Jess
Non sapevo che per denunciare un furto bisognasse riempire tutte quelle scartoffie. Per un attimo ho temuto che non sarei uscita da quel commissariato prima dell'alba. Di certo avere a fianco un avvocato puntiglioso come Nowak non ha velocizzato le tempistiche. Non capisco perché si ostini ad aiutarmi quando è chiaro che tra noi due non c'è alchimia.
"È meglio che abbiano anche i miei dati nel caso tu non ritrovassi il cellulare", ha ripetuto in sua difesa, quando difronte ogni mia obiezione ha insistito affinchè lasciassimo il suo numero di telefono alla polizia come contatto secondario. "E poi ho promesso a Evelyn che mi sarei preso cura di te. Devo tenere fede alla mia parola. Per non parlare del fatto che sono il tuo avvocato ed è più appropriato che mi occupi io della faccenda". Al diavolo la sua straordinaria capacità di interloquire e vincere un dibattito! E maledizione a Evelyn! Appena torno a casa gliele canto di santa ragione. Mi sarei liberata entro domani di questo bellimbusto dall'ego smisurato con la fissa di fare l'eroe, invece lei mi ha incastrato per bene. "Prenditi cura di lei" gli ha raccomandato, come se fossi una bambina da lasciare in affidamento. L'ho capito io che il suo è solo un vano tentativo di far entrare nelle mie grazie l'avvocato, peccato che stia fallendo miseramente. Temo di non riuscire a sopportare ancora per molto le sue strane manie protettive. Mi sta addosso e per quanto possa essere gentile e galante non fa che darmi sui nervi. «Aspettami qua. Ci metto un minuto» borbotto, lanciandogli un occhiataccia che gli intima di non muoversi, poco prima di entrare in ascensore. Ha insistito per accompagnarmi fin dentro l'edificio - o meglio non mi ha dato neanche modo di ribattere visto che si è precipitato insieme a me fuori dall'auto blaterando una delle sue indiscutibili scusanti - ma io sto facendo del mio meglio per scrollarmelo di dosso. «Non penserai mica di lasciarmi tutto solo in sala d'attesa!». Mette un braccio tra le porte metalliche che stavano per chiudersi e blocca i sensori per farle riaprire e passarci in mezzo. «Io detesto gli ospedali. Non mi sono mai piaciuti. Quell'odore nauseabondo di disinfettante. Il freddo che ti penetra nelle ossa. I macchinari rumorosi che sembrano scandire i minuti che ti separano dalla morte. I lamenti striduli della gente. Sembra di stare in un film dell'orrore. Non so come tu riesca a sopravvivere in un posto del genere» continua con evidente repulso. A giudicare dalla postura rigida che assume mentre si sistema al mio fianco sembra fare sul serio. Mi sorprende che un tipo come lui, così grande e grosso, si senta a disagio difronte una simile banalità. Ho l'impressione che dietro quegli occhi che vagano persi dentro lo spazio ristretto di quest'ascensore si nasconda un brutto trauma.
«Non ti ho chiesto io di seguirmi fin qui. Se provi tanto abominio verso gli ospedali tornate in auto» bofonchio, premendo con un tocco esageratamente violento il tasto per salire al terzo piano. Non l'ho mica obbligato a starmi dietro come una tata apprensiva. Per quanto mi riguarda può anche andarsene. Troverò qualcun altro disposto ad accompagnarmi.
«Sai che non lo farò» afferma scocciato, come se ne avesse le scatole piene di ribadire che il suo compito è quello di riportarmi a casa sana e salva. «Sei una mia responsabilità adesso. Non ti lascerò entrare da sola. Potresti non trovare il telefono e avere bisogno d'aiuto». Cristo Santo! Soffoco a fatica il bisogno impellente di sbottare. Io non sono sotto la responsabilità di nessuno. Non ho mica quattro anni! Gli lancio l'ennesima occhiataccia. Pensa davvero di poter avere il controllo su tutto quello che lo circonda? «A quanto pare prendi seriamente un incarico quando ti viene affidato» commento piccata.
«Sono un uomo di parola. Mantengo sempre una promessa quando la faccio» ribadisce, gonfiandosi il petto d'orgoglio. È proprio il classico altezzoso pieno di sé. Non lo sopporto.
«Non si direbbe visto che non mi hai ancora dato il numero di tuo fratello» gli rinfaccio prontamente. In fin dei conti è tutta colpa di Cesare ed Evelyn se siamo incatenati in questa sorta di patto che lo impegna a non perdermi di vista. Non potevano cenare in un tranquillo ristorante del centro piuttosto che spassarsela fuori città e affidarmi a lui?
«Non avevo mica promesso di farlo!» confuta in sua difesa. «Al telefono ti ho detto solo che sarei venuto a prenderti» mi rammenta puntiglioso. A quanto pare con lui bisogna stare particolarmente attenti alle parole che si utilizzano perché ha la straordinaria capacità di ritorcertele contro. Non oso immaginare quanto sia pignolo nell'interrogare la controparte di un caso per fare rilasciare una deposizione. Dev'essere snervante avere a che fare con la sua vasta e sorprendente capacità di linguaggio. «Non era quello che io ti ho chiesto di fare» sbuffo facendo una smorfia. Le porte davanti a noi si aprono e con passo veloce lo supero, uscendo dall'ascensore come un furetto. Non ne potevo più di stare chiusa lì dentro insieme a lui e respirare il suo profumo dannatamente forte da uomo di successo e ambizioso.
«Io ho detto che mantengo la mia parola, Jessica, non che faccio sempre quello che gli altri mi chiedono di fare» puntualizza, raggiungendomi in corridoio in meno di due secondi. Maledetto avvocato accorto e sagace con delle abilità esageratamente svillupate nel fuorviare un discorso e rivoltarlo a suo piacimento!
Mi mordo la lingua per non prenderlo a parolacce e cammino imperterrita lungo l'androne che conduce davanti all'ingresso del reparto. «Qui è riservato soltanto al personale medico» lo informo, fermandomi davanti alla porta che consente l'accesso a chi possiede il pass identificativo.
«Che problema c'è? Hai perso il badge insieme alla borsa? Chiediamo alla guardia lì in fondo di aprirci». Fa per voltarsi, indicando il povero George che è costretto a perlustrare il doppio del perimetro per assicurarsi che nessun giornalista riesca ad arrivare fin qui e raggiungere la stanza di Kyle. Già Kyle. A proposito di lui, mi piacerebbe passare a salutarlo per sapere come sta andando con la psicologa, ma con appresso una figura tanto ingombrante non credo sia il caso.
«Non ho perso il badge» chiarisco, dondolandoglielo sotto il naso. «Per fortuna era nella tasca del cappotto insieme al tuo dannato biglietto da visita. Quello che intendevo dire è che tu non puoi entrare qui dentro. Devi aspettare fuori». Appoggio il pass nel sensore e la porta si apre in automatico consentendomi il passaggio. Lui ignora deliberatamente il mio divieto e tenendola spalancata con una mano s'intrufola in reparto insieme a me. Avrei dovuto immaginarlo che non mi avrebbe dato retta.
«Col senno di poi direi che non è stato un male così grande ritrovare il mio numero di telefono» osserva, tenendo il passo mentre cammino svelta in direzione della stanza riservata al personale medico.
«Non lo so. Comincio a pensare che questa sia una sorta di punizione divina per qualche peccato che non so di aver commesso» borbotto incerta, avanzando rapidamente davanti alla scrivania delle infermiere - le quali hanno già puntato i loro sguardi maliziosi su di noi - per evitare qualsiasi domanda invadente sulla presenza del bellimbusto.
«Stai tranquilla, le brave ragazze come te non finisco all'inferno con i tipi cattivi come me» mi rassicura intanto lui, lasciandosi andare a quell'affermazione spiacevole dal tono decisamente troppo amaro. In poche parole non ha fede in Dio ed è convinto di finire all'inferno. Che modo insolito e cupo di vedere la vita. Passa le sue giornate a combattere anche per gli innocenti che subiscono delle ingiustizie e sembra avere quest'innato senso di protezione nei confronti del prossimo. Non direi affatto che una persona del genere meriterebbe l'inferno. Forse è solo deluso da tristi esperienze di vita o da sbagli commessi in gioventù. Un po' mi dispiace per lui. Nei suoi occhi neri, così straordinariamente intriganti, mi sembra di scorgere tanto dolore sepolto in profondità. «Tutti hanno la possibilitá di redimersi finché sono in vita». La butto lì mentre raggiungo il mio armadietto, come se fosse una frase fatta, ma lo credo davvero. Una parte di me non fa che ricordarmi che per lo stesso principio dovrei dare a Kyle la possibilità di riconquistarmi o quanto meno di riallacciare un misero rapporto.
Hector intanto mi guarda con una strana scintilla nello sguardo. È la seconda volta che lo fa. Sembra affascinato dalla mia visione ottimista della vita. Come se si rendesse conto che confrontarsi con me sull'argomento gli facesse bene. Prima che possa replicare con una delle sue risposte che trasudano intelligenza e arguzia, Jenna fa irruzione nella stanza con il suo modo di parlare esagitato. «Che ci fai di nuovo qui? Avevo detto a Lars di non chiamarti per la signora della stanza dodici. Se n'è già occupato il dottor Mitchell e tu hai bisogno di riposare. Nell'ultimo periodo sei troppo stressata». È bello che si preoccupi così tanto per me. Per fortuna non sono tutti antipatici come la dottoressa Evans in questo ospedale.
«Stai tranquilla. Sono qui solo per cercare il mio telefono» la rassereno. «Devo averlo dimenticato nell'armadietto». Inserisco la combinazione mentre lei sembra accorgersi soltanto adesso dell'omone che se ne sta in piedi, dietro di lei, sul ciglio della porta.
«Lui chi è?» chiede, voltandosi sorpresa nella sua direzione. Se lo mangia letteralmente con gli occhi squadrandolo da capo a piedi in maniera sfacciata, visibilmente colpita dal suo aspetto ben curato. Chissà quante volte gli sarà capitato che una donna lo guardi in questo modo, eppure a me il suo fascino sembra indifferente. Forse perché ne ho le scatole piene dei narcisisti che alla prima difficoltà pensano solo a se stessi e ti tradiscono con la puttana di turno.
"È l'ennesimo imbecille in cui mi sono imbattuta" avrei voglia di risponderle a gran voce. «Sono l'avvocato Nowak. Lieto di conoscerla» si presenta lui, con quel suo modo di fare garbato ed educato.
Intanto io infilo le mani dentro l'armadietto e sfogo tutta la mia frustrazione imprecando mentalmente contro le cianfrusaglie che vi trovo dentro. Trucchi, creme per le mani, uno spazzolino di riserva, un pettine, le cuffie, appunti, lo stetoscopio, il camice, la divisa. M'imbatto nella qualunque praticamente ad eccezione del telefono. Maledizione! Dove l'ho messo? «Era il mio avvocato» lo correggo, ignorando le pratiche di contorsionismo che sto praticando nel frattempo. «L'ho licenziato». Sbuffo esasperata, proprio quando l'oggetto dei miei desideri appare magicamente tra le mie mani. Fortuna che l'ho trovato! Do una rapida occhiata alle notifiche. C'è un messaggio di Roxy, che leggerò con calma, uno di Evelyn che ignoro perché troppo arrabbiata, e per finire in bellezza tre chiamate perse da parte di mia madre. Signore, non sono in vena di subire anche lei oggi! Lo ripongo frettolosamente in tasca e richiudo l'armadietto.
«Crede di averlo fatto ma non ha ancora capito che non si libererà così facilmente di me» rettifica lui, replicando indirettamente alle mie affermazioni mentre parla con l'infermiera. «Sono un osso duro io. Scusi il riferimento esplicito alla sua professione, dottoressa». Solleva le mani come a volersi discolpare per il gioco di parole mentre sulle sue labbra prende forma un sorrisetto allietato.
Sbruffone! Lo guardo con gli occhi ridotti a fessura. Lui ricambia con un'occhiata compiaciuta, come se fosse soddisfatto della mia silenziosa reazione. «Non sembra arrogante come l'avevi descritto» esordisce Jenna sorridendogli, ormai completamente pazza di lui. Merda! Non riescono proprio a tenere la bocca chiusa le infermiere?
«Quindi è così che mi hai definito? Arrogante» ripete. Fa sù e giù con la testa prendendosi il tempo di riflettere sull'aggettivo che gli ho affibbiato. Gli sfugge una piccola smorfia. Si accarezza il mento con le dita, strofinando l'indice e il pollice sul sottile strato di barba scura che gli ricopre la mascella. Mi aspetto che si offenda invece soppesa quelle parole e non me la dà per vinta. Riesce sempre a venirne fuori con eleganza, come se la cosa non lo toccasse minimante. «Si, direi che mi si addice» concorda, mostrandosi esageratamente altezzoso per dare ulteriore conferma alle mie insinuazioni. «So essere anche stronzo se ti interessa saperlo per aggiungerlo alla lunga lista dei miei pregi». Dio, quanto è egocentrico!
«Presuntuoso credo che sia il termine più appropriato» lo rimbecco piccata. I nostri occhi s'incrociano dando vita a un ammiccante duello di sguardi. Intensi. Accesi. Insistenti. Non esita a staccare le sue iridi nere dalle mie come se si sentisse sfidato dalla mia sfrontatezza e la cosa lo divertisse da morire.
L'infermiera ci osserva perplessa. Non appena uscirà di qui riferirà ogni cosa alle sue colleghe spettegolando sul nostro siparietto per tutta la notte, ne sono certa. «Scusate» s'intromette tossendo, quasi si sentisse a disagio difronte al nostro penetrante scambio di sguardi. «Vorrei approfittatene per dirti che la dottoressa Evans ha lasciato questo per te. Vuole che lo firmi prima dell'intervento del figlio». Allunga verso di me quello che immagino essere l'accordo di cui mi ha parlato Kristen stamattina, ma Hector glielo strappa di mano prima che io possa afferrarlo. Gli dà una rapida lettura. Il suo viso si storce in un'espressione allibita. Non oso immaginare quanti raggiri e subdole macchinazioni contenga quell'accordo. «Non ci posso credere! Ma che razza di idiozia è mai questa?». Esplode in un inaspettato sbrocco, agitando per aria il foglio di carta mentre continua a tenere gli occhi puntati sulle parole che vi sono scritte. «Non puoi addossarti una responsabilità simile per un trattamento chirurgico! Il paziente, nel momento in cui firma il modulo di consenso all'intervento, accetta l'eventualità che possano incombere rischi e complicazioni più o meno gravi che scindono dall'operato del medico. Non può far ricadere la colpa sul chirurgo nel caso in cui ci fosse una tarda ripresa postoperatoria e il recupero dell'arto non sia totale. A meno che si tratti di un vero e proprio errore d'esecuzione o di negligenza medica. Chi ha avuto il coraggio di presentare un simile accordo deve aver dormito durante le lezioni di diritto sanitario». Cerco di tenere il filo del suo discorso, visto che un'infarinatura generale sugli obblighi e le responsabilità mediche ce l'ho anch'io, avendone studiato le basi all'università, ma mi perdo nella velocità delle sue parole. Mi rendo conto che il suo linguaggio e il suo modo di esporre il suo dissenso sono una chiara dimostrazione del fatto che Evelyn non ha tutti i torti. Ci sa fare davvero. «Ma certo!» scuote la testa storcendo il muso in una smorfia mentre legge in fondo alla pagina il nome dell'avvocato che ha redatto il documento. «Solo Lewis Rochman poteva fare un simile imbroglio. Quello non ha un briciolo di onestà in corpo. Figlio di p...». Si trattiene appena in tempo per non rischiare di perdere l'aura di eleganza che lo circonda. Si ricompone. Assume un'espressione più sobria e mi guarda dritto negli occhi con quelle sue iridi magnetiche da cui sembra impossibile distogliere lo sguardo. «Non dovresti firmarlo. È solo una trappola per contestare le tue competenze, chiedere un risarcimento in caso di tarda ripresa post-operatoria e spingere una giuria a revocarti l'abilitazione alla prima occasione» spiega, tremendamente serio in volto. Immaginavo che Kristen ci sarebbe andata giù pesante, ma non posso tirarmi indietro adesso. Le ho promesso che avrei firmato qualsiasi cosa e non ho intenzione di creare altri dibattiti con lei. Kyle si fida di me ed io devo dimostrare a sua madre che quella fiducia non è infondata. Lo firmerò per lui. «Nessuno ha chiesto la tua opinione!» protesto, afferrando bruscamente l'accordo dalle sue mani.
«Sono il tuo avvocato e credo di...».
«Ti ho già detto che non sei più il mio avvocato» lo intertempo esasperata. «Quello che deciderò di fare sono fatti miei» chiarisco imbronciata. Cerco di ritrovare un briciolo di controllo e con più calma mi rivolgo a Jenna. «Grazie per avermelo consegnato di persona. Di' alla dottoressa Smith che lo leggerò e glielo farò riavere presto firmato. Ci vediamo domani, buon lavoro». Vado via incavolata, camminando con passo spedito e furioso fuori dal reparto, lasciando Hector a fissarmi con un'espressione irritata per averlo zittito.
Mi segue scaltramente ignorando l'infermiera e chiunque ci sia sul nostro cammino. Non demorde anzi continua a rincorrermi sia con i fatti che con le parole. «Con tutto il rispetto, Jessica. Tu pensa ad aggiustare le ossa rotte che degli accordi legali me ne occupo io. Credo di saperne molto di più al riguardo» afferma saccente, camminandomi a fianco. Mi strappa nuovamente il foglio dalle mani ed io gli inveisco contro. «Quanto sei presuntuoso!». Stringo i pugni. Sbuffo. Ma invece di fermarmi e stargli accanto in attesa dell'arrivo dell'ascensore prendo le scale. Sono troppo nervosa per starmene immobile ad ascoltarlo blaterale. Scendo di fretta i gradini senza nemmeno guardarlo. Sento solo la sua voce fastidiosa rimbombarmi attorno.
«Sono solo oggettivo» precisa venendomi appresso. Scende le scale più velocemente di me. Mi supera e mi parla da qualche centimetro più in basso per guardarmi dritto negli occhi. «Non puoi acconsentire a una simile stronzata. Quell'accordo non ti tutela per nulla» ribadisce esasperato. Fa le scale all'indietro pur di non perdere il contatto visivo e assicurarsi di potermi convincere. Di questo passo cadrà, batterà la testa e mi farà pure sentire in colpa per non averlo ascoltato. Come se non fosse ovvio che difronte a una simile realtà la cosa più logica da fare sarebbe rifiutarsi di firmare. Il problema è che io non posso farlo. «Lo so» borbotto, continuando a scendere imperterrita senza dare peso alla sua insistenza.
«Ottimo. Allora visto che mi sembri piuttosto sveglia e intelligente, spiegami perché ti comporti in maniera imbecille e ti ostini a volerlo firmare». Mi frena sul finire della scalinata. Il suo corpo grande e grosso mi blocca il passaggio. Le sue braccia ampie e muscolose si appoggiano tra il muro e la ringhiera, rifiutandosi di farmi passare finché non avranno una risposta chiara ed esaustiva.
Alzo gli occhi al cielo poi li lascio cadere un momento sul suo viso. Fa sul serio, cavolo! Non mi darà pace con questa storia dell'accordo. Sospiro. «Perché ho promesso che l'avrei firmato per calmare le acque e mettere a tacere i dubbi di quella psicopatica che si professa solo una madre esageratamente premurosa» sbuffo arresa. Lui aggrotta le sopracciglia nere. Ancora non capisce. Gli sembra tutto così insensato e forse lo è davvero, ma non ho bisogno che me lo ricordi. La mia vita è già incasinata di suo ed io sto ancora imparando a farci i conti.
Non appena lascia cadere le braccia lungo i fianchi lo supero e mi avvio verso l'uscita. «Non te lo lascerò fare. Ho il dovere di proteggerti» insiste senza mollarmi un secondo, anzi affretta il passo per raggiungermi nel parcheggio sotterraneo. Ha il dovere? Ma chi si crede di essere? Siamo passati da Barry Allen a Peter Parker? "Da grandi poteri derivano grandi responsabilità". Ma per favore!
«Tu non eserciti alcun potere sulle mie decisioni. Il compito che ti è stato affidato è solo quello di riportarmi a casa» gli ricordo frustrata. «Devi lasciarmi in pace!» esplodo non appena usciamo dall'edificio e ci incamminiamo tra le auto parcheggiate.
«Ecco quello che faremo». Cerca di fare il punto della situazione. Sarà anche un bravo oratore ma ha senz'altro delle grandi difficoltà ad ascoltare, visto che continua a ignorare il senso di quello che gli dico. «Domattina verrai nel mio ufficio e con calma stipuleremo insieme un nuovo accordo che ti tuteli sotto ogni aspetto e rispecchi i parametri imposti dalla legge sui diritti sanitari. Solo a quel punto, se alla dottoressa imbrogliona andrà bene, lo firmerai. Non accetto repliche al riguardo» decreta irremovibile.
«Stanne fuori Nowak, ti prego!» tuono, fermandomi davanti alla sua macchina per riappropriarmi nuovamente di quel dannato documento. Lui non me lo lascia prendere. Se lo raggira da una mano e l'altra scuotendolo per aria a un'altezza che non posso raggiungere. Imbecille! Non gliela darò vinta. «Mi chiamo Hector» mi corregge innanzitutto, con un udibile nota di fastidio nella voce. «Detesto quando mi chiamano usando il cognome in un contesto non appropriato. E questo...». Fa svolazzare l'accordo davanti al mio naso. «Viene con me. Ti manderò per email la versione rivisitata. Non ti permetterò di firmarlo prima di allora».
«Cristo! Fai sul serio?» mi lamento esausta. Perché deve essere così maledettamente testardo?
«Sei una mia cliente. Assicurarmi che i tuoi diritti vengano rispettati è una mia responsabilità» ribadisce in sua difesa.
«Ho detto che non ti voglio più come avvocato. Cos'è che non ti è chiaro di quest'ultimo punto?». Quante altre volte dovrò ripeterglielo? Perché non mi lascia semplicemente in pace? Se un paziente si rifiuta di essere curato da me lo accetto e basta, non ne faccio una questione di stato. Perché lui non riesce a fare lo stesso? È troppo orgoglioso per sopportare il mio rifiuto?
«Finché non ne avrai assunto un altro, cosa che non ti permetterò di fare, la tutela dei tuoi diritti legali spetterà a me» pattuisce contro la mia volontà. Odioso spocchioso del cavolo!
«Ridammi quel diavolo di documento e ripotarmi a casa. Ne ho abbastanza per stasera!». Lo guardo in cagnesco ma a lui sembra non importare. Resta fermo e deciso nella sua idea. Fanculo! Entro in macchina nervosa. Sbatto lo sportello. Mi accuccio sul sedile e sospiro bruscamente gettando la testa all'indietro. Abbasso le palpebre e mi massaggio la fronte con due dita per sfuggire un momento dal caos mentale che mi sta mandando al manicomio. Sono stanca. Non ce la faccio più. Troppe cose tutte insieme, tutte in un solo giorno. Ho voglia di urlare. Di piangere. Di nascondermi sotto le coperte e dimenticare tutto. «Mi dispiace» sussura lui in tono carezzevole. Apro gli occhi e me lo ritrovo accanto, sul sedile alla mia sinistra, che mi guarda intensamente con quei dannati occhi neri che sembrano terra vulcanica mescolata a polvere di stelle. Ha l'aria preoccupata. Non devo avere un bell'aspetto. «No, dispiace a me» bisbiglio cercando di darmi una calmata. Prendo un bel respiro e rilascio l'aria lentamente. Sono troppo nervosa. Lui non ha fatto che aiutarmi per tutta la serata ed io continuo a reagire malamente. Solo perché non mi sta simpatico non significa che se lo merita. «Sono solo stanca. È stata una brutta giornata. Puoi riportarmi a casa per favore?». Lo imploro quasi, con la voce ridotta a un flebile sussurro.
«Certo». Accenna un sorriso rassicurante, facendo prevalere quel lato gentile e forse anche un po' dolce che ha. «Tu riposati, io penso a guidare. Scrivimi solo l'indirizzo».
Inserisco i dati sul navigatore e mi rannicchio su me stessa contro la pelle morbida del sedile. Socchiudo gli occhi. Lui si mette in marcia e accende la radio a un volume basso. «Ti va un po' di musica leggera?». Annuisco piano mentre nell'abitacolo si diffondono le note lente di 'Next To Me ' degli Imagine Dragons. Adoro questo canzone. È una delle mie preferite. Mi aiuta a rilassarmi. Anche il modo in cui guida è piacevole, lo devo ammettere. Non frena bruscamente. Non corre troppo veloce e non va nemmeno troppo piano. È tranquillo e trasmette a me lo stesso senso di serenità. Torno ad ammirare la città fuori dal finestrino. A quest'ora della notte New York diventa magica. Le strade e i palazzi assumono tutta un'altra prosettiva. Le luci che la illuminano la rendono stupenda ed io mi lascio cullare dalla visione pacifica del panorama, dai colori che baciamo l'acqua del fiume rendendo lo skyline un quadro surreale. Sono così rilassata che quasi non mi accorgo che stiamo percorrendo la strada sbagliata. «Questa non è la direzione giusta per casa mia. Dovevi prendere l'altra via e svoltare a destra» gli faccio notare prima che si allontani troppo dalla destinazione.
«Lo so. Ho pensato che avessi fame e ho deciso di fare una piccola deviazione prima di portarti casa» mi spiega, accostandosi su un angolo della strada per fare la fila al servizio take away di un locale della zona. Ci mancava soltanto questa! Io non voglio mangiare. Io voglio dormire. «Grazie ma non ho fame» replico gentile, stavolta senza riversargli addosso le mie lamentele.
Lui gira il busto verso di me e mi osserva con più attenzione. Non se la beve. Crede che la mia sia una semplice risposta di cortesia. «Andiamo! Hai l'aria di una che non tocca cibo da questa mattina». È vero. Ho solo bevuto il tè che mi ha offerto nel suo studio e per tutto il giorno non ho avuto voglia di mangiare. L'ansia e lo stress del lavoro mi hanno guastato l'appetito e questa serata di certo non ha migliorato il mio stato emotivo. «Cosa preferisci? Una pizza? Un hamburger? Un piatto di pasta?» chiede, elencandomi tutto quello che vede impresso nel gigantesco menù luminoso davanti a nostri occhi.
«Sono intollerante al glutine e al lattosio» taglio corto, sperando che trovandosi in difficoltà non insista più di tanto.
«Allora vuoi una bistecca?» propone.
«Non amo molto la carne» ammetto facendo una smorfia di disgusto.Lui respira più forte. Sta cominciando a perdere la pazienza. Ecco che stiamo per azzuffarci un'altra volta. «Qualcosa la dovrai pur mangiare! E non mi dire un insalata perché mi sa tanto da ragazza snob e sofisticata che non ti si addice affatto» protesta, intuendo già la mia ipotetica risposta. «Che ne dici delle patatine fritte?» suggerisce tentando di corrompermi come se fossi una bambina.
«Non voglio nulla da mangiare, davvero. Grazie del pensiero. Voglio solo andare a casa» ripeto, ed è la pura verità. Non ho fame. Sono abituata a saltare i pasti quando lavoro tanto o sono stanca.
«Non ti ci porterò a stomaco vuoto!» mi avvisa, quasi fosse una minaccia.
Dio, è sempre così dannatamente dispotico? Sbuffo. Incrocio le braccia al petto e non ribatto. Tanto farà sempre di testa sua. È inutile sprecare fiato.
Non appena arriva il nostro turno abbassa il finestrino e dopo aver ordinato una quantità eccessiva di carne e contorni chiede delle patatine fritte e una bottiglietta d'acqua. Sistema tutto sui sedili posteriori e mi mette tra le mani un sacchetto di carta poco prima di immettersi nuovamente sulla strada principale. L'odore che mi arriva alla narici è irresistibile. «Assaggiane almeno una» mi prega, concentrato alla guida. Mi arrendo. È riuscito a corrompermi con il profumo di frittura. Immergo una mano dentro il sacchetto e assaggio due patatine. Sono calde e saporite. Il mio stomaco apprezza subito quel dono. «Mi lascerai davvero mangiare nella tua auto?» chiedo, gustandone lentamente un'altra. Sembra così pulita e profumata. Non credo che sia abituato a cenare qui dentro. «Dovresti sentirti onorata. Non è una cosa che concedo di fare a chiunque» conferma infatti.
«Solo alle ragazze che ti chiamano in tarda serata da un telefono pubblico per avere il numero di tuo fratello, a quanto pare» borbotto, lasciandomi andare contro il sedile mentre sto attenta a non macchiare la tappezzeria.
«Solo a quelle troppo pure di cuore che credono ancora nella buona fede del prossimo e non si rendono conto di quanto faccia pena il mondo che le circonda» rettifica lui, voltandosi un istante per regalarmi una delle sue occhiate intense. Soffoco a fatica una risata. La mia visione del mondo proprio non gli va giù. «Non dovevi» sussurro dopo un po', richiudendo il sacchetto di carta e tenendolo sulle gambe in attesa che mi venga voglia di mangiarne altre.
«Fare cosa? Comprare la cena e dividerla con te?» domanda corrugando la fronte. Gli occhi puntati sulla strada. Una mano adagiata sullo sterzo e l'altra appoggiata sul cambio che preferisce usare nella modalità manuale. Finge che non gliene importi nulla. Che il suo è stato un semplice gesto di poco conto, ma io comincio ad accorgermi che dietro quei modi di fare presuntuosi forse esiste davvero un gentiluomo di pasta antica. «È tardi. Non avrei avuto il tempo di cucinare qualcosa a casa e non mi andava di scaldare gli avanzi ho nel frigorifero. Perciò vedilo solo come l'ennesimo gesto egoista da parte mia» minimizza scrollando le spalle. Comincio a pensare che lo irriti parecchio il mio giudizio negativo, ecco perché allude all'egoismo.
«Perché sei così gentile con me?» domando perplessa, studiando la sua espressione per cercare di captare al meglio i suoi pensieri. Lui non si lascia scrutare facilmente. Assume uno sguardo neutro, impossibile da decifrare.
«Perché non dovrei esserlo?» obbietta, il tono pacato e basso che rende il tragitto più piacevole. Probabilmente non gli darò mai la soddisfazione di sentirmelo dire ma ha una bella voce. Mi piace ascoltarlo parlare quando non ha da ridire su qualcosa che mi riguarda.
«Perché non facciamo che battibeccare» replico di getto, sottolineando l'ovvietà.
«Non mi capita tutti i giorni di trovare qualcuno disposto a remarmi contro come fai tu. Mi tieni testa. È...insolito» ammette. Sembra intrigarlo parecchio la cosa. Quindi è per via del suo orgoglio che viene deliberatamente sfidato dalle mie parole se non vuole mollarmi?
«E questo non ti fa innervosire? Perché io confesso di avere avuto voglia di strangolarti parecchie volte stasera» rivelo, ripensando a tutte le volte che mi ha fatto incavolare. Lui sorride di sbieco. Distoglie un istante gli occhi dalla strada per guardarmi. Chissà cosa nasconde quello sguardo impenetrabile. «Vuoi sapere se mi fai innervosire?» chiede divertito. «Ti conosco da appena un giorno e hai praticamente mandato in cortocircuito il mio sistema nervoso almeno una decina di volte ma no, non sono arrivato al punto di volerti strangolare, soltanto di volerti zittire con delle patatine fritte». Sorrido. È bello, in fondo, sapere di averlo irritato a dovere.
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Cracked
RomanceLa storia è una sorta di spin off di Death Stalker, ma vi consiglio di leggerla in contemporanea agli aggiornamenti di quest'ultima poiché alcuni capitoli sono collegati tra di loro. La trama verrà postata a breve.