ep.13 Via da questo posto

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Illustrazione: Elena Liverani

Testo: Tommaso Aramaico

Personaggio: Nina

Camminare su questa via a testa bassa e con la schiena schiacciata contro le mura dei palazzi non fa di me una pazza. Tenere ben stretta la vestaglia sul pigiama a scacchi e muovermi veloce nei miei scarponi da trekking, non fa di me una che ha totalmente perso la testa. Sono lucida e allucinata al tempo stesso. Le due cose possono stare insieme, lo so per esperienza. Riconosco tutti i volti, le vetrine, i civici di questo sputo di paese. Quando prendo le mie gocce, e, sia chiaro, dovrei prenderle ogni giorno, allora sì che sono una donna serena, la Nina che tutti conoscono. Non lo sono oggi, però, non da qualche giorno, a dirla tutta. Ho il fiatone, qui, adesso, ferma davanti alla macelleria, con gli occhi fissi su tutta questa carne che a malapena riesco a guardare da che è iniziata questa storia della pioggia di rane. Vivevo ancora a Seattle quando una di quelle maledette bestiacce si è schiantata proprio davanti a me, aprendosi e mostrandomi la carne viva e pulsante. Morta era, eppure tutta nervi tesi e zampe tremanti, ancora avvinta all'angoscia della caduta e dell'imminente impatto. Non so se possa provare angoscia una rana che cade dal cielo. Possibile che non muoia già nel bel mezzo della caduta, prima dello schianto? Non lo so, però so bene quello che è accaduto a me. Il latte, il pane imburrato, avevo cacciato fuori tutto, direttamente per strada. Tutto avevo vomitato, ma non quell'impressione che, invece, si era impressa nella mia mente. Da lì non sono più riuscita a tirarla fuori. Solo le medicine la offuscano, quella scena che, però, è sempre lì. Posso vederla in filigrana, mentre si muove fra i miei pensieri, agitandoli. Jeff era con me, quella mattina. Soffiava nel suo strumento e senza accorgersi che io già allora non ero più la stessa, rideva e indicava i miei sandali lordi di brandelli di carne. Da allora sono iniziati gli incubi. Sognavo di vomitare rane o di averne il ventre pregno. Mi svegliavo urlando. Non eravamo ancora qui, allora.

Sono due giorni che non ci rivolgiamo la parola, io e Jeff. Cosa è successo? Batto le palpebre, persa in un tic da bambola difettosa. Fisso la vetrina lucida della macelleria, cercando di ricordare qualcosa. Nel pensiero lo vedo allontanarsi dandomi le spalle, con quello stupido sassofono che gli dondola al collo. Il suo enorme ciuccio d'ottone. Ricordo che aveva tentato di tenermi buona con i suoi baby e listen to me e tutte quelle stronzate che mi sto sorbendo da troppo tempo. Qui però finisce tutto, c'è un vuoto, un buio in cui proprio non riesco a distinguere nulla. Gli ho sventolato in faccia l'estratto conto con i bonifici dei miei genitori? No, non l'ho fatto. L'ho solo pensato. Sono anni che sogno questa scena. O forse gli ho urlato contro di smetterla una volta e per tutte con quel giocattolo e che se fosse dovuto diventare qualcuno, allora lo sarebbe già diventato e che no, probabilmente non aveva quel talento che credeva di avere e in cui io, da anni, fingo di credere. Gli ho detto che dovrebbe pensare veramente a trovarsi un lavoro e che nostro figlio non ha bisogno di uno che lo sveglia suonando il sassofono, ma di un padre vero, con le palle? Gli ho chiesto di scegliere? Sono diventata così pazza da dare voce a quanto ho a lungo sognato nelle mie notti insonni, nascosta sotto le coperte mentre le rane picchiavano violente contro la facciata piena di crepe della nostra casa? No, non l'ho fatto. Non è lui il problema, non più, sono io il problema.

Sono stufa di questa vetrina che affaccia su polli decapitati e arcobaleni di salsicce. Riprendo a muovermi e, con lo stomaco che è tutto un crampo, ripenso a come era diventato ampio il mio mondo, mentre ormai, da troppo tempo, si è inesorabilmente rimpicciolito, ridotto a questo posto indegno persino di un vero nome. Perché siamo finiti qui? Quando lo abbiamo deciso? Da quando siamo finiti qui io non ho più nulla da ricordare, perché il nulla non può essere pensato, ricordato o raccontato. Me ne stavo stesa sul letto, al principio, bevevo, quello sì, e mi imbottivo di sogni incoffessabili e poi, d'un tratto, mi sono ritrovata con le nausee e il ventre che si dilatava, coltivando il terrore di mettere al mondo rane. Vedere Nicolino, dopo il parto, non mi ha resa felice, mi ha liberata da un incubo. Jeff ha suonato fino a farsi esplodere i polmoni quando gli ho detto che aspettavo un bambino. Ha abbracciato il suo sassofono, non me; e posato le sue labbra sul suo strumento, non sulla mia bocca. Ha riso e applaudito al suo spettacolino, ma da quel pomeriggio io non ero più una donna, per lui, e lui, per me, non era più un uomo. Perché?

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