Capitolo 5 ~ Ti sorprenderò

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Kyle

Detesto questo letto. Detesto questa stanza. Voglio tornare a casa mia e rivedere il mio migliore amico. Voglio risentire la voce di Jess, averla vicina. Invece sono intrappolato qua, in questa spoglia camera d'ospedale. Solo, tra queste coperte ingombranti e questo materasso troppo grande che sembra risucchiarmi nel suo vortice di solitudine. Tremo. Ho la nausea. Il dolore al ginocchio è insopportabile, non riesco a muovermi né a dormire bene. Non trovo una posizione comoda che mi consenta di rilassarmi. Odio ogni cosa. Odio me stesso. Odio questo senso d'ansia opprimente che mi schiaccia il petto. Non conosco altro modo per liberarmi di questa fastidiosa agitazione, che mi rende estremamente irritabile, se non assumendo la morfina. Mi serve subito una dose. Sto impazzendo. Ne ho bisogno come l'ossigeno che rapido sta affluendo ai miei polmoni. Devo trovarla al più presto o sento che potrei morire senza. Ci sarà un cazzo di farmaco che gli assomigli in questo dannato ospedale, no? Devo solo riuscire a tirarmi sù da questo letto e camminare fino al mobiletto che c'è in fondo alla stanza per rovistare tra i cassetti e trovare qualcosa che mi dia sollievo. Sbuffo. Mi metto a sedere contro la spalliera rigida e scosto le lenzuola che m'ingabbiano come catene. Devo sbrigarmi ed evadere prima che qualche infermiera, o peggio mia madre, passi e capisca quali sono le mie intenzioni. Non sopporterei l'idea di leggere nel suo sguardo la delusione di scoprire ciò che sono realmente: un tossicodipendente alcolizzato e fragile. Lei crede che si tratti solo di un semplice abuso di farmaci e che non finirei mai per drogarmi davvero. Vede in me quel figlio perfetto che non sono mai stato. La stella del basket che ha conquistato i traguardi più importanti dell'NBA. La verità è che quella stella è caduta, mamma. Si è spenta poco prima di toccare terra. Vorrei solo che tu e papà ve ne accorgeste invece di farmi la predica e sperare nell'impossibile.
Mi costa una fatica immane muovermi verso la parte esterna del letto e far penzolare le gambe sul bordo del materasso. «Cazzo» impreco sottovoce. Mi fa male la gamba. Il dolore è così forte che mi spezza il fiato. Coraggio, imbecille! Devi solo metterti in piedi e placare questa sete di droga per sentirti meglio, per curare questo malessere nell'unico modo rapido e veloce che conosci quando non c'è lei ad alleviarlo. Lei che ha promesso di prendersi cura di te ma che non si fa vedere da più di un'ora ormai.
Respiro profondamente, cercando di calmare i miei battiti impazziti. Il cuore pompa così forte che lo sento ronzare nelle orecchie. Sembra voler tentare di uscire fuori dal petto, forse per trovare Jess e chiederle aiuto prima che quest'astinenza mi uccida. Socchiudo gli occhi un minuto. Mi faccio coraggio. Cerco di riacquistare la forza e la concentrazione tali che mi spingano ad agire e poi, trattenendo il fiato, mi alzo scattante. Barcollo. Riesco a fare giusto due passi e perdo l'equilibrio. Cado sul pavimento. La schiena preme a metà tra le mattonelle fredde e la struttura del letto. Un ginocchio è piegato su se stesso, l'altro sbatte contro il comodino. Merda. Merda. Merda! Grido, emettendo un brusco sospiro che non aiuta affatto a regolarizzare il respiro affannato e il dolore acuto che si sta propagando in tutto il corpo. Provo a muovermi con cautela ma non ne ho le forze. Non ce la faccio nemmeno a stendere la gamba infortunata. Mi fa troppo male. È finita. Questa volta ho esagerato sul serio. I miei legamenti già rotti pregano di non fare ulteriori danni. Urlo frustrato ancora e ancora, fino a far bruciare i polmoni e graffiare la gola. Getto la testa all'indietro. "Sei un idiota, Evans. Sei un fottutissimo idiota. Guarda cos'hai combinato!". La porta si spalanca in un attimo. Mi aspetto di trovarmi davanti i miei genitori, in preda a un altro crollo emotivo causato dalle mie precarie condizioni, o l'infermiera di turno che esasperata non sa più come tenermi a bada, invece la voce che mi arriva alle orecchie squillante e affannata è quella di Jess. «Kyle, che sta succedendo?». L'occhiata apprensiva che mi rivolge e la tempestività con cui mi raggiunge mi illudono che ancora un po' le importi di me, è solo che non sono abbastanza lucido da apprezzare quella scoperta al momento. La guardo, mentre si china sulle ginocchia per mettersi difronte a me, e mi accorgo che il desiderio di toccarla e affondare il viso sul suo collo potrebbe addirittura superare il mio disperato bisogno di morfina. «Stai bene? Cosa ci fai sul pavimento? Non dovresti azzardare movimenti del genere, potresti peggiorare le condizioni del tuo ginocchio». È così attenta e premurosa. Quando le sue dita si posano delicate sulla mia gamba per aiutarmi a stenderla ho come l'impressione che il suo tocco sia magico. Per un istante riesce a spazzare via il dolore ma poi ritorna spietato, acuto, insopportabile. «Dammi la morfina!» tuono rabbioso. «Ti prego! Non posso più stare senza». Passo nervosamente le dita tra i capelli, tirando esasperato i ciuffi biondi che mi ricadono sulla fronte. «Ne ho bisogno. Ora» sibilo disperato.
«Hai solo bisogno di rimetterti a letto» replica lei con calma. «Prova a dormire e vedrai che andrà meglio. Devi resistere solo per le prossime ore e poi questa terribile sensazione passerà. Fidati di me» garantisce.
«No! Voglio la morfina. Adesso» urlo, battendo i pugni a terra. «Solo un po' per favore. Mi basta una piccola dose» la imploro, dipingendo un pietoso ritratto di me stesso di cui mi vergogno profondamente. Un uomo adulto, devastato e spezzato, che se ne sta accucciato sul pavimento disposto persino a strisciare lungo il corridoio per avere un'altra dose di morfina.
Lei mi guarda con quel viso contrito che fatica a nascondere le sue emozioni. Vedermi toccare il fondo in questo modo la fa soffrire, lo vedo, ma è abbastanza forte da non cedere alla tentazione di assecondarmi e rimanere lucida per aiutarmi. «Non posso dartela Kyle. Lo faccio per il tuo bene. Posso solo darti qualcosa che ti aiuti a stare meglio per un po'» mormora, convincendomi a tirarmi sù con la consapevolezza che al momento mi lascerei iniettare nelle vene persino veleno pur di far tacere questa sete di droga. Con cautela prende il mio braccio e se lo mette attorno al collo. Nonostante la mia instabilità mentale mi accorgo subito di come il suo respiro cambi trasformandosi in frequenti sospiri che, nelle mie insane fantasie, mi illudo siano dettati dalla reazione che il suo corpo ha quando entra in contatto con la mia pelle. Lentamente mi aiuta a sollevarmi dal pavimento, sostenendo il mio peso nonostante la grande differenza d'altezza che c'è tra di noi. Barcollo e fatico a muovermi ma lei con pazienza e tanta dolcezza mi aiuta a sedermi sul materasso e a distendermi sul letto. Mi rimbocca persino le coperte e mi sistema i cuscini mostrandosi più premurosa di quanto effettivamente meriti. Vorrei ringraziarla ma la mia testa è un'altalena di emozioni in movimento che stravolge radicalmente il mio umore, facendomi passare da momenti di tranquillità assoluta a fasi di delirio estremo. Se un attimo prima penso a lei e la guardo assorto, l'attimo dopo tutto ciò che mi ossessiona è la morfina. «Jess sento che sto per impazzire» confesso affannato, passandomi una mano sul viso.
«Lo so, ma devi resistere» m'incoraggia, somministrandomi la siringa che ha chiesto all'infermiera di portarle. «Ci metterà qualche minuto a fare effetto. Nel frattempo pensa a qualcosa di bello che ti faccia distrarre. Magari un ricordo che ti fa stare bene» suggerisce, rimanendo in piedi accanto al letto.
«Non ci riesco. Non riesco a pensare ad altro che non sia la morfina». Sbuffo, detestandomi per essere diventato così fragile e vittima di questa dipendenza.
«I primi giorni d'astinenza sono i peggiori, ma tu devi lottare. Puoi farcela a venirne fuori. Sei più forte delle tue debolezze. So che puoi vincerla tu questa battaglia. Devi solo volerlo». La maniera in cui mi sostiene e crede in me dopo tutto quello che le ho fatto, non è altro che l'ennesimo schiaffo morale che sento schiantarsi sul mio viso.
«Sono un tossico, Jess» singhiozzo, odiandomi per essere arrivato a questo punto di non ritorno. «Non sono il viso sorridente che vedi sulle copertine dei giornali. Io sono un totale fallimento. Faccio schifo. Sono un traditore. Ho rovinato tutto. Ho fatto saltare il nostro matrimonio. Ti ho persa. Ho mandato in frantumi la mia carriera. Kyle Evans è una finzione» ammetto tristemente. «Il vero Kai è questo...». Mi poso una mano sul petto per poi lanciare uno sguardo sprezzante al mio corpo debole e ammaccato che ha perso ogni briciolo di forza. «È un tossico di merda che non riesce più a rimettere insieme i pezzi rotti della propria anima».
«Non avere una visione così negativa di te stesso. Hai commesso degli errori, è vero, ma non concentrarti su di essi adesso. Punta la tua attenzione su come puoi fare a rimediare e venire fuori da questa situazione invece di piangerti addosso».
«Posso farlo solo insieme a te» le ripeto senza indugio. «Tu sei l'unica ragione per cui sento che ne vale ancora la pena di lottare». Lascio scontrare i nostri occhi mentre annuncio quel pensiero, perché voglio che legga la sincerità racchiusa nel mio sguardo. Voglio che capisca che per lei farei di tutto, persino rimettermi in sesto.
«Non dire così, ti prego» sussurra socchiudendo le palpebre. «Io ci sto provando a starti accanto e ad aiutarti al meglio che posso, nonostante mi costi un sacrificio immane essere qui adesso, ma tra di noi le cose sono cambiate. Non puoi pretendere che io diventi ancora il tuo punto di riferimento» puntualizza. Fa male sentirglielo dire ma non ho intenzione di lasciarmi fermare da questo.
«Ma lo sei» ribadisco deciso. «Sei l'unica con cui mi sento libero di essere me stesso. L'unica di cui mi fido tanto da mostrarmi in questo pietoso stato». Lei esita a replicare, sembra logorarsi dentro vittima di qualche pensiero angosciante su cosa siamo stati e quanto male ci siamo fatti. Probabilmente sta solo pensando a una maniera gentile per dirmi che mentre lei era tutto questo per me io non facevo che buttarla giù e rubarle il sorriso. «Il nostro primo bacio» le dico allora, d'un tratto. «Prima mi hai chiesto di rievocare un ricordo che mi fa stare bene. È quello di quel pomeriggio al parco, quando ti ho baciata per la prima volta». Eravamo così piccoli e ingenui in confronto a ora. Lei aveva appena iniziato la specializzazione in quest'ospedale ed io avevo firmato il contratto con i Warriors. Sembra passata una vita da quando eravamo così innamorati e spensierati, invece sono trascorsi poco più di cinque anni da quel giorno. Siamo cresciuti adesso. Siamo cambiati. Lei in meglio, io in peggio. Ciò non toglie che potremmo tornare a essere quelli di un tempo e azzerare questo ultimo disastroso anno che ci ha tenuti lontani.
Mi fissa interdetta come se quelle parole le avessero smosso dentro delle emozioni che aveva deciso di estirpare dal proprio corpo. In lotta con se stessa, con il nostro passato, con quel sentimento che albergava nel suo cuore e che farei di tutto per rievocare. «Ce l'hai ancora la collana che ti ho regalato o te ne sei disfatta?» indago. Istintivamente si porta una mano al collo. Mi domando se sotto la maglietta non nasconda quella catenina e voglia accertarsi che non me ne accorga.
«Non mi libero mai degli oggetti che si portano dietro un trascorso importante, ma non illuderti che l'abbia tenuta per te» precisa. Abbozzo un sorriso. Non importa per quale ragione l'abbia fatto, conta solo che la conserva ancora. «Non è il momento di delirare al riguardo. Riposati un po', ne hai bisogno. Al tuo risveglio parleremo del programma riabilitativo che abbiamo stabilito insieme a tuo zio» cambia argomento nel tentativo di chiudere la conversazione e capisco che non è il caso di insistere. Il farmaco che mi ha somministrato sembra fare effetto e dovrei davvero approfittarne per recuperare le forze.
«Prometti di non lasciarmi da solo» la prego prima di assecondarla.
«Resterò qui. Devo assicurarmi che tu non abbia altre crisi». Non è la ragione per cui speravo lo facesse ma è già tanto che abbia accettato di vegliarmi, perciò abbasso le palpebre e mi lascio cullare dall'idea che qualunque cosa dovesse accadermi lei sarà qui, pronta ad aiutarmi.

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