Capitolo 1: Arya

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Io non so cosa significhi perdonare. Non lo so ora, non lo sapevo quando sono salita su quell'aereo.
Non lo sapevo, guardando i nomi delle città sul tabellone delle partenze. Dovevo solo sceglierne una. Cosi a caso, magari chiudendo gli occhi e puntando il dito. Ma in quel momento non ero affatto in vena di giocare, cosi decisi non per la via più lontana, ma per quella più facile.
Ero scesa alla prima fermata dopo Phoenix. Col treno non mi sarei allontanata cosi tanto, ed io volevo andare lontano, dove nessuno mi avrebbe mai trovata.

E cosi avevo scelto; Denver dista soltanto due ore da Phoenix, in aereo. Il Colorado. Non l'ho mai visitato, dev'essere affascinante.

Avrei dovuto chiamare mia madre, prima di mettere piede sull'aereo che mi avrebbe portato lontana da lei e da tutto quanto.
Avrei... avrei dovuto fare tante cose.
Non sono riuscita a farne neanche mezza.

Ma ora sto bene.
Ora sono una nuova Arya. Un pò difficile da riconoscere. Persino io a stento ci riesco.
Ma credo che sia stato il metodo più efficace.

Ricordo di aver visto Gossip Girl un sacco di volte; quando uno dei ragazzi aristocratici aveva un problema, o semplicemente c'era qualcosa da cui voleva nascondersi, prendeva un jet privato e scappava via, lontano da tutti quanti.
Ecco, io sono esattamente come uno di quei ragazzi. Con meno soldi, con meno eredità, ma sono fuggita esattamente come loro. 

Qualcuno ha voluto scambiare il mio gesto per una fragilità temporanea, per un capriccio adolescenziale.
Qualcuno mi ha addirittura giudicato.
Ma mai nessuno ha provato a mettersi nei miei panni, e a considerare l'idea di assaggiare almeno in parte, tutto il dolore che ho provato.
Tutto quel dolore che mi ha trascinata a fondo, rendendomi incapace di intendere e di volere.
Perchè il dolore fa questo, no? Lo si legge nei libri, lo si vede nei film; ti distrugge... letteralmente.
Logora l'anima, la corrode.

Si manifesta in maniera differente in base all'essere umano. Ognuno soffre a modo suo. Ognuno è libero di soffrire quanto vuole, quando vuole e come vuole. Non ci sono regole, non ci sono limiti.
Dipende esclusivamente dalla forza di volontà della persona stessa, nel voler tornare alla normalità, di escludere l'inverno interiore e di far tornare a splendere il sole.

Io il mio sole non l'ho ancora trovato, ma sto meglio. Cerco un sorriso dove trovo conforto, ne faccio tesoro e lo conservo come il mio miglior gioiello.

Ed ora, di gioielli, ne ho ben due.
Sono un pò rozzi, un pò ammaccati. Ma sono gli unici che ho.
Si chiamano Dane e Leslie.
Entrambe due bionde da paura, una con i capelli lunghi, l'altra con i capelli corti.

Dana è ricca, figlia di due avvocati penali, con un conto in banca praticamente stellare.
Lei è stata la prima che ho conosciuto; ero appena arrivata a Denver, e lei era seduta al bancone di un bar.
Aveva una lunga coda bionda, tenuta su da un fiocco rosso in velluto. Indossava una camicia a quadri arancione e blu, aperta su una canotta bianca. Sorseggiava un drink, con le gambe accavvalate e fasciate da stretti jeans blu scuro. L'affiancai, ci guardammo e ci sorridemmo timidamente a vicenda. Ordinai un drink e subito dopo stavamo già facendo conversazione.

Mi raccontò di sè, della sua vita, dei suoi studi. Mi disse subito di voler diventare una veterinaia. E che le sarebbe piaciuto avere un cane, se solo la sua ragazza non ne avesse avuto paura.
E a mia volta le raccontai delle mie disgrazie, partendo sin dall'inizio. Non seppi mai perchè mi fidai cosi ciecamente di una sconosciuta da raccontarle per filo e per segno tutta la mia vita, senza escludere nulla. Fose ero cosi disperata, magari ai suoi occhi lo apparivo sul serio, perchè mi ascoltò attentamente, trattenendo persino il fiato nei momenti peggiori. Raccolse le mie lacrime, e dopo avermi pagato il drink, mi prese per mano e mi portò nella sua immensa casa. Ero un cucciolo randagio, che lei aveva preso dalla strada per poterlo accudire con amore.

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