Nonostante non avesse puntato la sveglia, quel mattino Akito aprì gli occhi molto prima del previsto. Quando era rientrato dal lavoro la sera prima aveva controllato l'orario sullo schermo della sveglia digitale depositata sul comodino accanto al suo letto. Aveva fatto più tardi del previsto perché la sveglia segnava le tre e mezza del mattino, quindi aveva deciso di concedersi il lusso di lasciare decidere al suo corpo quando svegliarsi il mattino seguente. Tuttavia, contro ogni sua previsione, aveva dormito solo cinque ore, decisamente troppo poche per rimettersi in sesto. Ma, nonostante i numerosi sforzi, non riuscì a riaddormentarsi.
Guardò il soffitto grigio chiaro della sua camera da letto, notando delle leggere sfumature un po' più scure proprio in corrispondenza dell'angolo più lontano, quello vicino alla finestra. Si domandò se quella fosse muffa o l'ombra di qualcosa che si rifletteva all'interno della sua camera, oppure semplicemente la sua immaginazione gli stava facendo brutti scherzi.
Si sentì stanco, ma pensò ugualmente di poter ritinteggiare il soffitto e magari includere anche le pareti. Alla fine gli era sembrato sempre tutto uguale e monotono. Perfino quell'appartamento che aveva scelto di affittare rispecchiava appieno quelle caratteristiche, cosa che gli era sempre andata bene.
Ma da un po' di tempo a quella parte, precisamente da circa sette settimane, quella sensazione di sicurezza e protezione che provava ogni volta che si immaginava avvolto in quell'aurea di "tutto uguale e monotono" stava iniziando ad essere sempre più sfocata e sfuggente.
Molto spesso aveva cercato di scacciare via dalla sua testa il pensiero di qualcosa che lo facesse stare bene, da quando Yuto era annegato anche a causa sua. Ad un certo punto della sua vita Akito si era fermamente convinto di non meritare nessun tipo di benessere, figuriamoci di felicità.
Alla fine si lasciò andare e spalancò le braccia sul materasso, guardando fisso il soffitto. Gli sembrò che si stesse muovendo in un modo decisamente distorto, allora sbatté gli occhi un paio di volte per accertarsi che quello non fosse altro che uno strano effetto ottico. Poi li chiuse, ripensando alla strana forma che aveva preso il suo benessere, e deglutì.
Ricordava ancora perfettamente la sensazione sgradevole che aveva provato quando il suo compagno di stanza, un certo Ryosuke Kinomori, ragazzo benestante con uno strano accento tipico della prefettura di Nagasaki, gli aveva chiesto di Yuto e della strana ossessione che aveva verso di lui.
«A me pare pure un po' stupido.» aveva esordito la prima sera in cui erano arrivati all'alloggio che il loro Sensei aveva prenotato per tutto il tempo delle gare a Kyoto.
Hayama ricordava perfettamente quei giorni a Kyoto, e ricordava anche di aver risposto a quel tale Ryosuke con una semplice alzata di spalle, in una totale e fredda indifferenza.
«Stamattina ho visto come ti ha tenuto il posto accanto al finestrino in terza fila. Mi ha fatto quasi tenerezza sai?» aveva continuato, come se Hayama avesse dato a tutti l'idea di essere uno che soffriva di perdita di memoria a breve termine. Ricordò perfettamente che quel commento non gli era interessato particolarmente, perché se così non fosse stato, gli avrebbe di sicuro risposto che non erano affari suoi monitorare in quel modo la gente che gli girava intorno.
Ricordò di essersi steso sul suo letto, di aver incrociato le braccia dietro la testa e di aver chiuso gli occhi.
«Signor Hayama...»
Era da qualche tempo che un paio di ragazzini, Ryosuke Kinomori compreso, avevano iniziato a chiamarlo in quel modo e Akito ricordava perfettamente quanto quell'appellativo gli desse ai nervi. Dopo l'incidente di Yuto comunque, nessuno aveva più continuato a chiamarlo così. Quando la notizia della morte di un tredicenne avvenuta durante il ritiro con la propria scuola di karate si era diffusa Hayama andava ancora a scuola, ma la gente aveva semplicemente smesso di chiamarlo in qualsiasi modo.
Ricordò che ci fu un tempo abbastanza lungo tra il giorno in cui Yuto era annegato e lui aveva riempito di botte i responsabili dell'incidente, e quello in cui emanarono la sentenza che lo avrebbe spedito in un istituto di correzione per i successivi quattro anni. Durante quel tempo aveva continuato ad andare a scuola, almeno per i primi dieci giorni. Il fatto che il suo nome fosse sulla bocca di tutti lo lasciava assolutamente indifferente, non aveva badato nemmeno al chiacchiericcio nei corridoi quando passava per raggiungere il suo armadietto delle scarpe.
Alla fine Ryosuke era diventato uno di quelli che incolpavano Hayama della morte di Yuto, insieme alla sua famiglia originaria di Nagasaki e a tutti gli altri che avevano creduto quella versione. Nonostante Ryosuke sapesse quello che era successo davvero. E proprio lui non disse mai a nessuno ciò che pensava di Yuto e la stessa cosa aveva fatto Hayama.
Si rigirò nel letto per l'ennesima volta, dando un fugace sguardo ai numeri in verde sullo schermo della sua sveglia digitale. A quanto pareva erano passati solo otto minuti e Akito si sorprese di quanto la mente riuscisse a vagare nello spazio e nel tempo in un tempo così breve.
Lasciò vagabondare una mano sul materasso che rapidamente si infilò sotto l'estremità del suo cuscino, alla fine del letto. Lo sentì fresco, come qualsiasi cosa risparmiata dal tocco del calore umano. Rifletté su quel pensiero strano e si domandò se lui il calore umano l'avesse mai provato prima di conoscere lei. Forse John si avvicinava molto a quell'esperienza, ma ricordò di non essere mai stato molto propenso ad accogliere il calore umano a quel tempo. Nemmeno quello di John.
Guardò distrattamente le tende chiare che si lanciavano mosce, giù verso il pavimento della sua stanza. Quando le guardava gli venivano sempre in mente i pomeriggi spesi nello studio dell'avvocato di suo padre durante i giorni del processo. Nonostante il tribunale si fosse offerto di procurare alla sua famiglia un avvocato d'ufficio, visto il fatto che ci fosse un minore coinvolto, suo padre aveva deciso comunque di rivolgersi al loro avvocato. Peccato che questi fosse specializzato in divorzi e che le famiglie che lo avevano denunciato ne avevano a disposizione ben cinque di avvocati, e nessuno di loro era specializzato in divorzi.
Akito ricordava nitidamente la costanza con la quale l'avvocato di suo padre gli aveva fatto sempre la stessa domanda, ad ogni incontro prima del processo vero e proprio.
«Allora Akito, sei proprio sicuro che quei ragazzi non ti abbiano provocato e che tu non abbia agito per legittima difesa?»
Ricordava perfettamente il punto in cui le rughe sulla sua fronte convergevano tutte insieme nell'esatto momento in cui da quella domanda trapelava la speranza che la sua risposta potesse essere diversa da quella che gli aveva dato la volta precedente. Spesso ricordava quel momento come se lo stesse vedendo in slow-motion, comodamente seduto sul divano di casa sua, impugnando un telecomando il cui unico tasto presente era quello del rallentatore. Poteva riavvolgere il nastro decine e decine di volte, individuando il momento esatto in cui le rughe dell'avvocato Kotubo convergevano verso il centro della fronte, tra i due sopraccigli, dove si appoggiava la sua speranza.
«Sono stato io a picchiarli per primo.»
Lui gli aveva sempre risposto così, nemmeno una parola diversa. Era come se l'avesse imparato a memoria e, ogni volta che tornavano a casa, suo padre gli ripeteva che se voleva evitare il riformatorio avrebbe dovuto collaborare, aggiungendo che, in realtà, poteva pure fare come gli pareva perché ormai con lui aveva perso la forza di combattere. Allora Akito si era domandato spesso dove confluissero le speranze di suo padre, ma a distanza di anni non era ancora riuscito a trovare una risposta.
Socchiuse leggermente gli occhi nel momento in cui intravide una sottile striscia di luce farsi largo tra le aste delle persiane di legno della sua finestra. Quando aveva deciso di trasferirsi in quell'appartamento aveva scelto proprio quella stanza per dormirci solo perché non aveva balconi. Oltre alla cucina, l'unica altra stanza ad avere un balcone era la penultima sulla destra del corridoio, e lì Akito ci teneva solo la lavatrice e i panni sporchi da lavare. Ci entrava il meno possibile perché la cucina bastava e avanzava per la sua tolleranza verso le altitudini.
Allungò una mano verso il fascio di luce che atterrava proprio alle pendici del suo letto e gli sembrò di riuscire a toccarlo. Quel gesto era diventata una vera e propria abitudine ormai perché, durante gli anni passati al riformatorio, quel debole fascio di luce che si insinuava nella stanza che condivideva con un altro ragazzo della sua età, era l'unico elemento che gli aveva ricordato di essere ancora parte del mondo. In quella stanza spoglia, quando allungava il braccio verso la luce del sole, riusciva a raggiungerla solo con la punta delle dita perché il letto su cui dormiva si trovava esattamente attaccato alla parete opposta al raggio.
Riusciva a sentirne il calore sulle dita e spesso, per vedere meglio quella luce, socchiudeva gli occhi.
Ricordava perfettamente il rumore che faceva ogni mattina il suo compagno di stanza quando scriveva il suo costante diario giornaliero. Gli aveva raccontato che quello era un esercizio che doveva fare per mantenere il contatto con la realtà, ma ogni notte si svegliava urlando facendogli dubitare dell'utilità di quell'affare.
Decise di alzarsi, stufo di stare a letto a pensare e a ricordare. Percorse il tragitto che lo separava dalla cucina in una serie di movimenti automatici, gli stessi che faceva da quando viveva in quella casa: oltrepassava la scrivania e la soglia della porta, faceva precisamente sette passi non troppo lunghi per il corridoio ed entrava in cucina. Quest'ultima era sempre illuminata dalla luce naturale del sole perché lui le persiane lì non le chiudeva mai. Gli dava uno strano senso di libertà, purché non si affacciasse troppo ai vetri per guardare oltre la ringhiera della balconata.
Quella mattina trovò la caraffa dell'acqua completamente vuota e sbuffò annoiato. Quindi aprì il rubinetto del lavandino e inclinò la testa verso il getto d'acqua e ne bevve due o tre sorsi, bagnandosi leggermente qualche ciocca di capelli davanti al viso. Quando lo richiuse, aprì come un automa la dispensa in cui teneva il caffè solubile rigorosamente custodito nella sua confezione di plastica, sigillata con una molletta per il bucato. Ne versò tre cucchiai pieni in una brocca piena d'acqua che dispose sull'apposito riscaldatore e azionò il pulsante, per poi defilarsi in bagno.
Il suo era un piccolo appartamento dotato di due stanze e una cucina per cui molto presto l'odore del caffè inondò completamente tutte le stanze e gli arrivò dritto alle narici. Era singolare il modo in cui aveva iniziato ad amare il caffè nero americano, lui che da bambino beveva solo tè con al massimo una goccia di latte.
Ricordò che John aveva riso di lui per circa due ore quando gli aveva raccontato di non aver mai bevuto un caffè nero americano. Gli sembrò di sentirle ancora quelle risate che si erano mischiate ad un leggero brusio che aleggiava nella sala mensa dell'istituto di correzione di Tokyo.
«Quindi tu non hai mai bevuto un caffè americano? Ma da dove vieni, Acchan?»
«Non chiamarmi in quel modo.»
Acchan era come il signor Hayama per lui. Non che avesse avuto una particolare preferenza per il suo nome di battesimo, ma sentirsi chiamare così da un perfetto sconosciuto gli aveva dato veramente ai nervi. Oltretutto ricordava ancora il dolore che aveva sentito alla schiena in quei giorni successivi al primo approccio con John, perché quel dannato gli aveva stampato il suo bel quarantatrè di piede proprio in quel punto.
«Non vuoi sapere come mi chiamano?»
Lui aveva alzato le spalle indifferente, perché sapere il suo nome o come lo chiamavano era qualcosa che gli interessava ancora meno di sapere che sapore avesse il caffè nero americano. Poi l'altro aveva iniziato a guardarlo con insistenza, poggiando i suoi occhi scuri proprio su di lui.
Akito ricordò perfettamente la sensazione di disagio che aveva provato nel momento in cui quello che sarebbe diventato il suo tutore legale aveva iniziato a sedersi tutti i giorni accanto a lui, durante i pasti alla mensa dell'istituto.
Quelli erano gli unici momenti in cui i gentili ospiti, come li chiamavano gli altri, avevano il permesso di interagire tra loro, ma erano anche i momenti che Akito ricordò di odiare più di tutti. Ma quel John si era rivelato essere insistente fin dal primo giorno, quando gli aveva suggerito di non fare cazzate e di non esporsi troppo.
«Lo dico per te, amico. Mi sembri un bravo ragazzo che è finto qui dentro per qualcosa che non doveva succedere.»
Ricordò che erano bastate quelle parole, all'epoca così inopportune per il suo stato mentale, a spingerlo a prendere quel ragazzo alto il doppio di lui direttamente a pugni in faccia.
«Allora, come ti sembra?»
«Amaro.»
«Già, come la vita. Ma se ci metti questa vedrai che andrà meglio.» gli aveva detto, lasciando cadere nella tazza di caffé due zollette di zucchero perfettamente squadrate.
«Sarebbe una metafora?»
«Sei inquietante per essere un ragazzino di quattordici anni, sai?»
Osservò le due zollette di zucchero annegare rapidamente nel liquido scuro e fumante che si era versato dalla brocca del caffè. Era diventata pure quella un'abitudine, ormai. Non sapeva se quella roba gli piacesse veramente o se la bevesse semplicemente perché gli ricordava la sua voglia di tornare alla vita dopo gli anni spesi in compagnia di John, all'istituto di correzione di Tokyo.
Suo padre e sua sorella erano andati a trovarlo solo una volta, nel corso della prima settimana della sua permanenza lì. Natsumi si era mostrata subito a disagio nel trovarsi lì, seduta accanto a suo padre, entrambi con le braccia a debita distanza dallo squallido tavolino di legno rivestito con una lastra di plastica blu, alla cui estremità opposta era seduto proprio Akito.
Lui aveva capito subito il suo disagio, perché lei aveva guardato tutto il tempo fuori dalla finestra.
«Come vanno le cose qui, Akito?»
«Vanno.»
Ricordò perfettamente il verso strano che fece suo padre di risposta. L'ultimo verso che gli aveva sentito fare prima che l'orario delle visite finisse. Nessuno lo aveva più chiamato per informarlo che qualcuno era andato a fargli visita, così lui aveva lentamente iniziato a ragionare sull'idea di vedere in John la figura paterna che gli era sempre mancata. Quel pensiero naturalmente, lo aveva realizzato molto tempo dopo, con il fatto già compiuto.
John in realtà si chiamava Kenzo Yashimoto e aveva diciassette anni quando era stato arrestato per un banalissimo furto d'auto, aggravato dal fatto che John non aveva una dimora né un impiego. Akito ricordava ogni minima espressione sul viso di John mentre questi gli raccontava di quanto fosse stato sfortunato quella mattina di fine settembre quando, a causa di alcuni lavori stradali, non era riuscito a scappare in tempo ed era stato beccato dalla polizia.
«Guarda mi viene da ridere solo a ricordarlo... ma ci pensi? Perfino gli sbirri a momenti mi ridevano in faccia.»
«Mh.»
«Ma tu invece, non ridi mai Acchan?»
Alla fine nella sua vita aveva riso pochissime volte. Anzi, aveva trovato divertente due o tre cose al massimo, ridere era più che altro un eufemismo. Allora gli aveva rivolto la sua solita alzata di spalle, abbassando nuovamente la testa nel piatto che la cuoca della mensa gli aveva assemblato con premura.
«Hai pensato a cosa farai quando uscirai di qui?» aveva continuato John, ficcandosi in bocca una quantità di riso spropositata. Lui sosteneva che era meglio finirlo tutto e subito, rapido e indolore.
«Mangerò del sushi.»
«Io invece voglio aprirmi un locale... per questo cerco di lavorare il più possibile qui dentro. Se non riesco a procurarmi i soldi a modo mio, lo farò a modo loro.» e nel pronunciare quel loro, aveva indicato con un pollice all'insù un punto indistinto del soffitto. Come se quel loro indicasse un'entità sovrumana che aleggiava dritta sulle loro teste.
«Che genere di locale?» gli aveva chiesto Akito, in un impeto di nuova curiosità.
«Allora: io ho questa idea in testa, un posto in cui esci completamente da questo paese ed entri nel sogno americano... tavoli in legno, profumo di birra e rum in quantità industriali. Ma non quella schifezza che puoi trovare in un qualsiasi bar... il mio rum deve essere buono, il migliore.»
Akito aveva pensato immediatamente ai vecchi film ambientati negli anni cinquanta durante il boom economico statunitense e a quelle specie di pubblicità progresso in cui si faceva riferimento ad un magnifico sogno da vivere dall'altra parte dell'oceano. Per la seconda volta da quando aveva conosciuto John, aveva trovato qualcosa divertente.
Prese la tazza di caffè ormai vuota e la depositò nel lavandino. Se c'era una cosa che lo annoiava particolarmente era lavare i piatti sporchi, e quel disagio era aumentato da quando lavorava al locale di John. Fissò la tazza leggermente inclinata per qualche secondo prima di decidere di buttarsi sotto la doccia. Si trascinò in camera sua per prendere asciugamani e boxer dall'unico cassetto sul fondo del suo piccolo armadio e sbuffò annoiato, quando si rese conto di non riuscire a trovare nulla di quanto gli servisse. Frugò quindi alla rinfusa, toccando alla cieca tutto quello che la sua mano riusciva ad acciuffare, come se fosse un braccio meccanico all'interno di una macchina per bambini piena di pupazzi. Sentì sotto le dita qualcosa di completamente dimenticato.
Osservò con una strana nostalgie le grosse cuffie circumaurali che usava da ragazzino, e si domandò perché le trovasse tanto belle, quando in realtà erano semplicemente scomode e ingombranti. E gli venne in mente il calore del sole sul suo viso, misto alle urla di ragazzini che giocavano a basket.
«Sei asociale, Acchan.» gli aveva detto così John, sfilandogli le cuffie dalla testa. Akito si era sentito frastornato quando la musica era improvvisamente sparita dalle tempie, oltre che infastidito quando John gli era comparso in faccia, abbassandosi alla sua altezza mentre lui se ne stava semplicemente seduto per terra e appoggiato al muro del cortile dell'istituto.
«Tu sei fastidioso.»
Non aveva mai considerato un problema la differenza d'età che intercorreva tra lui e John. Lì dentro erano paradossalmente tutti uguali, quindi non si era mai sentito troppo piccolo per rispondergli in quel modo. Qualche tempo dopo avrebbe definito quella sensazione come confidenza, e quel rapporto molto vicino all'amicizia.
«Vieni a fare due tiri con me, ti sentirai meglio.»
«Perché invece non mi lasci in pace?»
«Perché sei un ragazzino e i ragazzini come te non devono dimenticare il mondo là fuori.» gli aveva detto, facendo apparire dal nulla una palla da basket che rimbalzava sotto le sue mani.
«Sto bene dove sto.»
«Hai paura di non esserne in grado?»
«Che ci vuole a mandare una palla in uno stupido canestro?»
«È qui che ti sbagli Acchan. Ci vuole strategia... devi usare il cervello.»
Akito sorrise, ricordando il momento in cui aveva smesso di usare quelle grosse cuffie ingombranti come passatempo durante i pomeriggi passati nel cortile dell'istituto di correzione. Aveva imparato di nuovo a sentire qualcosa durante le giornate passate a giocare a basket con John. Non che gli piacesse particolarmente quello sport, o l'entusiasmo di John ogni volta che centrava il canestro. Ma ricordava bene quello che invece non gli dispiaceva, sentire nuovamente qualcosa che fosse anche semplicemente la concentrazione e la soddisfazione che provava ogni volta che una strategia elaborata si rivelava vincente.
Ripose nuovamente le cuffie in fondo al cassetto e nel farlo intravide ciò che aveva iniziato a cercare in origine. L'asciugamano era lì, depositata su una coperta rosa non troppo pesante, ma abbastanza calda, almeno stando a quello che ricordava. Non l'aveva mai più usata, ma quando vi passò la punta delle dita su, ripensò al suo profumo e gli venne da sorridere quando nel prendere l'asciugamano scoprì anche i fiori bianchi e arancioni che decoravano quell'indumento decisamente poco gradevole alla vista.
«Così tra una settimana vai via. Ti invidio sai...» aveva esordito John, in una tiepida mattina di inizio settembre.
«Be' quanto manca a te? Un mese?»
«Già, ma è comunque troppo. Incredibile, se non hai un posto in cui andare non ti lasciano libero e quel dannato appartamento è praticamente ancora uno scheletro.»
«Questo è perché tu non ti accontenti.»
Quando John gli aveva detto di aver finalmente messo da parte i soldi necessari per affittare un appartamento e mettere su il suo piano riguardo il locale, Akito si era sentito di nuovo un po' solo. Si rese conto di non aver nessun sogno particolare né un'ambizione da seguire. Lui aveva vissuto e basta, e se non fosse stato per John, sopravvivere sarebbe stato il verbo giusto da inserire in quel pensiero.
«Tu che farai?»
«Sushi.»
«Intendo a lungo termine. Sei stato bravo qui dentro, il primo della classe.»
«Un diploma non dimostra niente.»
In realtà aveva sentito la necessità di darci semplicemente un taglio con quella città, e quando si era ritrovato per strada, con uno zaino pieno di cose inutili raccolte in quattro anni di convivenza in una minuscola stanza di quell'istituto, non aveva trovato nessuno ad aspettarlo. Non si era nemmeno domandato se qualcuno della sua famiglia fosse stato avvertito, ma dal momento che era stato rilasciato solo perché ufficialmente abitava ancora a casa di suo padre, si era convinto che tutti ne fossero stati al corrente e che nessuno si fosse presentato per propria libera scelta.
In fondo non aveva avuto più contatti con la sua famiglia e la loro assenza era stata abbastanza palese nel fargli stilare la sua personale classifica delle persone che non volevano vederlo.
Allora, con un'alzata di spalle, si era diretto alla stazione dei treni per prendere un qualsiasi Shinkansen.
Aveva alzato lo sguardo verso il tabellone che indicava i treni in partenza per poi dirigersi alla biglietteria, scoprendo solo lì che il primo posto disponibile era su un treno diretto a Kyoto che sarebbe partito alle dieci di quella stessa sera. Allora aveva scartato quella prima opzione per poi decidere di acquistare un biglietto per Yokohama, e sarebbe partito il mattino successivo alle sei.
Si era domandato cosa avrebbe fatto alla stazione centrale di Tokyo per ventiquattro ore, sentendosi già incredibilmente stanco. Quindi aveva deciso di sedersi in uno dei tanti internet café della stazione, e mentre osservava il via vai di gente si era addormentato, appoggiando la testa sul suo zaino pieno zeppo di cose inutili.
Quando si era svegliato molti dei negozi presenti avevano ormai già chiuso, ma non quel café, ancora pieno di gente. Si era sorpreso nel vedere quante persone fossero entrate lì con dietro uno zaino come il suo, oppure un trolley malandato o semplicemente una busta di plastica, e avevano usufruito dei bagni e delle docce messe a disposizione dal locale. Aveva capito che quelle erano persone senza una casa, senza un posto dove tornare la sera quando tutti i negozi della stazione chiudevano e, di colpo, si era sentito meno solo perché anche lui in realtà una casa non ce l'aveva.
Allora, sorprendentemente, quelle ventiquattro ore erano diventate quarantotto e poi settantadue. In seguito le ore si erano trasformate in giorni e poi in settimane, durante le quali Akito aveva avviato una specie di routine quotidiana che lo lasciava abbastanza indifferente a tutto il resto. Si era detto molte volte, nel corso di quelle giornate passate a leggere qualche libro in una delle cinque librerie della stazione, che prima o poi avrebbe preso quel treno per Yokohama. Che avrebbe terminato prima il secondo volume di una saga fantasy nemmeno troppo entusiasmante, e poi sarebbe andato a comprare un nuovo biglietto, per un nuovo Shinkansen. Ma poi gli era venuta voglia di terminare la saga, che contava cinque volumi da millecento ventitré pagine ciascuno, e allora aveva rimandato di nuovo. Nel frattempo si era reso conto che i capelli gli erano arrivati quasi alle spalle e che la barba gli era cresciuta per davvero, ma non aveva mai trovato la voglia dentro di sé per radersi. Senza contare che i pochi soldi racimolati in istituto grazie ai lavoretti pomeridiani non sarebbero durati in eterno. Allora gli era bastato smettere di toccarsela, quella barba, così da dimenticare di avercela e continuare a leggere libri nella stazione centrale di Tokyo.
Akito si toccò istintivamente il mento, trovandolo così liscio al tatto da riflettere sull'assurdità di quella condizione in cui a tutti gli uomini cresca qualcosa a dismisura proprio sul viso. Da quando l'aveva tagliata per la prima volta, circa un anno e mezzo prima, non la faceva mai crescere al punto di sentirla sotto le dita. Era diventata una specie di ossessione quella del radersi quasi ogni giorno.
Ricordava ancora quanto fosse stato freddo il suo ultimo inverno alla stazione. Così come ricordava bene quanto fossero diventati affollati gli internet café proprio in quel periodo. Aveva letto che a Tokyo c'erano circa milleseicentonovantasette senzatetto, anche se quelli che praticamente vivevano negli internet café un tetto ce l'avevano eccome, anche se saltuario. In fin dei conti non gli dispiaceva starsene da solo all'ingresso della stazione, se solo non avesse sentito quel freddo pungente che gli entrava fin dentro gli organi, e si era sentito stupido così tante volte per non aver mai pensato di rimediare una coperta o qualsiasi altro indumento potesse dargli un po' di calore. L'unico indumento che era riuscito a trovare qualche settimana prima era una mantella di lana che aveva iniziato a mettere anche sulla testa.
Ricordò di aver passato le prime ore di quel freddo martedì di febbraio a cercare di dormire, perché aveva perso perfino la voglia di leggere libri. Ricordò di essersi domandato molte volte se John fosse riuscito ad aprire il suo locale dei sogni, e aveva pensato anche che in fondo erano passati cinque mesi da quando era uscito dall'istituto e che John aveva avuto tutto il tempo per mettere su il sogno della sua vita. Si era domandato anche cosa gli avrebbe detto se lo avesse visto lì alla stazione, ad arrendersi di nuovo di fronte alla prospettiva di dover lottare per ottenere qualcosa. Ma poi aveva scacciato rapidamente quel pensiero, riflettendo sul fatto che lui non aveva semplicemente niente per cui lottare. Né un appartamento da ristrutturare né un sogno da realizzare.
Poi aveva sentito la sua voce.
Era stato così strano il modo in cui, tra i circa quattrodici milioni di abitanti di quella città, i suoi sensi si erano soffermati proprio su quella ragazza che saltellava a qualche metro di lontananza da lui, ben affagottata in un cappotto di lana celeste pastello, una sciarpa bianca e un capello con un buffo pon pon dello stesso colore, che ondeggiava insieme ai suoi movimenti un po' goffi. In realtà ricordò di aver pensato che avrebbe davvero voluto essere affagottato anche lui, proprio come quella ragazza allegra accompagnata da un tizio molto più anonimo di lei.
L'aveva seguita con lo sguardo e si era sentito anche leggermente imbarazzato quando gli occhi di lei si erano voltati verso la sua direzione, come se qualcosa l'avesse chiamata e le avesse suggerito di girarsi proprio in quel momento. Allora aveva abbassato lo sguardo richiudendosi nella sua mantella di lana, sperando che quegli occhi allegri sarebbero spariti una volta che lui fosse tornato a guardare la strada pullulante di gente.
«Che ti prende?» le aveva chiesto il tizio anonimo accanto a lei. Aveva notato che la teneva per mano e che ci riusciva perfettamente, nonostante gli spessi guanti che la ragazza indossava. E le aveva invidiato pure quelli.
«Shin... guarda. Sta tremando per il freddo.» gli aveva risposto lei, che si era fermata di colpo così come il suo pon pon bianco e l'allegria che aveva dipinto in viso. Nel constatare quel particolare si era sentito meno a disagio. La cosa buffa era che prima che lei lo avesse notato, lui non si era nemmeno accorto di stare tremando per il freddo.
«Be' si gela, credo che nevicherà a breve. Andiamocene di qui, sono sicuro che sanno dove passare la notte senza morire assiderati.»
Il tizio anonimo gli era sembrato non troppo convinto di quelle parole. Probabilmente conosceva il mondo, molto meglio di pon pon bianco.
«Magari è come dici tu, ma io voglio aiutarlo.»
Akito ricordava bene la sensazione che aveva provato quando vide la mano di lei sfilarsi lentamente dalla stretta del tizio anonimo, che aveva alzato gli occhi al cielo sbuffando annoiato. Le erano bastati esattamente quattro secondi e mezzo per raggiungerlo e inginocchiarsi di fronte a lui, perdendo appena l'equilibrio mentre si sfilava i guanti dalle mani.
«Per favore prendili. Lo so che sono femminili e strani, ma sono molto caldi.» gli aveva detto con uno strano sorriso preoccupato. Poi ricordò di aver abbassato lo sguardo, e quindi non seppe mai che espressione le venne su dopo.
«Domani ti porterò una coperta, ti troverò qui vero?»
Ricordò che avrebbe voluto risponderle di non avere molti posti in cui andare, a parte le cinque librerie e gli internet café, ma dalla sua bocca non era uscito nulla.
«Sana... guarda che sta per nevicare. Poi faremo tardi al bowling.» la voce del tizio anonimo si era palesata come una specie di monito.
«Io adesso vado, anzi prendi anche questo.» e gli aveva rifilato il pon pon bianco.
«Ci vediamo domani.» gli aveva detto, stringendogli le mani, ben nascoste sotto la mantella.
E di nuovo aveva riscoperto il senso dell'attesa, con le dita al caldo in quei guanti bianchi e spessi che custodivano ancora il suo profumo. Aveva tradotto quella sensazione con l'idea di poter stare al caldo, ma senza rifugiarsi in un internet café troppo affollato.
E poi l'aveva vista saltellare da lontano, infagottata nello stesso cappotto celeste pastello, ma con un cappello diverso, rosa e più brutto di quello col pon pon e senza guanti spessi. Forse la coperta rosa con i fiori arancioni che sosteneva goffamente tra le braccia era davvero abbastanza calda da rendere i guanti inutili.
«Ciao, ti ho portato questa.» gli aveva detto con un sorriso diverso da quello precedente. Si era accovacciata, poggiando le ginocchia sull'asfalto freddo della strada, e di nuovo lui aveva abbassato lo sguardo. Poi aveva disteso quella coperta orribile e in un gesto veloce gliel'aveva depositata sulle spalle stringendone poi gli angoli sul suo petto. Dal punto in cui i suoi occhi si trovavano era riuscito a vederle le dita da così vicino da distinguerne chiaramente il rossore causato dal freddo di quell'ennesima giornata d'inverno.
«Ma tu non ce l'hai una casa? Come fai a stare qui, con questo freddo?»
Poi si ricordò di aver socchiuso gli occhi perché quella coperta rosa, per quanto oscena fosse, era davvero calda e per un istante aveva smesso di tremare.
«L'inverno è quasi finito. Quando mi succede qualcosa di spiacevole penso sempre che prima o poi finirà... perché in fondo l'inverno non dura mai per sempre, no?»
Ricordò che lei aveva sorriso e che era rimasta lì a sorridergli per un tempo stranamente indefinito, che lui aveva avuto quell'impeto di coraggio per sollevare di pochissimo il viso e osservare quel sorriso che gli era parso così luminoso.
L'inverno non dura mai per sempre...
«Nessuno dovrebbe vivere da solo. Nessuno dovrebbe sentirsi così.» aveva aggiunto dopo e Akito ricordò di non essersi nemmeno domandato in che modo la gente dovesse vivere.
«Vorrei aiutarti... domani ti porterò qualcos'altro.» gli aveva detto sempre con lo stesso sorriso. Ricordò perfettamente che quello che lui avrebbe voluto in quel momento era sentirsi dire nuovamente che l'inverno non dura per sempre. Che la primavera arriva comunque e che quel sorriso era davvero caldo come la coperta che gli aveva portato.
Poi lei si era avvicinata a lui ispirando l'aria che aveva intorno e gli aveva detto di sentire un buon profumo.
Akito sospirò pesantemente. Pensò rapidamente all'ultimo anno e mezzo della sua vita e si lasciò andare sul letto, dimenticandosi volutamente dell'asciugamano che stava cercando e della doccia che avrebbe dovuto fare.
Si dimenticò delle cuffie, del caffè nero americano, delle tende anonime che cadevano mosce al pavimento e della macchia scura in mezzo al soffitto grigio.
Si stese sul letto e pensò al colore dei capelli di Sana e a quel celeste pastello del suo cappotto di lana. Pensò alla coperta rosa e al pon pon bianco e, inevitabilmente, pensò a quell'inverno. Il suo personale inverno che era finito proprio il giorno seguente al primo appuntamento che lei gli aveva concesso.
Ricordava ancora la sensazione che provò quando si rasò nel bagno dell'internet café dove aveva passato la sua prima notte alla stazione, cinque mesi prima. Aveva accarezzato il viso sul quale ricadevano le ciocche di quei capelli che non erano mai stati così lunghi. Poi vi aveva passato una mano, sentendo le dita scorrervi senza ostacoli, e li aveva scompigliati, poi aveva sbuffato osservando i ciuffi che si alzavano per poi depositarsi nuovamente sulla punta del suo naso.
Aveva aperto il suo zaino, ancora pieno di cose inutili, e tirato fuori un pigiama e due magliette a maniche corte, depositandole sul pavimento del bagno. Quindi aveva appallottolato la coperta insieme al pon pon bianco, infilandoli nello zaino che si era rigonfiato un po'. I guanti aveva deciso di metterli perché, in fondo, l'inverno non era ancora terminato.
E l'aveva vista proprio lì, nel punto in cui lei gli aveva portato la coperta il giorno precedente. Questa volta il suo cappotto era giallo senape e indossava dei buffi stivali che ad Akito avevano fatto venire in mente le ciabatte che si indossano in casa. Lei si guardava intorno e non aveva più il sorriso radioso del giorno precedente, mentre sosteneva una confezione di cartone tra le mani.
Akito l'aveva guardata a lungo e, per un breve istante, aveva anche pensato di restituirle la sua orrenda coperta rosa, ma quando lo sguardo di lei si era mosso verso la sua direzione, si era messo subito le mani nelle tasche per non farle vedere i guanti, che avrebbe riconosciuto di sicuro. E si era domandato il perché di quel gesto, ma la risposta gliel'aveva data il suo cuore che si era messo a battere più forte quando la ragazza si era incamminata nella sua direzione.
I passi di lei però si erano allungati oltre la sua figura in piedi, in mezzo al via vai della stazione. Lui aveva tagliato la barba, si era fatto una doccia e si era tolto di dosso quella specie di mantella che aveva usato per coprirsi dal freddo: era plausibile che lei non lo riconoscesse.
Allora si era voltato per vederla andare via di spalle, ma l'aveva scoperta a guardare nuovamente nella direzione in cui lui era stato fino al giorno precedente. Aveva provato un profondo senso di tenerezza nel vedere la sua espressione disorientata e un po' delusa, ma nonostante quel debole sentimento, aveva deciso di darle nuovamente le spalle per abbandonare quel posto che era stato per lui una specie di casa.
Ricordò il viso sorridente di John quando gli era piombato in casa e la sua felicità quando gli aveva chiesto se poteva stare da lui, almeno per un po'.
Il suono del campanello di casa sua lo riportò bruscamente alla realtà. Voltò la testa di scatto in direzione della porta d'ingresso della sua camera da letto, corrugando la fronte. Si domandò chi potesse essere a quell'ora, quindi si alzò dal letto, chiudendo distrattamente l'anta dell'armadio ancora aperta dopo la sua perlustrazione.
Quando aprì la porta si domandò se in realtà stesse ancora dormendo e ciò che aveva davanti non fosse altro che un sogno.
«Kurata... che ci fai qui a quest'ora?» le domandò sorpreso. Osservò con attenzione il suo viso e lo sguardo rivolto verso il basso. Allora capì che quella non era una visita di piacere, e che avrebbe dovuto frenare l'entusiasmo rispetto all'ipotesi che lei si fosse precipitata a casa sua semplicemente per vederlo.
«Ehi... che succede?» le domandò, afferrandola per le mani. La trascinò dentro chiudendosi la porta d'ingresso alle sue spalle, e solo allora lei alzò lo sguardo verso di lui, rivelando gli occhi completamente gonfi e arrossati. Allora le lasciò le mani per depositare le sue sulle guance inumidite.
«Akito...»
E a lui sembrò un miraggio. Aveva passato tutta la mattina a pensare e a ricordare gli ultimi anni della sua vita, a collocare ogni tassello nel giusto scompartimento per cercare di trarre le conclusioni di quel percorso che lo aveva portato proprio lì, a stringere le mani sul viso di una ragazza che lo aveva tirato su senza nemmeno rendersene conto. E vederla lì con gli occhi gonfi di pianto e lo sguardo triste gli fece capire che molto probabilmente avrebbe dovuto rivedere le misure di quella divisione in scompartimenti che aveva appena fatto.
«Io... scusa se sono piombata così senza preavviso... è che stanotte non ho chiuso occhio...»
Hayama la guardò confuso, perché il nervosismo e la tensione che lei stava provando erano palesi e tangibili attraverso quelle parole dette a stento. Allora lui corrugò la fronte.
«Cosa è successo?»
Sana sospirò profondamente e quando espirò l'aria dalla bocca la sentì tremare, mentre gli occhi le diventavano nuovamente lucidi.
«Sana che hai? Per favore parla.» la implorò lui, trascinandola sul bordo del suo letto. La spinse a sedersi perché ebbe paura che potesse crollare da un momento all'altro. E come aveva previsto, appena il suo corpo si sentì al sicuro su una superficie morbida consapevole di non rovinare in terra, scoppiò a piangere nascondendo il viso tra le mani.
«Ieri sera sono uscita con Shin. C'erano tutti... volevo parlare con lui, ma è stato un disastro...» cercò di raccontare tra i singhiozzi che le impedivano di raccogliere l'aria necessaria per proseguire il racconto. Lui non disse nulla, aspettando che lei riuscisse a continuare nonostante sentisse un profondo senso di inquietudine premere sullo stomaco. Era chiaro ormai che fosse successo. Qualcosa di abbastanza grave da turbarla in quel modo e spingerla a presentarsi a casa sua alle sette del mattino.
«Io non pensavo che potesse essere così crudele... se tu avessi visto Fuka. Il suo sguardo... lei mi odia profondamente ora.»
«Ora calmati. Guardami... ehi, Sana.»
Hayama le prese il viso tra le mani abbassando lo sguardo per raggiungere il suo. E più lui la cercava più lei gli sfuggiva, lasciandosi completamente andare a quello stato di tristezza e dolore che stava avendo il sopravvento su qualsiasi tentativo da parte di Akito di farla stare meglio. Allora lui si alzò dal letto e le passò davanti, ricevendo finalmente la sua attenzione perché lei lo seguì con lo sguardo. Per un attimo smise di piangere e osservò Akito fermarsi in piedi di fronte a lei, poi con un gesto lento le si inginocchiò davanti, poggiando le mani sulle sue cosce e cercando con il viso il suo sguardo disperato.
«Kurata, guardami!» le impose, inchiodando i suoi occhi nei suoi. Erano così magnetici, pensò Sana in quel momento, che per un breve istante riuscì a dimenticare tutto quello che era successo nelle ultime ore della sua vita. Riuscì anche a pensare, per un solo minuscolo istante, che se tutto quello che aveva vissuto di brutto e doloroso era stato necessario per arrivare a quel punto della sua vita, allora le andava anche bene, perché tutto ciò che desiderava davvero nel profondo del suo cuore era potersi perdere per sempre in quello sguardo, ricordare solo il colore dei suoi occhi e poterlo rendere felice. Ma poi rivide gli occhi di Fuka, il suo viso distrutto e ricordò il modo in cui l'aveva guardata la sera prima. Nessuno l'aveva mai guardata con quell'espressione e forse nemmeno nello sguardo di Gomi aveva letto tanto disprezzo e sofferenza. Allora le sue labbra si piegarono nuovamente, ma cercò di fare un profondo sospiro e trovare la forza di raccontare tutto ad Akito. E poggiò la fronte sulla sua, sussurrando dapprima qualcosa che lui non riuscì a capire. Allora spostò leggermente la testa stringendo le dita sulle sue gambe.
«Lui... ci ha visti. E l'ha detto a tutti... Fuka l'ha saputo così, mentre eravamo a tavola seduti al ristorante.»
Hayama non disse nulla, non mosse nessun muscolo. Ricordò improvvisamente un giorno qualunque della sua permanenza al riformatorio, durante uno dei tanti momenti spesi in cortile insieme ai suoi compagni. Ricordò il momento in cui la vista gli si si era annebbiata completamente lasciando spazio solo ad un'irrefrenabile rabbia, riflessa in un ponderato slancio in avanti verso uno dei tanti ragazzini che avevano cercato di provocarlo in diversi modi, solo perché lui se ne stava in silenzio e per i fatti suoi.
E ricordò anche il momento in cui quel pugno alzato in aria era rimasto lì fermo, e alla fine il colpo in faccia se l'era preso lui, perché qualcuno lo aveva bloccato.
«Acchan, che diavolo fai? Ti avevo detto di mantenere un profilo basso... vuoi anche che distribuisca inviti per la tua prossima scazzottata?» gli aveva detto John, con ancora il suo braccio stretto in una mano, senza curarsi minimamente del fatto che alla fine lui le avesse prese.
«Fatti gli affari tuoi, dannato ficcanaso.»
«Sei un piccolo stupido. Impara a controllare quella rabbia che ti porti dietro come la coperta di un poppante, altrimenti un giorno finirai col farti male sul serio. E non parlo solo di quel ridicolo graffio sul naso che hai ora.»
Allora Akito pensò che la rabbia che sentì in quel momento non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella che aveva provato quel giorno al riformatorio, quando John lo aveva bloccato. E si fermò a riflettere sull'ipotesi da lui appena messa al vaglio, che includeva Gomi e il modo in cui la sua faccia si deformava sotto i suoi pugni. Ma come un mantra ripensò alle parole di John e solo in quel momento riuscì a comprenderne il significato più profondo.
Cosa avrebbe fatto Sana se lui avesse ridotto il suo fidanzato o ex come una bambola sgonfiata? Come lo avrebbe guardato, nonostante le buone intenzioni di difenderla e vendicarla che avrebbero mosso quel gesto?
Quindi fece un profondo respiro e allentò leggermente la presa delle sue dita sulle cosce di lei.
«Akito?» mormorò lei, un po' confusa.
«Va' avanti.»
Sana quindi gli raccontò la serata, cercando di alleggerire il racconto omettendo i toni usati da Gomi e il bicchiere d'acqua che Fuka le aveva lanciato in faccia, disprezzandola come non aveva mai pensato potesse fare. Poi continuò terminando la sua storia con l'assenza dei particolari della sua conversazione con Fuka e Gomi.
Akito restò in silenzio, si alzò in piedi e strinse i pugni, cercando di mettere a tacere quell'istinto che gli stava suggerendo di spaccare tutto ciò che aveva davanti. Non era così stupido da pensare che un epilogo del genere non potesse essere dietro l'angolo e, soprattutto, che lui e Sana insieme non avessero ferito due persone con quello che avevano fatto. Ma il pensiero di quel piano machiavellico ordito appositamente per umiliare lei davanti a tutti e ferire Fuka ancora di più lo mandava veramente in bestia.
«E lui?» le domandò semplicemente. Lei alzò lo sguardo verso il suo viso e gli risvolse l'ennesima espressione triste.
«Tsuyoshi e Toshio l'hanno portato via quando si sono resi conto che era davvero fuori di sé.»
«Ci hai parlato?»
«È venuto sotto casa mia... ha continuato ad insultarmi...» ma Akito non la fece finire, perché smise di pensare razionalmente e lasciò che il suo corpo si muovesse per l'inerzia della sua rabbia, dando un pesante calcio nella porta della sua stanza. Sana sobbalzò, stringendosi poi nelle spalle subito dopo.
«Ma è andato via... Akito, devi comprenderlo...»
«Ma che stai dicendo? Cosa devo comprendere? Che abbia organizzato la sua vendetta come uno stupido ragazzino? O che abbia sentito la necessità di venire sotto casa tua e finire la sua opera?»
Sana allora allungò una mano verso di lui: «Io... gli ho spezzato il cuore.»
Hayama allora sospirò pesantemente riflettendo rapidamente su quanto avesse sentito dalle labbra di Sana. Poi si voltò e uscì dalla stanza, lasciando lei in preda ad una tremenda confusione. Non capì il motivo per cui lui l'aveva lasciata lì, seduta sul suo letto ancora sfatto, tra le lenzuola che esattamente un giorno prima li avevano visti consumare quel momento di passione. Corrugò la fronte decisamente disorientata e cercò di sporgere il viso verso l'uscio della porta per capire cosa lui stesse facendo e chissà dove. Ma non sentì nulla. Allora decise di alzarsi, passandosi una mano sul viso per eliminare le ultime tracce delle lacrime che ormai avevano deciso di piantare delle tende perenni proprio sotto i suoi occhi, e si incamminò oltre la porta della camera di Akito, lungo il corridoio che le sembrò infinitamente lungo e fin troppo in penombra, fino ad arrivare sull'uscio della cucina. Lo vide accanto alla finestra chiusa del balcone, in piedi e intento ad osservare chissà cosa. Riuscì a vedere le braccia conserte, ma non il suo viso.
«Akito...» lo chiamò, un po' titubante. Fece un passo verso di lui, ma si bloccò appena vide le sue spalle abbassarsi di colpo, accompagnate da un sonoro sospiro.
«Che fai...»
«Stavo riflettendo.»
Allora lei non rispose e abbassò lo sguardo. Non aveva ancora avuto il coraggio di dirgli quello che Fuka le aveva chiesto e forse la mancanza di coraggio derivava soprattutto dal fatto che se l'avesse detto ad alta voce, sarebbe diventato tutto reale e concreto. E lei non avrebbe avuto più la possibilità di tornare indietro.
Allora fece un profondo carico d'ossigeno in un respiro che le sembrò essere l'ultimo.
«Fuka mi ha chiesto di non vederti più, altrimenti non potrà mai perdonarmi.» disse di getto, facendo scivolare via dalle labbra anche l'aria che a fatica era riuscita a trattenere. Si domandò se fosse possibile morire a vent'anni per aver lasciato scappare dalle labbra troppo ossigeno prezioso. O troppe parole dolorose.
Tuttavia le sue aspettative furono deluse ancora una volta e Hayama, ancora in piedi di fronte a lei, non batté ciglio e continuò a restare in silenzio.
«Non hai niente da dire?» lo esortò ad esporsi in qualsiasi modo, ma lui, come se stesse seguendo un copione già scritto, continuo con il suo mutismo.
«D'accordo, ho capito...»
«Cos'è che hai capito esattamente?» tuonò quasi, e finalmente Sana lo sentì parlare. Anche se avrebbe preferito che lui avesse usato un tono più comprensivo, invece sembrava essere tornato l'individuo freddo ed insensibile che lei pensava fosse un tempo.
«C-che non t'interessa più di tanto... e che forse tu nemmeno...»
Allora lui si volto di scatto verso di lei e Sana riuscì ad intravedere la sua espressione di rabbia.
«Vuoi davvero continuare su questa scia? Vuoi davvero continuare a pensare che non mi interessi? Io non ho nessuna intenzione di costruirti un altarino Kurata.»
Sana si sentì confusa e malgrado l'espressione sul viso di Akito fosse la stessa che gli aveva visto qualche settimana prima quando lo aveva portato alla scuola di karate, il tono delle sue parole era calmo mostrandole un'inquietante dualismo che era l'esatto riflesso di ciò che stava accadendo nella sua testa. Perché Hayama era diviso esattamente in due: c'era il lui che avrebbe voluto reagire come un tempo, prendendo a pugni Gomi, Fuka e tutto ciò che si stava mettendo in mezzo tra lui è la possibilità di illuminare la sua vita; e il lui che invece sapeva bene di essere l'ultima persona a dover agire in quella situazione, perché la decisione sul da farsi non spettava certo a lui. Ma se c'era una cosa che lo faceva davvero arrabbiare era la volubilità di Sana e la rapidità con cui si faceva influenzare dalle sue stesse paranoie.
«Ma che dici? Non capisco...»
«Kurata... io non voglio essere il tuo senso di colpa e non te lo ripeterò di nuovo. Non voglio spingerti a prendere una decisione che non senti tua... mi dispiace, ma devi prenderti le tue responsabilità.»
«E pensi che non lo stia facendo?»
«Non lo so, non sto nella tua testa. Ma se ti aspetti che io ti preghi in ginocchio affinché tu scelga me al posto di Fuka, Gomi o chiunque altro al mondo sei completamente fuori strada. E non lo faccio perché non mi interessa...»
«Ah no? E perché allora, sentiamo?»
«Perché è esattamente il contrario.»
Allora Sana, che non era mai stata un genio nel comprendere la natura dei comportamenti umani, stranamente quella volta intuì che anche per Akito non doveva essere facile decidere di lasciarla libera di agire nel modo che riteneva più giusto e opportuno. Nonostante sapesse perfettamente che le pretese di Fuka fossero totalmente sbagliata, c'era una vocina dentro di lei che le stava suggerendo di andare oltre l'apparente egoismo della sua amica. E improvvisamente capì anche quanto per Hayama potesse essere dura sopportare l'idea di averla spinta a fare qualcosa solo per la voglia di stare con lui. Pensò ai sensi di colpa e al fatto che Akito avesse convissuto già troppo tempo con quello stato d'animo così devastante.
Allora fece un passo indietro e Akito la guardò, pentendosi immediatamente di averle detto quelle cose. Le cose che gli aveva suggerito la seconda personalità che albergava nel dualismo della sua testa. In fondo cosa poteva fargli un senso di colpa in più... allora aprì leggermente la bocca e Sana sentì il suo cuore perdere un battito. Ma proprio quando la punta del suo piede pareva essere in procinto di spostarsi verso di lui, la bocca di Akito si serró di nuovo sostituendo un ipotetico discorso con un profondo sospiro.
«In realtà ero venuta a dirti questo...»
«Perché è quello che vuoi?»
«No che non è quello che voglio.»
«Vedi? Questo è il tuo problema Kurata. Non fai quello che vuoi. Non pensare a cosa voglia Fuka, o Gomi o io... pensa a quello che vuoi tu. Sei tu che ci devi pensare, nessun altro può farlo al posto tuo. Cosa diavolo vuoi tu?» le domandò con fermezza, stringendo i pugni e guardandola con insistenza.
«Io non riesco a pensare di ferire qualcuno a cui tengo così tanto...»
«Ma riesci a ferire te stessa... la vita è dura. Tu... non immagini nemmeno lontanamente quanto possa esserlo.»
Sana continuò a guardarlo sperando di capire ciò che lui volesse dire, ma si sentì anche trattata come una stupida ragazzina ignara delle dinamiche del mondo. E forse lo era, anzi quasi sicuramente era lei la prima a definirsi in quel modo. Ma proprio non riusciva a capire perché lui non riuscisse a dire altro se non chiederle cosa lei volesse.
Le era fin troppo chiaro cosa volesse, ma le era altrettanto cristallino che nella vita a volte bisogna fare delle rinunce. E lei, alla fine, aveva già fatto la sua scelta.
Allora indietreggiò per la seconda volta ritrovandosi nel mezzo del corridoio di casa Hayama. La sua mente fece un rapido giro dei suoi ultimi ricordi, quasi come a verificare di non dimenticare nulla prima di andare via. Non riuscì a dirgli più nulla, perché era sicura che se avesse iniziato a parlare non avrebbe trattenuto le lacrime né se stessa nel voler sentire ancora un suo abbraccio, un suo bacio. Nel voler avere ancora il suo profumo addosso, impregnato sui suoi vestiti.
Allora si voltò verso la porta d'ingresso, dando le spalle ad Hayama che era rimasto fermo nello stesso punto in cui era esattamente qualche minuto prima e, senza rivolgergli nemmeno un ultimo sguardo, si lanciò verso l'uscita del suo appartamento raccogliendo tutta la forza che possedeva per non cedere alla parte di sé che avrebbe voluto mandare al diavolo tutti solo per stare con lui.
Hayama invece si voltò in direzione della porta d'ingresso solo quando la sentì sbattere a seguito della chiusura da parte di Sana. Spostò solo lo sguardo di lato, cercando qualcosa su cui focalizzare la sua attenzione, le emozioni che stava provando sembravano uscire fuori dalle dita fino a schiantarsi contro il suolo duro e freddo del pavimento, per giacervi fino alla fine dei tempi.
Allora in uno scatto d'ira, Akito afferrò lo schienale di una delle sedie di legno che circondava il piccolo tavolo della cucina e la attirò a sé, scaraventandola poi nella parte opposta della stanza. La sedia finì contro la parete del mobile-dispensa accanto ai fornelli e si scheggiò visibilmente. Oltretutto l'urto contro il mobile fece cadere la brocca del caffè sul pavimento che si frantumò in mille pezzi, trasformando il suolo in un tappeto scuro e liquido che lentamente si stava propagando fin sotto i suoi piedi.
Gli sembrò tutto così inutile e ridicolo, che iniziò a maledire tutti mentalmente. Poi si infilò velocemente una maglietta e un paio di jeans, afferrò le chiavi della sua moto e lasciò l'appartamento, lasciando che la macchia scura sul pavimento continuasse a camminare come se fosse la lava bollente di un vulcano in eruzione.
Akito aveva una sola cosa in mente e un solo posto dove andare: ricordava perfettamente la strada per arrivare a casa di Fuka nel più breve tempo possibile. L'aveva fatta poche volte in realtà, preferendo quella più lunga. Ma quella volta aveva bisogno di accorciare le distanze in tempi brevi, prima che la sua ragione prendesse il sopravvento sull'istinto.
Sarebbe bastato un attimo, una frase probabilmente, per farla ragionare e farle capire che Sana o no, loro due non avevano nessun futuro insieme. Sarebbe bastato uno sguardo per farle capire che le cose brutte che succedono nella vita non sono sempre colpa di qualcuno. Ma lui quei pensieri li aveva fatti davvero suoi?
Poteva sul serio dire a Fuka che il suo dolore non era la conseguenza delle sue azioni? Di quelle azioni dettate dalla paura di sconvolgere la vita di Sana e la sua stessa esistenza? Se solo fosse stato meno vigliacco, se solo avesse avuto meno paura di poter sporcare con le sue mani già troppo pregne di dolore la purezza di Sana, avrebbe potuto dire a Fuka che lei non aveva nessun diritto di imporre all'altra quell'ultimatum. Quell'aut aut che l'avrebbe portata per sempre lontano dalla sua vita. Inoltre rifletté sull'idea che, mentre lui correva sulla sua moto, non c'era alcuna differenza tra lui, Fuka o Gomi addirittura. Perché se Fuka le aveva imposto di scegliere tra lei e lui, Akito si rese conto di stare facendo involontariamente il suo stesso gioco: andare da Fuka, parlare con lei e intromettersi in una posizione che sarebbe dovuta essere solo di Sana, e nessun altro. Lui, che le aveva detto di non poter scegliere al posto suo, stava facendo esattamente il contrario di quanto le avesse detto solo pochi minuti prima. Allora senza nemmeno accorgersene la ragione aveva preso ormai il sopravvento e lui arrestó la sua corsa, ad un passo da casa di Fuka.
Osservò attentamente il cancello di quella casa che era davvero a pochi metri di distanza da lì e riuscì chiaramente a intravedere figure indistinte, quasi simili a macchie deformi, che si muovevano dietro il vetro delle finestre al primo piano della sua villetta. Si senti così superficiale nel ricordare le volte in chi l'aveva accompagnata a casa, nell'unica settimana passata insieme a lei, in cui non si era minimamente preoccupato di domandarle nulla, nemmeno con chi vivesse o cosa facessero i suoi. Tendenzialmente lui era sempre stato poco avvezzo alla curiosità verso le persone in generale. Tuttavia quel momento che lo riportò a qualche tempo prima, quando ancora faceva cazzate una dietro l'altra ritenendole delle idee geniali, gli fece capire che proprio dietro a quelle cazzate c'erano spiegazioni più ingombranti e che ironicamente si stavano riflettendo in quelle sagome indistinte che si muovevano dietro i vetri delle finestre di casa di Fuka.
Si sfilò il casco ed emerse con una profonda boccata d'ossigeno. Poi il cancelletto di ferro scuro di fronte a lui si aprì e lui sgranò gli occhi nel vedere proprio Fuka, in tuta e scarpe da ginnastica, saltellare sui suoi piedi non troppo convinta né tantomeno serena. Aveva due profonde occhiaie scure che facevano sembrare il suo viso invecchiato di almeno cinque anni. Quel viso così simile a lei, ma paradossalmente talmente diverso in tutti i suoi piccoli dettagli. Il viso di Fuka non si apriva come il cielo dopo la tempesta quando qualcosa la rendeva felice, né si rimpiccioliva quando invece era la tristezza o la rabbia a padroneggiare la sua essenza. Non ci trovò nemmeno un briciolo di quell'adorabile goffaggine che Sana gli aveva rivelato una delle prime volte che avevano parlato all'università, quando gli era caduta addosso e di colpo si rese conto che il viso di Fuka era completamente diverso. Che solo una manciata di lineamenti le accomunavano e si domandò come aveva fatto ad essere così stupido da confondere le due cose, da non capire subito che l'unica persona da cui lui fuggiva era solo lo spettro di se stesso e nemmeno se Fuka avesse avuto la stessa stazza di un lottatore di sumo avrebbe potuto nasconderlo dietro al suo corpo.
Si fermò un istante, in preda a quei malsani ragionamenti, ma riuscì ad accorgersi dello sguardo di Fuka inchiodato nel suo.
Era incredula, stanca e arrabbiata.
Akito osservò con una strana diffidenza le sue gambe che, a grosse falcate, si muovevano proprio nella sua direzione e attese pazientemente la sua sorte. Fuka gli si scagliò contro, dandogli una spinta così forte contro il petto che lui barcollò per un secondo. Riuscì a recuperare l'equilibrio e non si mosse dalla sua posizione, ancora a cavalcioni della sua moto.
«Non ci posso credere! Che sei venuto a fare, eh? Non ti basta quello che hai fatto?»
Hayama restò immobile e in silenzio.
«E non guardarmi con quella faccia da cane bastonato. Non ti si addice, se c'è qualcuno che qui deve lamentarsi quella sono io. Eppure mi vedi frignare?»
Lui continuò a non risponderle, proprio come aveva fatto la sera fuori al locale di John, quando Fuka si era recata lì con la speranza che le sue supposizioni fossero solo paranoie.
«E continui a restare in silenzio. Ma cosa deve succedere per farti parlare, eh? Hai distrutto la mia amicizia con Sana, la sua relazione con Shin... sei venuto a distruggere qualche altra cosa? Che so, magari volevi prendere a calci il cancello di casa mia?»
«Lei...»
«Zitto! Non provare nemmeno a difenderla. Sana potrà anche essere ingenua, ma non è una stupida e sa perfettamente di aver sbagliato. Oh cielo, mi fate così schifo voi due che se ci penso mi viene da urlare. Sai cos'è che mi dà ancora più fastidio? La tua presenza qui... ti sei investito di quest'aurea da Salvatore e sei piombato qui per dirmi che tu e la tua amata siete così innamorati che l'amore giustifica tutto. E allora io dovrei perdonarvi, perché vi amate così tanto? Scordatelo Hayama, mettitelo in testa che la tua brutta faccia è l'ultima cosa che voglio vedere.»
Gli vomitò addosso tutta la sua rabbia, Akito riusciva a vederla, quasi a toccarla. E si sentì un vile per non aver capito niente e per aver sconvolto così tanto la vita di tutte quelle persone.
«Ora, se non ti dispiace, sarebbe il caso che tu e questo rottame ve ne andiate lontano da qui. E non pensare ancora di mettere bocca in cosa che non ti riguardano perché ormai non c'è proprio più niente che tu possa fare. Dovevi pensarci prima, quando uscivi con me mentre stavi con lei...»
«Non è andata esattamente così.» rispose lui indurito, ritrovando la giusta carica per inchiodare il suo sguardo negli occhi castani di lei. E Fuka, per un secondo, tentennò.
«E chi se ne frega.» replicò poi, ricaricandosi con una nuova dose di rabbia.
«Prima, durante, dopo... fa davvero qualche differenza? Mettitelo in testa, tu sei uno che distrugge e dalla cenere non nasce più niente.» gli urlò in faccia, dandogli poi le spalle prima di potersi pentire di avergli detto quelle cose in quel modo.
Non sapeva niente di lui, in fondo, non le aveva raccontato nulla della sua vita, ma sentì di aver toccato un tasto dolente nel momento in cui il suo sguardo era diventato qualcosa di completamente sconosciuto.
Nemmeno il vento fresco che sentiva sulla faccia mentre correva sulla sua moto riuscì a risvegliarlo da quel torpore in cui era piombato dopo la visita di Sana, dopo lo scontro con Fuka, dopo la caduta libera verso le ceneri di cui parlava Fuka.
Parcheggiò la sua moto proprio accanto all'ingresso dell'Old Boy e si rese conto che John doveva essere già lì, nonostante fosse così presto.
Poi tutto successe in un lampo.
Sentì il collo della maglia stringersi alla gola in un modo troppo innaturale, ma non ebbe il tempo di verificare cosa stesse succedendo alle sue spalle perché un colpo deciso sul naso gli fece girare tutto intorno all'improvviso. Si rese conto di aver chiuso gli occhi solo nel momento in cui cercò di aprirli e quando riuscì a mettere a fuoco, Gomi aveva un'aria completamente diversa da ciò che lui ricordava.
«Brutto figlio di puttana, sei contento eh? Te la sei scopata e ora te ne vai in giro su questa fottuta moto come se niente fosse. Ti faccio vedere io, stronzo!» recitò, prima di attirarlo nuovamente a sé e colpirlo sul viso. Il suo sangue era caldo e a Gomi fece quasi ribrezzo il pensiero di aver avuto con lui un contatto così intimo.
Hayama non fiatò, in fondo era solo cenere. Quindi non si mosse perché non aveva alcun senso.
«Be' non ti difendi?» lo provocò, lanciandolo contro il muro accanto al locale, «Eppure pensavo che tu fossi uno che picchia duro.»
Gli diede un calcio, e poi lo spintonò nuovamente contro il muro.
«Ma si sa, una scopata non vale tanto, eh Hayama? Una scopata con Sana non vale niente, no?» disse di getto, cercando di prenderlo di nuovo per la maglia. Ma Akito, nonostante si sentisse cenere, pensò anche che quella cenere di cui era composto era fatta anche di una incredibile voglia di sentire la pelle di qualcun altro sotto le dita e, allora, spense il cervello.
E tutto divenne confuso, offuscato, perfino i suoni si diffondevano come se in realtà loro tutti fossero sott'acqua. Riemerse da quell'apnea grazie alla forza delle braccia di John, che lo staccarono dal corpo privo di sensi di Gomi.
John lo spinse nel locale e si precipitò subito dopo verso l'altro ancora a terra.
L'ultima cosa che ricordò fu il suono indistinto di qualcosa che andava in frantumi provenire dalla sala del suo locale.*Note d'autrice*
Buongiorno a tutti.
Volevo dirvi che il 90% delle nozioni riguardanti carceri e barbonaggi vari, sono vere. In Giappone i minorenni spesso vengono rinchiusi nelle stesse carceri degli adulti e non hanno, ovviamente, modo di avere a che fare tra loro se non durante i pasti. Purtroppo la realtà è molto più dura, ma non era necessario per la storia essere troppo realistici e andare a fondo di questa questione, e non esiste un compenso economico per i lavori svolti in prigione (questa, infatti, fa parte del restante 10 % inventato xD).
Per quanto riguarda i senzatetto, esistono davvero questi internet café nelle stazioni che offrono a chi non ha una casa fissa di poter ususfuire di bagni e docce. Così come è vero che a Tokyo ci sono 1697 senzatetto (almeno al 2017 mi pare), un numero veramente molto basso per una città con 14 milioni di abitanti. Il nostro Akito è diventato il 1698esimo per qualche mese xD.
Detto anche ciò vi ringrazio per leggere e commentare questa storia :)
Con amore
Alex

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Upside Down
Romance[COMPLETA] Inserita nell'elenco delle fanfiction "Anime e Manga - Otaku Daydreams" @WattpadFanfictionIT (https://www.wattpad.com/list/571931450-anime-e-manga-otaku-daydreams-) Dal prologo: [...]Mentre sfogliava la sezione Rock pop europeo degli ann...