apprendeva i rudimenti dell'arte di cavalcare e Manveru, ancorché fosse anziano e la sua vista era venuta meno, nutriva nel suo cuore soddisfazione per quanto il suo allievo mostrava di imparare e non mancò di farlo notare al suo Signore. Non meno stupito di quanto non lo fosse l'anziano scudiero, Gilnar si mostrava compiaciuto, ché ben si avvedeva quanto abile fosse Eärél ed era orgoglioso di un simile erede.

Trascorsero gli anni ed il giovane principe dell'Hyarrostar prese a frequentare le lezioni dei precettori reali ad Armenelos, capitale di Númenor. L'animo del giovane principe era colmo di meraviglia: l'arte e la scienza dei Númenóreani erano allora all'apice delle loro vette e non esistevano palazzi sì imponenti come quelli che si ergevano lungo i viali della capitale di Andor. Eärél mostrava grande interesse per ogni forma vivente di Arda e studiava i tomi che gli eruditi del suo popolo avevano scritto centinaia di anni prima sulle bestie del cielo e della terra di Endor a loro note. Sovente, allorché i suoi compagni giacevano nei loro dorati giacigli, egli afferrava un antico lume e si recava nella biblioteca di Armenelos, ove i suoi occhi, intenti a decifrare le antiche scritture dei savi, non conoscevano riposo.

Dell'interesse del giovane Eärél per le creature di Yavanna si è detto, eppure esso era superato da quello verso le antiche tradizioni e storie del suo popolo. Il principe dell'Hyarrostar sfogliava avidamente tomi polverosi, di cui nessuno ricordava più l'esistenza, sfiorandone delicatamente la superficie. Eärél considerava tali cimeli simili a tesori e si rammaricava che le biblioteche reali conservassero pochi scritti sulle stirpi di uomini che abitavano le contrade della Terra di Mezzo; per tale ragione, dunque, crebbe nell'animo del Númenóreano l'amore per le vaste distese che si estendevano al di là del mare a oriente ed il suo animo fu preso dal desiderio di esplorarle.

I precettori reali, ai quali non era sfuggito la passione che il loro allievo dimostrava nello studio di tali discipline, pur nutrendo nel loro animo incredulità, non osavano mostrarla apertamente, per tema di incorrere nell'ira del sovrano o di uno dei suoi vassalli. La schiatta dell'Hyarrostar, infatti, era invisa ad Ar-Gimilzôr, perché lo contrastava apertamente; sovente, il silenzio era l'unica risposta che tali uomini fornivano ad Eärél. All'indifferenza fece presto seguito l'ostilità: gli altri allievi, rampolli delle stirpi del Forostar, dell'Orrostar e dell'Hyarnustar, presero a chiamarlo Erfëa, che nella lingua degli Eldar significa "spirito solitario", giacché egli aveva preso l'abitudine di trascorrere molto tempo lontano da loro, ignorando le crudeli risa che gli altri principi riversavano sul suo conto e poco o punto curandosi dell'odio che muoveva i loro animi ad agire in tale modo. I rampolli dei vassalli di Ar-Gimilzôr, infatti, temevano il figlio di Gilnar e ne invidiavano la saggezza e la lungimiranza che, in maniera precoce, si erano rivelate in lui.


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