ep.19.5 EternLab

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Illustrazione: Ray

Testo: Marco Morselli e Ivan Nannini

Non ricordo il giorno esatto ma eravamo in piena estate, la più calda del secolo, dicevano. Ma lo dicevano ormai ogni anno. Fuori l'aria bruciava come se volesse esaurire l'ultima molecola di ossigeno rimasta. Mi svegliai in un groviglio di lenzuola umide, l'impronta del mio profilo sul cuscino bianco ingiallito. Avevo passato quella lunga nottata ad agitarmi tra una corsa al bagno e l'altra. Quando ero piccolo i nonni me lo dicevano sempre di non bere troppo prima di andare a dormire, che poi la notte... Ma per quanto la mia dieta iposodica ormai non mi permettesse il minimo sgarro, avevo sempre sete, una sete che mi consumava la gola fino a seccarne le pareti. Non c'era rimedio se non ingurgitare grosse quantità di acqua. Da quanta ne bevevo mi si era allargato lo stomaco, ed avevo sempre fame. Ma quell'estate sembrava volersi abbattere come una falce su tutto l'emisfero nord e portare via con sé tutti quelli ci abitavano, spazzati via in cenere. L'aria condizionata pompava con tutta la poca forza che le era rimasta. Era un apparecchio vecchio. La tenevo al massimo, e ne ricevevo, al massimo, deboli sbuffi di aria fresca. Mi accontentavo. Era l'ultimo ricordo dei miei genitori. "Mettiamo l'aria condizionata, ogni estate è sempre la stessa storia, e sarà sempre peggio con gli anni a venire!" Provavo tenerezza a sentire quegli sbuffi. Il rombo della motocondensante accesa alla massima potenza, incassata in una piccola soffitta, lo potevo ascoltare in tutta la casa. Ma era piacevole, mi rilassava, con il suo rumore bianco mi isolava dal resto del mondo e mi conciliava il sonno. Da quel sonno, però, mi svegliavo spesso. L'arsura mi seccava la lingua e mi spezzava i sogni in più parti. Capitava che una volta riaddormentato riprendessi il sogno di prima. Più spesso ne iniziavo di nuovi, brevissimi che finivano tutti nello stesso modo: fuoco, fiamme, calore. E sete.

Vivevo da qualche anno nella casa che era stata dei miei nonni e poi, per breve tempo, dei miei genitori. Un appartamento troppo grande per me solo, ma era difficile immaginarmi qui con qualcun altro. Ogni stanza ricordava qualcosa. Ero geloso. Cimeli ovunque, qualcosa dei miei genitori, il più dei miei nonni e bisnonni. Una stanza aveva preso col tempo l'aspetto di un piccolo mercato delle pulci. Vecchie foto, medaglie di guerre lontane, lettere, corredi scampati alle tarme per miracolo. Tanta polvere che spesso per pigrizia ignoravo. Poi però lo spirito di mia nonna si impossessava di me e allora mi ritrovavo con uno spolverino in mano a fendere colpi in mezzo a tutta quella roba. Non facevo altro che spostare la polvere da una parte all'altra della stanza. Da un ricordo all'altro. Avevo provato anche con uno spray liquido ma il risultato fu di inzaccherare tutta quella massa di cianfrusaglie. Delle volte avevo avuto la tentazione di buttare tutto, e rifare quella stanza daccapo. L'unica finestra che dava su una buia corte interna chiusa da un lucernario rendeva l'ambiente più tetro del normale. Il pavimento di cotto sbiadito in più punti e vecchio di secoli e sul soffitto un affresco pullulante di draghi e chimere, che io da piccolo scambiavo per diavoli. "E' un tipico affresco di fine Ottocento toscano" ci ricordava sempre l'architetto Bonini, amico dei nonni, presenza fissa degli interminabili pomeriggi che sapevano di pensione. A me che fosse di fine Ottocento o toscano importava ben poco. Avevo una paura fottuta di quella stanza. Sapevo anche che ci era morta una persona, la governante dei miei bisnonni. Cinquant'anni di onorato servizio e poi un brutto male che non aveva cura, spirò dopo pochi mesi su un vecchio letto di ferro battuto, con il materasso alto e un cuscino che sembrava di paglia, e che era ancora lì quando ero piccolo, foderato da lenzuola marroni e avvolto con un ruvido copriletto grigio topo. Quel letto se ne andò con la dipartita del nonno, quando nonna Renata decise di trasformare quella stanza in un grande guardaroba dove conservò tutti i completi del suo compagno di vita, perché, diceva sempre, "non si sa mai". Non ho mai capito se quel "non si sa mai" significasse che sarebbero potuti servire a me, il suo ometto, oppure se il nonno sarebbe tornato a riprenderseli. Io da quella stanza restai alla larga anche dopo, per un bel po'.

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