Capitolo XIX

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Heath era tornato al palazzo dei Devenport da solo. Non aveva neanche cercato di convincere Joyce a seguirlo, perché meglio di chiunque altro sapeva cosa voleva dire voler restare da soli.

Solo che quando le ore passarono, e iniziò a piovere, Heath non poté non preoccuparsi e chiedersi dove fosse finita la sua infermiera.

Restò per una mezz'ora buona davanti alla finestra che dava sull'atrio del palazzo, perché da lì sarebbe riuscito a vederla mentre rientrava, ma di lei neanche l'ombra. 

E più il tempo scorreva, più si agitava, al punto di diventare impaziente e ancora più insopportabile del solito.

«Dove si è cacciata quella ragazza? Si sta facendo buio e piove a dirotto... non lo sa che è da stupidi andarsene in giro con queste condizioni?».

I servitori restavano in silenzio, ad ascoltarlo mentre blaterava e trascinava la sedia a rotelle avanti e indietro di fronte alla finestra. Forse non sapevano cosa dire, o probabilmente avevano solo paura di una sua possibile reazione brusca se avessero tentato di calmarlo. 

«Ora basta, preparate la carrozza», disse ad un certo punto, già pronto ad uscire dalla stanza e dirigersi fuori. Fu a quel punto che uno dei giovani servitori provarono a farlo ragione.

«Signore, sta diluviando e non credo che nelle vostre condizioni...», ma non riuscì neanche a finire di formulare la frase, lo sguardo inceneritore di Heath lo convinse a tacere per sempre.

«Fate preparare la carrozza, ho detto», e qualche minuto prima era tutto pronto per la sua partenza. Lui aveva indossato il suo soprabito più pesante e nessuno si era più permesso di fare qualche obbiezione. 

Così aveva girato la città in lungo e in largo, in cerca di Joyce, ripercorrendo con la carrozza le strade e i luoghi che avevano visitato qualche ore prima, quasi certo che l'avrebbe trovata lì.

Eppure di lei neanche una traccia. E più posti visitavano, facendo buchi nell'acqua, più il buio s'intensificava e più la loro ricerca sembrava inutile e stupida. 

Stava quasi per rinunciare, affranto e molto preoccupato, ma anche abbastanza furioso con quella ragazza testarda, quando gli venne in mente che c'era un posto che non avevano ancora visitato.

«Portatemi al monastero», gridò al cocchiere, che non se lo fece ripetere due volte e non insistette per tornare a casa. Ormai tutta la servitù di Byron sapeva quanto potesse essere deciso e determinato Heath. 

Tirò un sospiro di sollievo quando vide una figura, in piedi davanti al monastero che aveva visitato qualche giorno prima. Il luogo dove Joyce era cresciuta, maturata e diventata la donna che vedeva in quel momento, sotto la pioggia, dall'aria così fragile e disperata. 

Per qualche istante si rivide in quell'immagine e per quanto loro due avesse avuto vite diverse, sembrava che il dolore fosse una costante per entrambi. 

L'istinto di andare subito da lei prese il sopravvento per qualche istante. Poi però si chiese se fosse davvero la persona più adatta.

Lui era più distrutto e a pezzi di lei, e cosa avrebbe potuto dire o fare per rassicurarla?

Non avrebbe mai trovato le parole giuste, ed era convinto che avrebbe sicuramente rovinato tutto.

Eppure non poteva lasciarla lì da sola, con quel diluvio, a disperarsi per il suo passato.

Così si fece aiutare dal cocchiere per scendere dalla carrozza e, con un misero ombrello a proteggerlo dalla tempesta che imperversava sulla città, si avvicinò a lei.

Joyce guardava la facciata principale del monastero, come se ci vedesse qualcosa che gli occhi di Heath era completamente invisibile.

Si chiede cosa stava pensando in quel momento, e si ritrovò a desiderare di conoscere tutti i suoi pensieri.

The sad gentlemanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora