21 Novembre 1968.
Questa data rappresenta il giorno in cui sono stata messa al mondo. Il primo giorno in cui qualcuno ha deciso al posto mio. Il primo giorno in cui avrei già dovuto comprendere che il Vero Libero Arbitrio Non esiste.
Mia madre Rose, all'età di vent'anni, partorì di mattino, intorno alle 5.20 e mio padre Stefan, di venticinque, le rimase accanto. Almeno in quel momento si dimostrò un uomo che si assume le sue responsabilità, e ciò se ne guardò bene dal farlo diventare un'abitudine.
Nel 1970, mio padre lasciò il piccolo appartamento in cui vivevamo, in un quartiere lasciato al suo declino nella cittadina di Lafayette, nell'Indiana; io avevo appena due anni e non lo vidi più, né seppi mai che fine aveva fatto.Gli anni successivi furono tosti, e i miei nonni materni erano usciti di scena perché non avevano mai accettato la gravidanza di mia madre, la quale in seguito perse anche il piccolo lavoretto da cameriera al pub all'angolo della strada.
Eravamo rimaste sole, con pochi spiccioli messi da parte nel corso del tempo, e nessun parente che fosse disposto ad aiutarci. Sole.A sei anni, venni iscritta alla scuola elementare del quartiere e dopo vari problemi di socializzazione con i compagni riuscii ad ingranare con l'ambiente.
Quella scuola, come tante altre, dava la possibilità di lasciare i bambini fino alle quattro e mezza del pomeriggio per permettergli di fare il doposcuola allo scopo di fare compiti e piccole altre attività di gruppo. Così, mia madre mi lasciava alle otto davanti al portone e lì la ritrovavo, sempre in ritardo, al momento di uscire. Intorno all'ora di pranzo, vedevo sempre i miei compagni uscire, essere accolti e abbracciati dai propri genitori... Ma io No, non ero così fortunata. Ci pativo, sarebbe inutile negarlo, ma imparai a farci l'abitudine. Quello che aggravava la situazione, erano le mezz'ore che mi toccava aspettare all'uscita, a causa dei ritardi di Rose, mia madre.
Ma non ero l'unica.
Ricordo un pomeriggio in particolare: attendevo sul marciapiede, con il mio zainetto rosso in spalla, quando un bimbo di qualche anno più grande mi si avvicinò. Inizialmente mi spaventai, ma in seguito capii che non era un cattivo ragazzino. Era poco più alto di me, occhi verdi che celavano un velo di malinconia, capigliatura rossiccia e scompigliata. Era buffo. «Ciao, sono William... Tu?» «Amy.» risposi timidamente e abbassando lo sguardo sulle mie scarpette. «Ti faccio paura?» chiese William mortificato. Scossi velocemente la testa in senso di negazione e abbozzai un sorriso. Lui ricambiò e ci sedemmo insieme sul gradino dietro di noi. Chiacchierammo per un po' parlando dei nostri amichetti con i quali condividevamo i classici giochi di gruppo, o copiavamo i compiti. Sì, copiavo già a quell'età. Fico, vero?
Purtroppo, mia madre arrivò dopo pochi minuti e dovetti salutare il mio nuovo amico. Ricordo il suo visetto da piccola peste, e quel sorriso vispo caratteristico di ogni bambino, o quasi. Ma, già allora, notai delle profonde ombre celate dentro a quel paio d'occhi verdi. «Chi era quel bambino?» mi chiese la mamma, sul tragitto di casa. «Viene a scuola lì, si chiama William. È simpatico!» mi affrettai a rispondere.
Quello fu l'incontro più bello che feci nel corso di quei cinque anni di scuola elementare.
Ma ogni cosa bella la si deve pagare, prima o poi. Infatti, così accadde.
Ricordo un pomeriggio di fine febbraio. Faceva freddo e la mia giacca non mi riscaldava abbastanza. Ero davanti al solito portone ad aspettare mia madre; il sole era già calato e il vento stava investendo chiunque girasse per strada. Improvvisamente mi sentii abbracciare: era lui, il ragazzino rosso, William. Ogni pomeriggio, da quel lontano ottobre in cui ci eravamo conosciuti, passavamo il tempo insieme. «Perché mi abbracci, Will?» «Perché hai freddo.» mi rispose, dolcemente. «Mi stai tanto simpatico sai?» «Mi stai tanto simpatica anche tu, Amy.» scoppiammo a ridere senza conoscerne il perché, ma eravamo bambini, a chi importava? «Will, ora devo andare, è arrivata la mia mamma. Ci vediamo domani?» «Certo! Ciao, Amy.» mi diede un bacino sulla guancia e poi raggiunsi mia madre che mi prese subito per mano.
Ma quello fu l'ultimo pomeriggio che passammo insieme. Lo scoprii circa una settimana dopo quando, vedendo che non veniva più a scuola, avevo chiesto sue notizie alla maestra. Non aveva saputo darmi alcuna spiegazione, ma mi disse soltanto che non sarebbe più venuto.
Non ci saremmo più rivisti.
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~Fall to Pieces.
FanfictionUn racconto toccante, che si concentra sugli aspetti più introspettivi di una band che ha segnato la storia della musica Rock. Un racconto che parla dei demoni che ognuno ha dovuto affrontare, dei baratri in cui si è scivolati. Una storia che insegu...