Terre Libere

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Sobbalzai per l’ennesima volta sul retro del camion che ci stava trasportando per quelle terre ignote.

La strada che stavamo percorrendo non era altro che dei solchi lasciati dalle autovetture che avevano percorso in precedenza quelle lande desolate, quindi il terreno sconnesso pieno di sassi ed erbacce che avevano invaso il sentiero facevano sobbalzare in continuazione il camion.

Mi sporsi oltre il militare che ci accompagnava per scorgere, oltre il telo lasciato aperto e che doveva fungere da portellone, quel territorio incontaminato e brullo: un’immensa prateria verde, coperta da un fitto manto d’erba alta, un po' bruciata dal sole e che impediva di vedere le creature che si muovevano sul terreno.

Ero comunque certa che loro ci stessero tenendo d’occhio e seguendo, ben nascosti tra le fitte sterpaglie della brughiera.

Non che ci fosse nulla di strano, in fondo eravamo noi nel loro territorio, e se ci si voleva inoltrare in quelle terre bisognava conoscere bene i loro abitanti.

Lycans.

Una rezza affascinante e misteriosa, relativamente innocua per l’essere umano, se non venivano minacciati ovviamente, in caso contrario risultavano letali per la loro forza e stazza nettamente superiori. Ma come dicevano i militari che ci accompagnavano, neppure un lupo era immune ai proiettili, soprattutto se questi erano d’argento. Ovviamente speravo di non dovermi mai scontrare con nessun Lycans nei paraggi, al contrario, la mia era una missione di pace.

Facevo parte del dipartimento di Mediazione Culturale dell’università di Nice, ormai a un passo dalla laurea mi servivano i crediti di stage extra curriculare e decisi di prendere parte ad un progetto di studio e ricerca nelle Terre Libere assieme ad un’ONG di soccorso umanitario.

Perciò mi trovavo sul retro di quel camion assieme a tre militari, un dottorando in Scienze Politiche, due antropologi e una ricercatrice del dipartimento di Biologia mentre eravamo diretti al villaggio umano che ci avrebbe ospitato per i prossimi due mesi.

Ricordavo l’emozione e l’esaltazione che mi avevano percorso quando avevo accettato di prendere parte a quel progetto, finalmente avrei avuto la mia occasione per fare del bene, avrei potuto vedere una nuova fetta di mondo e conoscere da vicino l’affascinante cultura Lycans, tutto ciò per cui avevo studiato ed impiegato gli ultimi quattro anni della mia vita.

Poi ricordavo bene anche l’ansia crescente che mi aveva assalito man mano che la partenza s’avvicinava, si sentivano storie davvero spaventose arrivare da quelle terre lontane, di aggressioni e sparizioni.

E in fine ricordavo la nausea che mi aveva fatto rigettare quel poco che ero riuscita a mangiare nei cessi dell’aereoporto di Parigi, prima della partenza.

E in quel momento come stavo? Non lo sapevo neppure io. Avevo le mani sudate e lo stomaco chiuso, la mente vuota d’ogni pensiero, in completa balia degli eventi.

Fino a quel momento ero stata certa d’essere io stessa l’unica fautrice del mio destino, quanto mi sbagliavo.
Ma all’epoca ancora non lo sapevo.

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Posai la borsa sulla piccola branda che mi avrebbe fatto da letto nel prossimo periodo e mi stiracchiai. Il lungo viaggio in aereo e poi il camion che ci aveva portato fino al villaggio umano mi avevano distrutta.

– Non ci siamo neanche presentate. – esordì una voce femminile forte e sicura.

Mi voltai verso la mia compagna d’aloggio, la ricercatrice biologa. Era una donna sui 35 anni alta ed atletica, la pelle scurita dal sole e le mani rovinate facevano intuire che fosse pratica di quelle spedizioni; portava i capelli scuri stretti in una coda scompigliata più pratica che elegante, e degli occhiali tondi decisamente vecchio stile.
– Sono Evelyn, ma chiamami Eve se vuoi, è un piacere conoscerti. – mi presentai.

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