Capitolo 13 ~ La vendetta è un piatto che va servito freddo

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Jess

L'intervento di Kyle era stato fissato per domani ed io non riuscivo più a stare serena da giorni ormai. L'ansia, per quanto tentassi di tenerla a bada assumendo gocce di erbe naturali, sembrava riversare i suoi spiacevoli malesseri sul mio fisico, sfogando quello stress in terribili attacchi di tachicardia e notti insonni passate a ripercorrere mentalmente i passaggi salienti dell'operazione. Sapevo di essere in grado di svolgere tutto alla perfezione, eppure il mio cuore non la smetteva di affannarsi in battiti troppo veloci per il timore di insorgere in una complicazione in sala operatoria. Kyle non era soltanto un paziente, non lo era mai stato davvero. Non avrei dovuto vederlo come l'ex fidanzato che, nella peggiore delle ipotesi, sarebbe potuto rimanere disabile per una mancata riuscita dell'intervento. Se avessi continuato a far prevalere il cuore e i sentimenti, anziché il controllo e la ragione, sarebbe stata la fine per entrambi. Mi serviva una distrazione per allentare la tensione. Qualcosa su cui concentrarmi che assorbisse tutte le mie energie. Quale modo migliore per farlo se non mettere in atto la mia vendetta contro Nowak?

Ho appuntamento nel suo ufficio tra cinque minuti ma mi aggiro già nell'atrio del palazzo tutta in ghingheri. Ho sempre pensato che la vendetta andasse eseguita con classe. Una donna deve usare tutte le sue carte per spuntarla su un uomo. Questo significa giocare d'astuzia e intelligenza ma anche sfoggiare le proprie armi di seduzione qualora sia necessario. Per questo ho indossato un vestito e messo ai piedi un paio di décolleté tacco dodici. Non volevo di certo sedurre il bell'avvocato, io. Volevo solo che capisse che non aveva davanti una ragazzina indifesa che aveva appena finito il dottorato. Bensì una donna in grado di far girare la testa a tutti gli uomini presenti nella stanza se questo fosse servito ad attirare la loro attenzione e costringerli a starla a sentire. Perciò, con una certa fierezza, esco dall'ascensore e mi avvicino alla scrivania della sua segretaria pronta a dare inizio a questa guerra disponendo delle mie migliori armi.

Mi ha raccomandato di esser puntuale e benché volessi ritardare solo per dargli sui nervi alla fine ho preferito presentarmi per tempo. «Salve, ho un appuntamento con l'avvocato Nowak. Sono la dottoressa Sullivan». Samantha solleva lo sguardo dal computer e punta i suoi occhi azzurri sul mio viso. Si lascia scappare un'espressione disappunto. Deve aver ricordato la nostra ultima telefonata e le mie minacce di assegnarmi all'avvocato Jordan, perché il sorriso che mi fa in risposta è chiaramente tirato e di pura cortesia. Ammetto di aver esagerato un tantino quel giorno per telefono, ma la sua devozione verso quel megalomane dalla dentatura perfetta mi pare davvero troppa. Come fa a sopportare i suoi modi di fare dannatamente arroganti? C'è forse andata a letto? Questo spiegherebbe ogni cosa. «L'avvocato è impegnato in questo momento. Sta chiudendo una trattativa con un grosso cliente. Si scusa per l'attesa. La riceverà appena avrà finito. Può accomodarsi nella hall intanto» m'informa monocorde. Un sorriso finto che adesso sembra nascondere astio e gelosia nei miei confronti, molto probabilmente dettati dal fastidio di essere stata inseguita dal suo adorato capo. Cristo, deve esserci andata a letto per forza! «Sta chiudendo una trattativa con un grosso cliente proprio adesso?» ripeto, fingendo di non aver capito. Ero venuta qui con l'intento di stizzirlo ma questa è un'occasione irripetibile che mi viene servita su un piatto d'argento. Tutti quei discorsi sulla puntualità e su quanto fosse prezioso il suo tempo per poi farsi attendere da me senza scrupoli? Per la seconda volta per giunta, se prendiamo in considerazione anche il nostro primo incontro. Adesso ti sistemo per le feste, mio caro avvocato!
Guizzo gli occhi da una parte all'altra dello studio, spulciando dietro le vetrate che separano ogni ufficio, finché non lo individuo in compagnia di alcune persone chiuso in quella che sembra essere una sala riunioni. «Ora che me lo dice mi sembra di intravederlo, si». Faccio la tonta e metto su un'espressione spaesata, saettando lo sguardo tra Samantha e l'avvocato. Quest'ultimo è talmente applicato e preso dal suo lavoro da non avermi nemmeno notato. Non sospetta minimamente quello che sto per fare. «È proprio lì. Nella sala riunioni al centro dello studio. Dico bene?» chiedo conferma, seppur ne sia pienamente sicura, solo per prendere tempo e distrarre la mia nemica bionda dal piano che sta prendendo forma nella mia mente. Ignara dei miei deliri mentali lei mi rivolge un'occhiata impassibile e si limita ad annuire gentilmente. Ha fatto un corso sull'autocontrollo per caso? Com'è possibile che tutti quelli che lavorano in questo studio sappiano gestire le emozioni così bene? Mi domando se sia dovuta ai tribunali che frequentano questa mancanza di empatia.
Presa da un impeto di coraggio decido di seguire l'istinto e mettere in atto la mia vendetta. Non mi fermo a rimuginare su quello che sto per fare nemmeno un secondo di più. Supero la scrivania di Samantha e cammino imperterrita verso la sala riunioni in cui è chiuso Hector. «Dottoressa dove va? Aspetti! Non può entrare lì dentro. Si tratta di un cliente molto importante. L'avvocato Nowak lavora su questo caso da più di un mese». Il ticchettio delle sue scarpe si unisce al suono emesso dalle mie, con la differenza che la sua è una corsa affannata mentre la mia una camminata verso la vittoria.
Noncurante del fatto che le sue parole accendono ancora di più i miei malefici propositi, mi strilla dietro intimandomi di fermarmi. Decido di darle ascolto ma solo quando giungo davanti alla porta di vetro che si apre sulla stanza in cui si sta svolgendo la transazione. Non appena abbasso la maniglia e faccio la mia comparsa sono gli occhi neri e gelidi dell'avvocato i primi che mi si posano addosso. Un'espressione sgomenta sul volto che non riesco bene a capire se sia dettata dalla visione del mio corpo fasciato in questo vestitino o dalla mia apparizione inaspettata. Nel dubbio direi che sia scaturita da entrambe le cose. Sgrana le palpebre e chiede spiegazioni silenziose prima a me - assottigliando lo sguardo con fare minaccioso - e poi a Samantha, che mi ha appena raggiunto e sembra intenta a inscenare un dramma in lingua dei segni con delle disperate mosse di scuse per non essere riuscita a fermarmi in tempo. Non mi curo di loro. Con passo felino entro nella stanza guadagnandomi le occhiate scrupolose di tutti i presenti. Quattro uomini e una donna, seduti attorno a un tavolo rettangolare in cui sono sparsi diversi documenti e qualche penna dall'aspetto raffinato. Si ammutoliscono all'improvviso difronte alla sottoscritta. «Salve a tutti. Scusate l'intrusione» affermo, sfoggiando un sorrisetto innocente e sbattendo le palpebre con fare angelico mentre mi avvicino al loro tavolo. Scosto una poltrona girevole situata accanto al bell'avvocato, il quale mi punta addosso i suoi occhi neri come se volesse congelarmi sul posto e impedirmi di muovermi dentro questa stanza per evitare di peggiorare le cose. Con eleganza mi siedo al suo fianco e accavallo le ginocchia, mostrando le gambe scoperte e le caviglie allungate in una mise sexy che accompagna la linea delle scarpe. Lui prende un respiro profondo e mi osserva da capo a piedi deglutendo, probabilmente catturato dalla mie movenze o più semplicemente intento a reprimere l'istinto omicida che gli sta montando dentro a seguito della mia sfacciataggine. «Sono Jessica Sullivan, lieta di conoscervi» mi presento, rivolgendo un sorriso sfrontato ai miei interlocutori, tutti intenti a ossevarmi come se fossi una pantera pericolosa scappata dallo zoo della città. Hector, tremendamente serio in volto e fumante di rabbia, mi fa segno con gli occhi e le sopracciglia di uscire di qui, senza premurarsi di nascodere il suo dissenso per le mie azioni invadenti.
Il cliente, più disturbato di lui da quest'intrusione, gli bisbiglia all'orecchio di risolvere alla svelta questa faccenda. Mentre io mi insinuo nel loro borbottare con aria innocente e occhi languidi. «Spero di non aver interrotto nulla d'importante. Continuate pure le vostre trattative. Non fate caso alla mia presenza. Io aspetterò pazientemente che l'avvocato Nowak si liberi. Abbiamo una questione piuttosto urgente di cui parlare». Soddisfatta dei loro sguardi perplessi e della maniera in cui il soggetto che sto piacevolmente torturando reagisce alle mie parole - ticchettando nervosamente la gamba sotto il tavolo e lanciandomi un'occhiata assassina - mi lascio andare con la schiena sulla spalliera della poltrona, dondolandomi compiaciuta su di essa come se avessi il controllo della situazione. A quel punto lui scatta in piedi, incapace di tollerare un secondo di più il mio atteggiamento sfacciato. Stringe i pugni, nonostante il suo viso dai tratti spigolosi non faccia una piega, e si scusa educatamente per il disagio creato. «Perdonatemi, signori, per questa brusca interruzione». Mi rivolge un'occhiata fugace prima di continuare per evidenziare che la brusca interruzione sarei io. «Vogliate scusarmi soltanto un minuto. Risolverò questa spiacevole faccenda prima di quanto crediate». Sfoggia un sorriso tirato verso di loro per poi puntarmi addosso i suoi occhi neri infuriati e farmi segno con la testa di seguirlo fuori. «Andiamo» sibila gelido.
«Dici a me?» domando indicandomi il petto, come se fossi assorta in una realtà parallela e non prestassi attenzione ai suoi richiami.
«Si, vieni con me. Adesso» ordina sottovoce. Severo e irremovibile nella sua postura composta, in piedi difronte alla mia figura minuta ma evidentemente più cazzuta di quanto si aspettasse. Non accenno a muovermi. Appoggio le mani sui braccioli della poltrona e gli lancio uno sguardo di sfida dondolandomi da una parte all'altra. Lui respira pesantemente. Lo vedo buttare fuori l'aria dalla narici. Si sforza di controllarsi davanti agli occhi dei nostri spettatori ma è chiaro che vorrebbe esplodere in una sfuriata. «Jessica la mia pazienza ha un limite» mi avverte in un minaccia che pronuncia tra i denti. Vorrei tirare la corda ancora un po' ma muoio dalla voglia di sentirlo inveire e so per certo che non lo farà in questa stanza sotto lo sguardo di tutti, per cui decido di assecondarlo e mi tiro sù con una lentezza esagerata. «Con permesso» mormoro rispettosa nei confronti dei presenti. Seguo l'avvocato fuori dalla porta fino a raggiungere un angolo appartato del corridoio, abbastanza distante dalle vetrate della sala riunioni.
«Potresti gentilmente spiegarmi cosa diavolo stavi tentando di fare là dentro?» m'interroga inferocito nonostante le sue parole denotino garbo. La mascella contratta. Il corpo rigido. Lo sguardo duro. Un'espressione indignata e spazientita che mi riversa addosso tutta la sua ira. Non posso fare a meno di scoppiare a ridergli in faccia. Tutto questo è esilarante. Soltanto due giorni fa si è permesso di inscenare un teatrino ben peggiore di questo, costringendomi ad abbandonare la sala operatoria durante un intervento delicato. Adesso ha il coraggio di chiedermi cosa stavo cercando di fare dentro quella stanza? Volevo farti imbestialire, mio caro avvocato, ecco cosa stavo cercando di fare. A quanto pare ci sono riuscita piuttosto bene.
«Non capisco perché ti scaldi tanto. Sei stato tu a dirmi di presentarmi nel tuo studio alle quattro in punto. Ho solo fatto quello che mi hai chiesto» replico tranquilla, sbattendo con fare ingenuo le lunghe ciglia truccate. Le labbra, accentuate dal rossetto di una tonalità di rosa, piegate in un sorriso esagerato che sembra non voler accennare a sparire, mettono a dura prova la sua pazienza ormai al limite della tollerabilità.
I suoi occhi neri, infuocati, mi fulminano poco prima di rispondermi. «Quello che ti ho chiesto di fare non implicava di certo interrompermi mentre stavo concludendo una fusione importante» digrigna tra i denti, sforzandosi di rimanere calmo benché ogni segnale emesso dal suo corpo lasci chiaramente intendere che vorrebbe darmi fuoco. Rivolgo lo sguardo verso l'alto e mi raggiro tra le dita una ciocca di capelli, incrociando le braccia sotto al seno come un adolescente ribelle che ignora i reclami dei genitori. Lui si passa una mano sul viso dalla carnagione ambrata, imprecando sottovoce frasi sconnesse che danno l'impressione di essere parolacce. Non è un tipo che perde il controllo facilmente, anzi direi che non lo perde affatto, ma io continuo a mettere a dura prova i suoi nervi portandolo all'esasperazione e lo adoro. «Ti rendi conto che questo non è un gioco ma si tratta di una cosa seria, Jessica?». Il modo secco in cui pronuncia il mio nome somiglia molto al tono di voce minaccioso che usa mia madre quando sta per sgridarmi. Il mio sorriso si allarga. Mi lascio sfuggire una smorfia beffarda mentre faccio sù e giù con la testa mostrandomi pienamente d'accordo con il suo discorso. «Brutto, vero? Quando stai facendo un lavoro importante e qualcuno ti interrompe bruscamente senza una valida ragione. Ti fa saltare i nervi». Sospiro teatralmente prendendomi gioco di lui. La sua espressione si fa sempre più stizzita e insostenibile. Respira rumorosamente e socchiude le palpebre sopprimendo quello che temo sia un travolgente desiderio di tapparmi la bocca nella maniera più burbera possibile. «E va bene, dottoressa, ti sei vendicata» afferma arrendevole. «Hai avuto la tua rivincita. Adesso siamo pari. Lascia che concluda la fusione e poi potremmo discutere di tutto quello che vuoi nel mio ufficio». Fa per andarsene ma io lo blocco, afferrandolo di getto per il polso. Lui si immobilizza sul posto. Pietrificato. Direi che non ama il contatto fisico a giudicare dalla rigidità che investe il suo corpo non appena percepisce la mia presa. Posa lo sguardo sulle mie piccole dita, ancora strette attorno al polsino della sua camicia, e deglutisce sommessamente mentre lo lascia risalire sul mio viso. Il modo in cui i nostri occhi si scontrano, perdendosi dentro l'intensità d'emozioni imprigionate in quello sguardo, mi affascina. C'è così tanto dolore dentro di lui. Così tanta sofferenza ancora da metabolizzare. C'è un mondo fatto di timori e fragilità tutto da scoprire. Ritraggo la mano di scatto e sbatto le palpebre per ritornare al nostro loquace scambio di battute. «Non vedo perché debba essere io quella ad aspettare e non loro. Mi sembra che nessuno in quella stanza rischi la vita. A meno che ti riferisci al fatto che l'economia del nostro paese potrebbe risentirne visto che quegli uomini hanno tutta l'aria di essere a capo di importanti aziende. Stavi proponendo una fusione, dico bene? Direi che il tipo con i baffi non mi sembrava molto sicuro dell'accordo. Potrei tornare là dentro e provare a convincerlo così che...». Interrompe il mio farneticare con una minaccia a denti stretti. «Smettila, Jessica! Ho afferrato il messaggio. Non ti disturberò più la prossima volta che sarai in sala operatoria e dovrò parlarti». Sorrido trionfante, dondolandomi sui tacchi. Sapevo che aveva bisogno di una dimostrazione del genere per imparare la lezione e ficcarsi in testa che il mondo non gira solo intorno alla visione egocentrica delle cose che ha Hector Nowak. «Adesso fai la brava e aspettami nel mio ufficio. Arriverò da te tra un paio di minuti. Preparati un tè nell'attesa, se vuoi. Fai qualunque cosa ma non ti muovere da lì finché non verrò da te» mi intima, con quell'espressione seria e irremovibile che non ammette repliche. Soffoco a fatica l'istinto di sbuffare a ridergli in faccia un'altra volta e annuisco. «Samantha» chiama lui a gran voce, chiudendo così la nostra discussione. Lei ci raggiunge all'instante con un sorriso gigantesco che è lontano anni luce dalla smorfia tirata che ha rivolto a me poco prima. «Accompagneresti la dottoressa nel mio ufficio, per favore?» le chiede gentilmente.
«Certamente avvocato» acconsente prontamente, sbattendo i suoi occhioni azzurri verso di lui come un cagnolino fedele. «Mi dispiace per lo spiacevole equivoco di poco fa. Sono mortificata» si scusa nel frattempo, rivolgendomi un'occhiata poco carina. Mica è colpa mia se non riesce a correre velocemente sui tacchi e l'ho battuta sul tempo!
«Non fa nulla» sorvola Hector, puntando le sue ammalianti iridi scure sulla smorfia che ha preso forma sulle mie labbra. «La dottoressa è un tantino capricciosa alle volte». Mi lancia una frecciatina, consapevole di come l'ultima volta che mi ha definita così abbia dato di matto. Ora che non lo tengo più per le palle mi sfotte?
«Lo consideri fatto» garantisce la bionda, invitandomi con un braccio ad andare in direzione dell'ufficio dell'avvocato.
«Ti aspetto impaziente, Nowak» affermo derisoria, sfoggiando un sorrido perfido prima di seguirla e lasciare che lui torni al suo lavoro. Pensi di potermi tenere a bada, avvocato? Ti sbagli di grosso. Ho appena cominciato a divertirmi.
«Con tutto il rispetto, dottoressa, lei non ha un briciolo di ritegno» osserva la segretaria, facendomi strada lungo il corridoio. «Di questo passo lo farà impazzire» mormora preoccupata. «Lo manda fuori di testa in continuazione. Prima disdice l'appuntamento, poi chiede di essere assegnata al suo peggior rivale e adesso fa irruzione durante una trattativa...». Elenca esasperata le mie azioni come se fossi l'unica colpevole in questa storia. Abbiamo forse dimenticato le sue soffocanti manie protettive, la sua arroganza e la sua strafottenza quando si è presentato nel mio reparto due giorni fa? «L'avvocato riesce sempre a mantenere la calma ma lei mette a dura prova i suoi nervi. Nessuno lo fa irritare tanto».
«Faccio questo effetto alle persone» ammetto compiaciuta, con un sorriso enorme sulla faccia. Lei scuote debolmente la testa con fare incredulo e arresta il passo davanti all'ufficio di Nowak. Mi apre gentilmente la porta, invitandomi a entrare. Non riesce a fare a meno di farmi le sue raccomandazioni nel momento in cui metto piede dentro la stanza. «La esorto cortesemente a non toccare nulla e non creare disordine. L'avvocato è molto rigido al riguardo. Non gli piace che si ficchi il naso nelle sue cose». Ci avrei giurato. È proprio un maniaco del controllo.
«Si figuri. Si scorderà pure della mia presenza. Mi creda sulla parola» affermo, sollevando le mani con aria innocente solo per togliermela dai piedi. Appena richiude la porta alle mie spalle e rimango da sola mi guardo attorno in cerca di guai.
Quest'ufficio è molto più grande di quanto ricordassi e possiede una vasta quantità di oggetti interessanti. Lascio cadere la borsa su una sedia e con passo furtivo mi avvio verso la sua scrivania, prendendo posto nella sua poltrona girevole. Sedersi qui è come sedersi sul trono di un re e rubarne la posizione di potere.
Tra i vari oggetti ordinati sopra il tavolo noto con piacere che possiede un impianto stereo collegato a un iPod. Spulcio tra le sue playlist di Spotify. A quanto pare l'avvocato ha gusti musicali molto affini ai miei. Gli album degli Imagine Dragons sono tra i preferiti così come le raccolte musicali di jazz, musica anni sessanta, rock di fine anni novanta e alcuni artisti contemporanei. Intenzionata a non far passare inosservata la mia presenza decido di mettere in riproduzione una canzone dei Weeknd. Una delle mie preferite: "Earned it" nella versione esplicita. Alzo il volume al limite massimo consentito dagli altoparlanti. Voglio che la musica si senta fin dentro la sala riunioni dove Hector sta chiudendo la trattativa. Se credeva davvero che rinchiudermi qui dentro sarebbe bastato a rendermi innocua si sbagliava di grosso. Le note lente e sensuali della canzone riempiono l'atmosfera di una carica energetica che si impossessa subito del mio corpo. Cauta mi tiro sù e vado verso il piccolo angolo bar allestito sulla sinistra. Riempio il bollitore elettrico e mentre aspetto che l'acqua si scaldi passo in rassegna tutti i liquori allineati dentro la vetrinetta. Curiosa li tiro fuori uno per uno e svito i tappi delle bottiglie dei whisky annusandone l'odore. Alcuni emanano un fastidioso aroma di alcol, altri un sentore di legno e affumicatura decisamente intenso. Le lascio sparpagliate sul tavolino e mi accorgo che al loro fianco vi sono quattro bicchieri di cristallo dal fondo quadrato coniati appositamente per degustare il whisky. Senza alcuna esitazione ne afferro uno e decido di immergervi all'interno una bustina di tè nero, versandovi dentro l'acqua calda. Divertita da questo colpo di testa, che probabilmente farà uscire fuori di senno l'avvocato quando lo verrà a sapere, mi aggiro per la stanza come una gatta in punta di piedi. Cammino lentamente accompagnata dal flusso delle parole seducenti della canzone. Faccio scivolare un dito sulle copertine dei libri esposti nella libreria in mogano. Accarezzo le custodie dei dischi in vinile ordinati sullo scaffale per genere musicale e ne tiro fuori qualcuno, insieme alle raccolte di volumi sui diritti costituzionali. Li lascio a giacere sparpagliati tra il divano e il tavolino finché non sono soddisfatta del disordine che ho creato. Aspetto che il mio tè si raffreddi e lo sorseggio vicino alle vetrate che affacciano sulla meravigliosa vista dei grattacieli che costernano Manhattan.
Questo ufficio mi sta dando alla testa. Si respira un'aria accattivante qui dentro. Sarà il profumo intenso dell'avvocato che ha impregnato ogni oggetto qui presente o l'odore di whisky che mi è salito fino al cervello. Mi sento fuori di me. Socchiudo gli occhi e comincio a muovermi lasciandomi trasportare dal ritmo seducente della musica. Ancheggio piano. Mi accarezzo i fianchi. Gioco con i capelli. Divertita e disinibita. Forse è vero che i tacchi donano confidenza con il proprio corpo, o forse sono semplicemente drogata di biancospino e queste ultime notti passate insonni hanno creato un cocktail micidiale di ansia e stress che mi ha spinto oltre un limite che altrimenti non avrei mai valicato. Mentre tengo le palpebre abbassate e mi lascio andare al ritmo sensuale della musica mi dimentico persino di Kyle, del suo intervento, della paura di fallire, del timore che possa succedergli qualcosa. È come se questa canzone tirasse fuori il mio lato estroverso e mi liberasse da ogni peso, rendendomi spoglia di ogni inibizione.
«Cosa sta succedendo qui dentro?». La voce calda e vellutata di Hector, accompagnata da quella del cantante, mi ridesta dal mio momento di follia spregiudicata. Spegne lo stereo e la musica cessa del tutto mentre io smetto di ballare e mi volto piano verso di lui con le iridi piene di lussuria. Lui si guarda attorno sconcertato. Tutto l'ufficio è messo a soqquadro. Nei suoi occhi balena un senso di smarrimento e confusione che viene presto eclissato dal fastidio che s'impossessa del suo sguardo non appena si accorge del bicchiere che reggo tra le mani. «Hai detto tu che potevo farmi un tè» ribatto in mia difesa. Mi appoggio di spalle alla sua scrivania e sbatto le palpebre dolcemente, mettendo sù l'espressione più innocua che possiedo.
«Ma non ti ho detto di versartelo in un bicchiere di cristallo, col rischio di bruciarti, né tanto meno di mettere in disordine il mio ufficio» confuta stizzito. Avanza dentro la stanza con passo deciso e lancia delle occhiate inorridite al caos di libri, dischi e liquori sopra il tavolo. Detesta chiaramente l'idea che abbia ficcanasato tra le sue cose e resiste a fatica all'impulso di riversare quel malessere sulla sottoscritta.
«Mi annoiavo e si da il caso che questo ufficio contenga molti modi interessanti per ammazzare il tempo» bisbiglio con sufficienza, un attimo prima di portare il bicchiere alle labbra e mandare giù un sorso di tè nero. Lui mi si piazza difronte, raggiungendomi dietro la scrivania. Lentamente arpiona le dita attorno al bicchiere e me lo sfila piano dalle mani per appoggiarlo sopra il mobile alle mie spalle. Sapevo che questa cosa l'avrebbe irritato all'inverosimile.

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