3. Lo chef è in pericolo

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Vedo la nube bianca innalzarsi e spalanco gli occhi. Mi viene la pelle d'oca.

«Che cosa facciamo?» chiedo quasi urlando.

E la cosa che più mi spaventa è che Dominic non riesce ad aprire la porta della lavanderia. È bloccata, ha detto.

«Non possiamo uscire da qui» conclude lui.

Lo guardo allibita. L'allarme non ha smesso di suonare, mi sta perforando i timpani. «Da dove diamine usciamo, allora? Quella sembra una nube tossica!» Fortunatamente ho seguito il corso sulla sicurezza quando mi sono trasferita nella centrale e l'ho riconosciuta subito. Mi sto pentendo di averlo giudicato noioso e di essermi appisolata durante l'ultima lezione. «Rischiamo di morire!»

«C'è una porta secondaria oltre le asciugatrici.» Indica con un braccio un punto più lontano da noi. Proprio la zona rossa. Qualche addetto alla sicurezza avrà avvertito l'allarme, ma sarebbe molto pericoloso attendere che i soccorsi vengano a salvarci senza provare a scappare.

Dominic si toglie la giacca da cuoco che indossa, sotto ha una canottiera bianca. Mi fa cenno di avvicinarmi a lui, che si è portato alla bocca un lembo della giacca bianca. Forse ho capito le sue intenzioni. 

«Dobbiamo correre più veloce che possiamo verso l'uscita! Utilizzeremo questa per coprirci il naso e la bocca, non dovremmo assolutamente respirare l'aria.»

Io mi metto al suo fianco e afferro di scatto un pezzo della sua giacca, coprendomi le vie respiratorie. Dominic mi stringe un braccio portandomi più vicina. Poi, con voce soffocata, esclama: «andiamo!»

La nube si sta espandendo sempre di più. Io e Dominic avanziamo come dei maratoneti verso l'uscita secondaria che si trova a qualche metro di distanza dalle lavatrici, cercando di non inalare l'ossigeno inquinato. Arriviamo di fronte alla porta in meno di un minuto, io ho il fiato corto. Piego la maniglia per spalancarla e non si apre. Ci riprovo con tutta la mia forza, anche Dominic fa un tentativo, ma nulla. Questa storia non mi piace per niente.

«Porca miseria, ma che cazzo sta succedendo?» dice lui arrabbiato, sempre tenendo la giacca premuta sul naso e la bocca.

Sono incredula e terrorizzata. La testa mi vortica. No, non devo perdere la lucidità. Che cosa farebbe mia zia in una situazione del genere? «Dobbiamo sfondare la porta. E' un vecchio modello, forse possiamo riuscirci.»

Dominic prende come buona la mia idea. Si prepara a prendere la rincorsa e io lo seguo. Al suo tre, ci scaraventiamo entrambi verso la porta. Sono già consapevole che tale espediente farà malissimo e che magari non funzionerà nemmeno, ma voglio uscire viva da questo posto.

Qualcuno, però, la sta aprendo dalla parte opposta: sono arrivati i soccorsi. La porta ci arriva addosso, nonostante il dolore cerchiamo di non lasciarci sfuggire la giacca che ci sta aiutando a non intossicarci. La squadra di soccorso, cinque uomini provvisti di una tuta anticontaminazione, afferra le nostre braccia e ci trascina fuori da questo incubo.

E così, dopo una ventina di minuti, mi trovo in infermeria insieme a Dominic. Ho una spalla mezza slogata e il viso pallido per lo sgomento che ho provato. I miei capelli mossi, inoltre, profumano di una fragranza che somiglia molto allo schifo. 

Lui è nelle mie stesse condizioni, ha soltanto un graffio in più sulla fronte a causa dell'urto contro i soccorsi. Siamo seduti entrambi sopra due lettini, uno accanto all'altro. 

Non ci siamo rivolti neanche una parola da quando alcuni infermieri hanno terminato di visitarci per verificare la presenza di eventuali lesioni. C'è un silenzio tombale.

«La mia lavatrice avrà finito da un bel pezzo» mormoro. Tento di sdrammatizzare, è calato un mortorio.

«Abbiamo scampato un viaggio di sola andata per l'altro mondo e tu stai pensando al fatto che il lavaggio sarà terminato?»

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