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Più passavano i giorni e più Evelyne diventava strana agli occhi del marito. Quella mattina, Arthur si era stretto il nodo alla cravatta e, dopo una fugace ultima occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio, si era infilato la giacca ed era sceso di sotto.

Aveva controllato attentamente che non fosse rimasto nemmeno un filo di barba sul suo viso liscio e pulito, ma soprattutto si era assicurato che le occhiaie scure, che denotavano la sua stanchezza sia fisica che mentale, non si notassero. Non poteva apparire sciatto o stanco agli occhi dei pazienti, aveva l'obbligo di infondere fiducia.

Ogni mattina si svegliava prima dell'alba, non riuscendo più a prendere sonno. La stanchezza si faceva sentire la sera, e il suo viso e la sua pelle ne pagavano le conseguenze. A svegliarlo trovava sempre attacchi di panico e un battito cardiaco accelerato. Era salito su una giostra infinita dalla quale non riusciva più a scendere, era contrario all'assunzione di medicinali non prescritti, e allo stesso tempo era troppo orgoglioso per farsi aiutare da qualcuno.

Le strane routine dei coniugi non si incrociavano mai, ognuno viveva il suo dramma all'oscuro di quello dell'altro. Arthur, troppo stanco per le sue uniche cinque ore di sonno in cui dormiva come un ghiro, non poteva accorgersi dei risvegli notturni della moglie; mentre Evelyne, dopo le sue notti insonni, non si accorgeva dei risvegli anticipati del marito. La Gravida aveva creato una scaletta perfetta, era il burattinaio, e i coniugi Chevalier erano i suoi burattini.

Evelyne non perse occasione di far preoccupare suo marito nemmeno quella mattina. Quando Arthur scese trovò il salone sotto sopra, le ante del mobile che circondava il suo televisore al plasma erano tutte aperte, e stessa cosa valeva per i cassetti. Per terra la moglie aveva lasciato vecchia argenteria, giornali, album di foto e altre cianfrusaglie varie che non vedeva da quando avevano fatto il trasloco a Parigi.

«Che stai facendo?» chiese Arthur, vedendola indaffarata.

«Cerco una cosa, che vuoi?»

«Niente, volevo sapere se ti è passata. La cosa di stanotte, intendo.»

Evelyne aggrottò la fronte, non aveva la minima idea di cosa stesse parlando il marito. «Quale... cosa?»

La confusione della donna si riflesse sul viso del marito. «Non ti ricordi di questa notte?»

«Che dovrei ricordare? Dormivo.»

«Lascia stare.» Arthur preferì cambiare argomento, anche perché non aveva ancora capito per quale motivo il salone di casa sua era invaso da robaccia vecchia e inutilizzata a anni. «Piuttosto, che stai cercando?»

«Ricordi la mia macchina fotografica? La polaroid?»

«Sì, e allora?»

«Sai, per caso, dov'è finita?»

Lui annuì, come se fosse ovvio. «La scatola gialla, quella delle nostre nozze.» indicò con lo sguardo uno scatolone giallo in plastica, circondato da piatti d'argento e calici di cristallo che non avevano mai utilizzato nella nuova casa.

«È vero, l'ultima volta l'abbiamo utilizzata in viaggio di nozze.»

«Esatto.»

Arthur vide la moglie piombare sulla scatola come un falco su un piccolo serpente indifeso nella radura selvaggia. Evelyne tolse il coperchio, tirò fuori un album di foto risalente alla loro luna di miele, e un marsupio nero.

«Ora devo andare.» annunciò Arthur, avvicinandosi all'ingresso della casa. «Quando torno diamo un'occhiata a quelle foto, ti va?»

Dopo aver aperto la zip del marsupio e aver estratto la macchina fotografica che stava cercando, si interruppe per un momento, non era ancora sicura di volerla utilizzare per fare quello che aveva in mente.

«Evelyne.» la chiamò il marito, alzando il tono di voce. «Hai capito che ti ho detto?»

Lei si voltò di scatto verso di lui, infastidito dal suo comportamento. «Ho sentito, ho sentito. Va bene.» rispose acidamente.

Non riusciva a nasconderlo, la sua faccia era chiara. Quella mattina, Evelyne era riuscita a metterlo di cattivo umore, appariva più interessata a uno stupido oggetto che a condividere le foto della loro luna di miele insieme. Inoltre sua moglie non si era mai rivolta a lui con tanta arroganza. Arthur prese la giacca, e uscì di casa, per la prima volta senza salutare; ma Evelyne non si accorse di niente. Sentì la porta sbattere, ma tornò a fissare quella fotocamera come se niente fosse.

La strinse tra le mani, e si alzò in piedi, attraversando il salone tra i cumuli di cianfrusaglie sparse a terra. Si fermò a pochi passi dal dipinto della donna ottocentesca, puntandole contro l'obiettivo della fotocamera. Scattò la prima foto, il foglio fotosensibile uscì nel giro di pochi secondi. Evelyne la prese, la agitò nella sua mano e vide l'immagine fotografata comparire lentamente.

Lo sfondo era nitido, anche l'immagine della cornice lo era, ma la figura che raffigurava La Gravida era sfocata. Quella foto era perfetta, solo la donna disegnata nel dipinto era venuta sfocata, come se si fosse mossa nel momento in cui Evelyne aveva scattato.

Trovò tutto quello molto strano, ma allo stesso tempo poteva benissimo trattarsi di un caso. Decise di scattare un'altra foto. La macchina scattò di nuovo, e dopo qualche secondo uscì ancora una volta il foglio, che piano piano mostrò l'immagine impressa sulla carta.

Evelyne vide la stessa condizione di quella precedente, la foto era perfettamente nitida, uno scatto perfetto, a differenza della donna del dipinto, la sua immagine venne di nuovo sfocata.

Non capiva il motivo, persino la cornice del quadro veniva ritratta sul foglio fotosensibile perfetta nei minimi dettagli, mentre La Gravida no. La sua immagine era impercettibile, ma quella volta Evelyne vide meglio, e capì. Non era venuta mossa, era come se non fosse nella tela.

Un brivido le artigliò le spalle nel momento esatto in cui sentì suo figlio Robin piangere di sopra. La giovane madre si avvicinò al tavolo del salone per posare la polaroid e correre il prima possibile dal suo dolce pargolo, ma lui improvvisamente smise di piangere.

Era il primo bambino per lei, ma sapeva bene che quello non era un comportamento normale, non aveva mai sentito di un bambino che iniziava a piangere per poi smettere qualche secondo dopo, il tutto praticamente da solo.

Pensò ancora una volta di averlo immaginato, ma per scrupolo andò a controllare, portando la macchina fotografica con lei, senza neanche accorgersene.

Salì le scale velocemente, quel presentimento colmo d'angoscia era tornato a trovarla. Sentiva un macigno sul petto, e percepiva il tempo scorrere sulla sua pelle.

Arrivò alla stanza del bambino, trovando la porta chiusa. L'angoscia terminò quando aprì la porta. Non riusciva a spiegarsi chi l'avesse chiusa, pensò al marito, ma non ne era sicura. Non faceva altro che fantasticare su quello che avrebbe potuto trovare in quella stanza, rimase delusa: all'interno trovò solo la culla con suo figlio dentro di essa a sonnecchiare.

Si accorse di avere ancora la polaroid in mano, ed ebbe l'istinto di scattare una foto in direzione della culla. Scattò la prima foto, e uscì subito dopo il foglio fotosintetico, quella volta, però, uscì completamente bianco. Nessuna immagine, nessuna figura. Agitò la foto nella sua mano, ma ancora nulla, era come se la macchina fotografica non fosse riuscita a ritrarre nulla di fronte a sé.

Impugnò la fotocamera e fece un altro scatto alla culla del bambino, ottenendo lo stesso risultato: un foglio bianco. Iniziò a sentirsi osservata, era strano, ma percepiva qualcosa nella camera di Robin, quel presentimento stava prendendo forma di fronte ai suoi occhi.

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