Capitolo tredicesimo

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Pov Daniel

Dopo aver rubato l'ennesimo bacio a Helen, davanti alla soglia della sua cabina, e averla supplicata invano affinché mi lasciasse entrare dentro (ero totalmente dimentico della presenza delle sue compagne di viaggio) mi recai ai miei alloggi, con tutta l'intenzione di crollare nel mio letto soffice e farmi una bella dormita. Una di quelle che non facevo da giorni, essendo troppo impegnato a pensare a Helen o ubriaco fradicio. In alcune notti entrambi i casi.

Aprii l'uscio con cautela, conscio che se mi avessero colto con le mani nel sacco a sgattaiolare per la casa in piena notte mi avrebbero riservato una ramanzina degna di Marguerite, la povera madre di Angelique. E un po' anche madre mia.

Cercai di muovermi nei punti in cui il legno scricchiolava di meno (seppur fosse coperto dalla moquette faceva comunque un bel fracasso), e raggiunsi finalmente la mia camera senza destare nessuno dai propri sogni.

O quasi.

La persona in questione stava in piedi in mezzo alla mia stanza, con le braccia incrociate al petto. Era evidente che non l'avevo svegliata, perché indossava ancora la veste di cameriera da indossare durante il giorno, quindi era impossibile che si fosse cambiata in quell'intervallo di tempo in cui attraversavo il soggiorno.

Angelique.

Appena la vidi ebbi un ingiustificato moto di sensi di colpa, ma appena i nostri sguardi si incontrarono non potei più pensare altro, perché le sue labbra s'incollarono alle mie.

Per un lungo, interminabile, secondo rimasi sconcertato e immobile, poi, dopo essermi reso conto di ciò che stava accadendo, la respinsi, staccandomi da lei velocemente.

Che ci faceva nella mia stanza?

"Daniel?" mormorò, sorpresa.

"C'è qualche problema?"

Oh, eccome se ce ne sono.

Mi scrollai la sua mano dal mio braccio, che aveva reagito al suo tocco con la pelle d'oca. Ma non era provocata dall'eccitazione, piuttosto dal rimorso.

"Devi andartene" le ordinai, cercando inutilmente di sembrare gentile.

Lei indietreggiò di un passo, e così potei vederla bene in viso.

Aveva delle pesanti occhiaie che le incorniciavano gli occhi chiari e perfetti, e le guance, di solito rosee, erano pallide.

"Perché?" chiese, puntando i piedi.

Sbuffai infastidito. Non avevo minimamente voglia di sopportare le sue storie, e tutte le insistenze massacranti che mi stava ponendo mi mandavano su tutte le furie.

"Fino a qualche giorno fa eravamo amanti, adesso non so più cosa siamo... non mi guardi nemmeno in faccia!" mi girai verso il comò "... ehi! Ascoltami, per favore!" non stava urlando, ma la sua voce mi giungeva come un potente sibilo.

Non mi girai, perché non avevo il coraggio di dirle che avevo trovato un'altra e che lei non mi serviva più.

Ero un vigliacco, lo sapevo, ma sapevo anche che quel momento sarebbe arrivato.

Mi voltai di nuovo, guardandola negli occhi.

Aveva le lacrime che lottavano per uscire, ma lei, fermamente, le respingeva.

"Non possiamo più essere amanti" sussurrai, cercando di calmarla con il mio tono tranquillo, anche se tranquillo non lo ero affatto.

Lei, credo, si aspettava di tutto fuor che quello che avevo detto.

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