ni jū : 𝚙𝚊𝚛𝚊𝚍𝚒𝚜𝚎

224 22 9
                                    





L'arte in barattoli di Jimin era stata venduta per due spiccioli in cambio degli antipsicotici che doveva assumere ogni giorno. Avevano cambiato l'atto della scena e dalla follia erano passati alla normalità, alla vita perfetta che tutti pensavano di avere ma che Jimin non aveva mai voluto.

Aveva guardato la sua benamata arte sparire tra le fauci della vita, volatilizzarsi tra le vie comuni della città, tra i corridoi rumorosi della scuola, lì dove la gente sparlava. La vedeva riflettersi nello specchio e salutarlo da lontano mentre spariva tra le chiacchiere reali e dominate dal tedio della vita.

«Jimin-ah? Ci sei?» Hoseok lo guardò: era seduto al bancone dell'Hangwa a fissare il blocco da disegno bianco da almeno mezz'ora.

«Si... dicevi?»

«Vieni con noi a mangiare?» Hoseok indicò con la testa il gruppo di ragazzi all'ingresso del bar: Taehyung scosse animatamente la mano per salutarlo quando Jimin si voltò per osservarli.

Non ne hai voglia, dì di no.

«Uhm... certo», un sorriso mellifluo si dipinse sulle sue labbra.

Ed era stato divertente ascoltare le discussioni di Seokjin e Jungkook che dicevano cose senza senso, mentre Taehyung se lo tirava dietro e lo faceva ridere ma Jimin si sentiva lo spettatore di una vita perfetta che non era la sua.

I mesi erano una costante lotta contro le sue tele stracciate, quelle che spesso Jimin aveva distrutto mentre singhiozzava e si ripeteva che sarebbe stato benissimo con quel pennello affilato ficcato nella gola, perché Jimin si sentiva folle, si sentiva più folle di quando non prendeva gli antipsicotici. Si guardava allo specchio e vedeva un volto rabbuiato dalla vita, vedeva un viso scavato dalle occhiaie – perché la notte non dormiva, non lo faceva mai per più di un'ora.

Tornava da scuola con i passi stanchi e una smorfia sul volto, e quando si rifugiava in camera sua e si sedeva di fronte alla sua tela, le voci non gli sussurravano più che cosa fare, i lineamenti del volto di Yoongi erano incisi nella sua mente ma gli tagliavano il cuore. Provò a dipingerlo, ma ogni pennellata era una coltellata nel petto, era quella mano che era sparita che gli penetrava le ossa e gli strizzava le viscere. Jimin non le vedeva più le ombre, non le vedeva sanguinare copiose sulle sue tele e dirgli che cosa fare.

Sbuffò, il pennello gli scivolò dalle dita e gli occhi si posarono sulla confezione di antipsicotici: la pastiglia del giorno lo stava aspettando per risucchiargli i colori del mondo. Prese la confezione, uscì dalla stanza e attraversò a passo felpato il corridoio.

Le buttò nel gabinetto le pastiglie, le fece vorticare come era vorticato il suo stomaco da quando aveva iniziato a prenderle. Le lasciò andarsene insieme alla sua infelicità, insieme alla sua vita perfetta e mascherata da un sorriso mellifluo.

Jimin non le voleva le pastiglie, non voleva una vita normale, non voleva i suoi amici. Jimin rivoleva la sua follia. La rivoleva a rovinargli la vita e a fargliela sentire sua, perché si sentiva vivo con le sue ombre, quelle che s'ammazzavano, e preferiva piangere sotto le lenzuola piuttosto che sentire quel peso di vuoto premergli il petto. Voleva che il suo cuore ritornasse a battere, a fare male, a sentirsi scolpito da infiniti disegni dolorosi. Voleva sentirsi vivo con la sua follia, voleva essere pazzo, voleva che tutti quanti vedessero quanto fosse pazzo, che tutti vedessero la sua arte trucidata tra le pareti di una folle mente.

E i giorni passarono senza che neppure se ne rendesse conto.

Jimin sorrideva spensierato mentre le ombre sgattaiolavano fuori dai muri e danzavano, conciliandogli il sonno e rendendolo un folle.

Salutò di fretta suo padre, gli disse che aveva preso le pastiglie della sera e corse in camera, la sua tela era lì ad aspettarlo: era dipinta di scarlatto ed era di fianco ad un paio di occhi castani coperti da delle ciocche menta che lo guardavano.

Jimin sentì di nuovo le violente farfalle svolazzare con le ali affilate sulle pareti del suo stomaco. Quel viso serafico era di nuovo lì davanti ai suoi occhi, che gli mostrava l'arte pura e paradisiaca, quella che Jimin non riusciva più a buttare sulle sue tele.

«Quando sei tornato?» un sorriso gli dipinse le labbra.

«A tre minuti dopo il tramonto.»

🎉 Hai finito di leggere 𝟑 𝐌𝐈𝐍𝐔𝐓𝐈 𝐃𝐎𝐏𝐎 𝐈𝐋 𝐓𝐑𝐀𝐌𝐎𝐍𝐓𝐎 🎉
𝟑 𝐌𝐈𝐍𝐔𝐓𝐈 𝐃𝐎𝐏𝐎 𝐈𝐋 𝐓𝐑𝐀𝐌𝐎𝐍𝐓𝐎 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora