Capitolo Quindicesimo.

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[Amy]

Il caos che la gente produceva nel locale era pressoché eccessivo, se sommato alla musica sparata a tutto volume del gruppo che si stava esibendo in quel momento.
Noi saremmo stati i prossimi e, con tutta onestà, con noi quel posto sarebbe crollato. Noi chi? Noi, i "Krueger".
Sei mesi presi avevo lasciato Los Angeles per seguire Vince nel suo progetto lasciandomi coinvolgere nella sua band. Facevano Punk, e ciò era esattamente quello che cercavo e di cui avevo bisogno. Mi ero trasferita con lui e la band a Seattle e avevo lasciato i Guns N Roses. Ricordo il giorno della mia partenza come uno dei più brutti di sempre.

Io e Vince, dopo la serata in cui andai a letto con Slash, ci incontrammo nuovamente al Rainbow, per caso. Avevo appena discusso con Michael, ancora, e avevo bisogno di bere. Così, da sola, ero arrivata a piedi fino a quel locale e dopo che ero seduta già da diversi minuti ad un tavolo accompagnata dal mio Whiskey, lo vidi raggiungermi.
Parlammo tanto, raccondandoci qualsiasi cosa. In quel momento, non mi importava molto di chi avevo di fronte e di quanto poco ci conoscessimo.
Gli raccontai che vita avevo condotto a Lafayette, del mio periodo con i Ramones, arrivando a quando mi avevano mollata nella città Losangelina e mi ero integrata nei Guns.
Vince ne rimase stupito, confessandomi poi che conosceva Duff. Avevano suonato l'uno contro l'altro a qualche Jam in uno dei vari locali, quasi tre anni prima. Ammise che quel ragazzo aveva davvero della stoffa e che perdere con lui lo reputava quasi un onore, nonostante gli pesasse comunque non riuscire mai a soffiargli la vittoria.
Infine, tralasciando il discorso Michael che vide essere abbastanza spunoso per me, mi accennò la proposta di unirmi alla sua band. Inoltre, il fatto stesso che Duff mi avesse dato qualche lezione di basso, lo reputava una garanzia a proposito della mia bravura.
Non mi rimase che accettare, se pur con le lacrime agli occhi.
Aveva subito messo in chiaro che ci sarebbe stata la necessità di trasferirsi e ciò mi avrebbe portata a perdere quella piccola famiglia nella quale mi sentivo a casa.
Non potevo andare avanti in quel modo: Michael stava male, cercava rifugio nelle varie ragazze che non ci pensava due volte a portarsi a casa per la notte; beveva tanto da spaventarmi, e si faceva troppo spesso... Non ci voleva un genio a capire che quel comportamento era una conseguenza di vedermi distante da lui, in rapporti sempre migliori con Saul o con Jeff.
E poi soffrivo anche io, sia a causa della nostra lontananza sia, soprattutto, nel vederlo in quello stato.
E poi, avevo bisogno di tornare a far musica.
La serata con Vince si concluse con l'appuntamento per il giorno seguente: ci saremmo visti davanti a quello stesso locale per le nove circa e saremmo partiti alla volta di Seattle.
Tornai a casa che era ormai notte fonda, circa le due e mezza.
All'appartamento regnava stranamente il silenzio. Bussai alla porta di Saul e, non sentendo risposta, entrai. La stanza era vuota. Non me ne preoccupai e aprii l'armadio, estraendone il mio grosso borsone e cacciandovi dentro tutti i miei indumenti. Nella tasca laterale misi i miei risparmi.
In una grande scatola riuscii a farci stare entrambi gli amplificatori, e poi richiusi melle rispettive custodie sia la chitarra acustica -una Fender nera e lucida- e il basso -anch'esso Fender, modello Jazz, e nero, identico al Suo-.
Man mano che sistemavo la mia roba sentii un familiare dolore farsi largo nel petto, le mie mani tremavano, la testa scoppiava e il respiro mi mancava. Stava sopraggiungendo un attacco di panico. Cercai di uscire dalla stanza per andare in cucina a prendere dell'acqua o, meglio, dell'alcool, ma a metà del corridoio caddi in ginocchio, priva di forze. Fissai lo sguardo sul pavimento di fronte a me cercando di regolarizzare il respiro, ma i tentativi furono inutili.
Quella notte, a casa, sembrava non esserci nessuno e la cosa mi spaventò ulteriormente. Finché non sentii la pelle del divano scricchiolare. Annebbiata com'ero dall'alcool non mi ero accorta della presenza di qualcuno in soggiorno e tanto meno riconobbi chi era che si stava avvicinando a me con passo mediamente svelto e incerto.
Vidi quella sagoma inginocchiarsi di fronte a me, e ripetere il mio nome per un paio di volte. La voce era familiare ma non capivo da chi provenisse. «Amy, sono Jeff... Concentrati su di me, respira. Uno, due, tre... Con calma.» spostai lo sguardo dal pavimento incrociando in suo. Ci guardammo negli occhi per un paio di minuti, giusto il tempo che mi infondesse la calma necessaria per farmi stare meglio. Avevo anche perso il controllo delle mie lacrime che, in quel momento, scorrevano copiose sulle mie gote.
Si appoggiò con le spalle al muro trascinandomi con sé e facendomi accoccolare contro il suo petto. Poggiai il volto nell'incavo del suo collo, lasciandomi trasportare dall'odore di sigaretta di cui erano impregnati i suoi capelli corvini. «Piccolina, mi dici cos'è successo?» il suo tono un poco strascicato, ma abbastanza tranquillo. Avevano tutti e cinque quel dannato vizio di chiamarmi con quel nomignolo: "Piccola" o "Piccolina". «Devo andarmene Jeff. Ho appena finito di fare la borsa. Domani parto.» dissi tutto in un fiato. Lo avvertii irrigidirsi per poi stringermi un poco di più a sé.
«Deduco di essere il primo a saperlo.» «L'ho deciso questa sera. Ho incontrato Vince al Rainbow. Eravamo entrambi da soli e abbiamo fatto due chiacchiere.» lo vidi riflettere. «Vince... Conosce Mckagan, vero?» «Esatto. Ha una band, fanno Punk... È la mia occasione.» «E noi?» lo guardai notando il dispiacere sul suo volto e il suo tono mogio. «Dovremo stare distanti per un po'.» sospirò rattristato nell'apprendere le mie parole. «Mi dispiace... Sei l'unica, tolto forse William, ad avermi accettato e compreso completamente qui dentro. Mi mancherai, Amy.» gli cinsi il collo con le braccia e lo strinsi forte a me. «Mi mancherai tanto anche tu.» le sue mani scesero sulla mia schiena, accarezzandola.
«Con Michael come farai?» «È anche per lui che me ne vado. Non sta bene avendomi sempre sotto gli occhi. E io non sto bene a vedere come si sta distruggendo a causa mia.» «È anche un po' la notorietà che lo sta trascinando. Avere tutto facile, a portata di mano, lo sta facendo vacillare un po'.» «Jeff, non trovare scuse per farmi stare meglio: è colpa mia, lo so.» «Be', ma come credi che starà quando te ne sarai andata?» «Non avermi in casa, vicina, magari lo aiuterà a ricominciare.» «"Magari", ma se così non fosse?» delle nuove lacrime sfuggirono al mio controllo. «Non mi merita, Jeff. Non sono la ragazza giusta per lui. Mi vedi? Che aiuto potrei dargli? E poi sono terrorizzata dai sentimenti, da ciò che potremmo creare, dal futuro che ci attenderebbe. Io non sono pronta a questo. Non adesso.» mi baciò teneramente la fronte. «Lo capisco, davvero. Spero che possiate stare meglio entrambi.»
«Fammi una promessa -annuì-: prenditi cura di te e degli altri. Lo so che non è una responsabilità da poco, ma avete fra le mani quella che si rivelerà l'occasione della vostra vita, ne sono certa. Avete talento, dei pezzi pazzeschi, una buona amicizia a legarvi... Non buttate via tutto, qualsiasi cosa accada.» «Faremo il possibile, Amy, ci proveremo. Grazie per tutta questa fiducia.» mi sorrise.
Il mio rapporto con Jeffrey era sempre stato molto particolare, sin dai primi giorni. Si era rivelato un buon amico, addirittura molto dolce, almeno con me. «A che ora te ne andrai?» «Ci vediamo con Vince davanti al Rainbow per le nove, domattina.» «Ce la fai a portare via tutta quella roba? Insomma, il borsone, gli ampli, gli strumenti...» «Mi arrangerò, non preoccuparti.» stemmo abbracciati su quel pavimento ancora una decina di minuti prima di salutarci e darci la buonanotte.
Dormii solamente un paio d'ore.
Alle sette ero già in piedi, seduta davanti ad un foglio bianco ed una penna in mano. Era da codardi, ma avrei lasciato ai Ragazzi qualcosa di scritto per salutarli.
Vi impiegai un'ora buona.
Infine mi feci coraggio, presi tutta la mia roba e, assicurandomi che la via fosse libera, uscii dalla stanza, lasciando la busta sul tavolo della cucina.
Con il nodo alla gola sempre più grande, lasciai quell'appartamento che ne aveva viste tante, davvero tante. Fra quelle mura c'erano racchiusi i ricordi di alcuni dei mesi migliori che avrei mai potuto vivere. Noi sei a far baldoria, a coltivare noi stessi, i nostri sogni; noi sei a contatto con gli aspetti più scuri del nostro tipo di vita; noi sei a volerci bene; io e Michael ad inseguire l'uno le attenzioni dell'altro, i baci rubati, gli abbracci sinceri, le nottate condivise e passate a parlare nel grande letto in camera sua. Non mi sarei dimenticata nulla di quei ragazzi, non avrei potuto, mai.
Mi chiusi la porta alle spalle, e mi avviai in strada, percorrendola lentamente, cercando di ristabilizzare il respiro e di frenare le lacrime che scorrevano imperterrite.
Dopo un bel po' giunsi al luogo d'incontro. Vince scese dall'auto, mi aiutò a caricare la mia roba e poi salimmo. «Pronta?» finsi un sorriso tirato. No, non ero pronta, proprio per niente. Avviò il motore e partimmo.
Dopo un paio di chilometri, mentre avevo lo sguardo perso sulla strada che ci sfrecciava accanto, la mia attenzione venne catturata da una testa bionda a me decisamente familiare. Camminava solo, con le mani in tasca, lo sguardo assente, la chitarra in spalla. L'aria gli smuoveva i capelli. Il viso tirato dalla stanchezza. Furono pochi secondi ma bastarono per farmi sentire uno schifo. Un dolore al petto precedette le lacrime. Passammo accanto e sorpassammo Micheal.
Un'ora dopo eravamo ufficialmente fuori Los Angeles.

Quello era stato il mio saluto ad un piccolo sogno che avevo deciso di abbandonare.
Qualche mese più tardi, il 23 luglio ad essere precisi, telefonai a casa e sospirai di sollievo sentendo immediatamente la voce di Saul al di là dell'apparecchio. Ovviamente non mi chiese alcuna spiegazione, ringraziandomi per gli auguri: era il giorno del suo compleanno. Non gli lasciai detto di salutare gli altri. Fu solamente una brevissima conversazione fra noi due. Andava bene così.
E ora, dopo sei mesi dal grande cambiamento, ero pronta a salire un'altra volta su un palco con i "Krueger".
Mi sballai un po' con gli altri e poi la musica prese il sopravvento su ogni cosa. Fu fantastico. Quelle emozioni mi ero mancate, ma con quella nuova strada che avevo intrapreso, ne stavo finalmente conquistando di nuove.
Mi godetti appieno quel live, senza ancora sapere che quella serata sarebbe drasticamente cambiata.

~Fall to Pieces.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora