Capitolo 57

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Il Sole estivo, cocente al punto di poter grigliare a puntino un intero vassoio di bistecche, batteva ferocemente sullo sporco finestrino del treno fermo al binario accanto al mio mentre, con la musica nelle orecchie e le lacrime nel cuore, stringevo al petto l'unica cosa che mi restava di quell'amore troppo bello per essere eterno.
"È stato lui a regalartelo?" Domandó Marta guardando insistentemente l'anello che rigiravo tra le dita. Non era nulla di eccessivo o estremamente prezioso: era un semplice fedina in argento, una di quelle che le coppie si scambiano nell'unione in matrimonio. Ciò che la rendeva unica, oltre al fatto che fosse un suo regalo, era l'incisione che portava al suo interno: Sofia & Tancredi - per sempre.
Sorrisi rileggendo quelle poche e semplici lettere che delineavano perfettamente il mio grande sogno ormai andato totalmente in frantumi.
"Si." Le risposi, in tono triste, con un leggero filo di voce.
Ero grata ai miei amici per avermi capita e sostenuta nella mia improvvisa decisione. Certo, stavamo tutti male: Lele piangeva da ore nonostante le mie continue rassicurazioni sul fatto che avrei fatto di tutto pur di riuscire a riabbracciarlo presto, Gian e Diego tentavano, invano, di mostrarsi forti e comprensivi ma nei loro occhi leggevo la malinconia causata da una grande amica, nonchè coinquilina anche se solo per un breve periodo di tempo, che se ne stava andando, forse per sempre. Notai enorme tristezza anche negli sguardi di Marta, Elisa e Cecilia, nonostante la nostra coniscenza si fosse sviluppata da davvero poco tempo.
Tancredi non era lì, ovviamente. Avevo messo a tacere ogni suo tentativo di darmi spiegazioni, declinato ogni preghiera di restare e rifiutato ogni tipo di scusa. In fondo, cos'avrebbe potuto spiegarmi? Non vi era una giustificazione nemmeno lontanamente plausibile per fiondarsi sulle labbra di un'altra e chiamarmi con il suo nome poco dopo, tentando di placare le mie urla isteriche più che consone. Ero stata io a supplicare i miei amici di impedire a Tancredi di raggiungere la stazione: non volevo vederlo, non in quel momento, non dopo ciò che aveva fatto. Avevo bisogno di staccare la spina da quel tremendo senso di peso interiore che mi stava lentamente logorando l'anima e, anche se contrariati, i ragazzi cercarono di capirmi, dandomi il beneficio di seguire la strada che pensassi sarebbe stata migliore per me.
Una pioggia di lacrime amare colpì ferocemente il viso di ognuno di noi quando, in lontananza, il fastidioso e stidulo fischio della locomotiva ci avvisó dell'imminente arrivo del mezzo che mi avrebbe condotta troppo lontano dalle persone che, fino ad allora, erano riuscite a farmi star bene.

"Verremo a Roma. Presto. È una promessa." Sussurró Lele singiozzando sul mio collo mentre mi stringeva in un abbraccio in cui avrei voluto sparire. Annuii, incapace di parlare, incapace di reagire.
Salutai Gian e Diego con un altro abbraccio e un leggero bacio sulla guancia, una guancia su cui potei sentire l'umidità di una lacrima colma di malinconia.
In ultimo, ma non meno importanti, fu il turno delle ragazze: Marta, Elisa e Cecilia mi promisero che sarebbero venute a Roma, insieme ai ragazzi, per riabbracciarmi il prima possibile. Dicevano che i miei abbracci avevano qualcosa di diverso, che non erano mai semplici abbracci, ma parlavano di sincerità. Dicevano che io, nonostante mi conoscessero così poco, sapevo trasmettere loro un senso di tranquillità e benessere tale da condurle persino a fidarsi di me ad occhi chiusi.

Asciugai la pelle del mio viso, ormai raggrinzita dall'incessante pianto di arrivederci, prima di rivolgere ai miei amici un sorriso forzato e voltarmi verso il treno che attendeva, impaziente, il mio ingresso. Chiusi gli occhi prima di prendere un profondo respiro e lanciare un'ultima occhiata alla stazione di Milano: pensai a quanto fossero dolorosi gli addii, a quanto coraggio ci voleva per lasciar andare persone che non avresti mai voluto tagliare fuori dalla tua vita, non in quel momento, non in quel modo. Ma in fondo, dentro di me, conservavo la consapevolezza che non sarebbe mai stato, tra noi, un vero addio, solo un arrivederci.
Nella mia mente prese a delinearsi l'immagine di Tancredi, il Tancredi che conoscevo bene, quello che non avrebbe mai fatto una cosa così ripugnante, o almeno non a me. Quello che non mi avrebbe fai ferita al punto di spingermi a lasciare non solo lui ma anche la città, i miei amici, le persone che più mi avevano fatta ridere anche nei momenti in cui avrei solamente voluto piangere, urlare, scappare e svanire nel nulla, come il fumo buttato fuori dalle labbra socchiuse dopo un tiro di sigaretta.
È davvero questa la cosa giusta da fare?, pensai non appena il treno si mosse lentamente, iniziando la sua corsa sui binari verso quella che sarebbe presto tornata la mia casa.
Chiusi gli occhi nel tentativo di mettere fine a un pianto che non aveva alcuna intenzione di cessare mentre le cuffiette nelle mie orecchie risuonavano Intesa mentale di Petrux:

"Quand'è passato tutto questo tempo?
Sembrava ieri quando c'eri tu
e il tuo profumo dava senso al vento
ma ormai non lo ricordo quasi più.
Se non lo faccio dopo me ne pento
pensarlo mi tirava sempre su
neanche stavolta sono stato attento
un'altra delusione nel menù[...]".

Fu così che riuscii ad addormentarmi, pur di mettere a tacere i demoni scatenati nel mio cuore che non facevano altro che infliggermi sempre più dolore, riportandomi incessantemente alla mente l'inizio della nostra fine. Certo, aveva bevuto qualche bicchiere di troppo, non era in sè; sragionava, era tutto meno che lucido, ma non per questo doveva sentirsi in diritto di tradirmi, non per questo l'avrei perdonato, di nuovo.
Ricordo perfettamente le sue mani: si muovevano lentamente sulla schiena di quella ragazza dal viso così familiare. La baciava come faceva con me, con la passione che, a detta sua, solo io sapevo fargli provare. Le portó una ciocca di capelli dietro l'orecchio mentre lei, totalmente persa in lui, gli cingeva i fianchi come a impedirgli di allontanarsi.
Mentre i miei occhi si riempirono di lacrime, la vista si fece appannata, il cuore prese a battere all'impazzata e il meraviglioso mondo che avevamo costruto insieme mi crolló improvvisamente addosso, soffocando ogni mio respiro ormai esile.
Anche la musica, troppo alta, parve scomparire in un battito di ciglia, come fossi spofondata in un oblio insonorizzato tra le fiamme di un sogno d'amore e le ceneri dell'amore stesso.
Ricordo che urlai, urlai tanto, urlai forte, nonostante la mia voce appariva roca e strozzata dai singhiozzi.
Poi ricordo il suo sguardo, due occhi che sapevo bene non sarei mai riuscita a dimenticare, neppure volendo. Li sgranó, quasi come fosse sorpreso di vedermi lì mentre era stato proprio lui a portarmici. Saettó, preso dal panico o forse da un lampo di lucidità, lo sguardo tra me e la ragazza prima di alzare le mani e tenderle nella mia direzione.
"Posso spiegare, Giul...Sofia!" Si affrettó a dire con voce impastata.
Sorrisi amaramente mentre dai miei occhi erano ben visibili solo un grande disprezzo e una profonda delusione.
Giulia, così mi chiamó. Con il suo nome, come se quella di troppo, in quel momento, fossi io. Come se tutti i momenti trascorsi insieme non avessere mai avuto valore per lui. Come se volesse solamente confermare il pensiero scuro che portavo dentro dall'inizio di tutto, dall'inizio di noi: non ero abbastanza per lui, e in quel momeno ne ebbi la conferma. Non gliene feci mai una colpa, forse semplicemente non eravamo fatti per stare insieme, forse il vero grande amore doveva ancora arrivare per entrambi, forse avevamo sbagliato tutto. Forse eravamo noi troppo sbagliati per poter costruire un futuro, insieme.

TI GUARDO FISSO E TREMO - Tancredi GalliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora