Canto trentunesimo

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1
Che dolce più, che più giocondo stato
saria di quel d'un amoroso core?
che viver più felice e più beato,
che ritrovarsi in servitù d'Amore?
se non fosse l'uom sempre stimulato
da quel sospetto rio, da quel timore,
da quel martìr, da quella frenesia,
da quella rabbia detta gelosia.

2
Però ch'ogni altro amaro che si pone
tra questa soavissima dolcezza,
è un augumento, una perfezione,
ed è un condurre amore a più finezza.
L'acque parer fa saporite e buone
la sete, e il cibo pel digiun s'apprezza:
non conosce la pace e non l'estima
chi provato non ha la guerra prima.

3
Se ben non veggon gli occhi ciò che vede
ognora il core, in pace si sopporta.
Lo star lontano, poi quando si riede,
quanto più lungo fu, più riconforta.
Lo stare in servitù senza mercede
(pur che non resti la speranza morta)
patir si può: che premio al ben servire
pur viene al fin, se ben tarda a venire.

4
Gli sdegni, le repulse, e finalmente
tutti i martìr d'amor, tutte le pene,
fan per lor rimembranza, che si sente
con miglior gusto un piacer quando viene.
Ma se l'infernal peste una egra mente
avvien ch'infetti, ammorbi ed avelene;
se ben segue poi festa ed allegrezza,
non la cura l'amante e non l'apprezza.

5
Questa è la cruda e avelenata piaga
a cui non val liquor, non vale impiastro,
né murmure, né imagine di saga,
né val lungo osservar di benigno astro,
né quanta esperienza d'arte maga
fece mai l'inventor suo Zoroastro:
piaga crudel che sopra ogni dolore
conduce l'uom, che disperato muore.

6
Oh incurabil piaga che nel petto
d'un amator sì facile s'imprime,
non men per falso che per ver sospetto!
piaga che l'uom sì crudelmente opprime,
che la ragion gli offusca e l'intelletto,
e lo tra' fuor de le sembianze prime!
Oh iniqua gelosia, che così a torto
levasti a Bradamante ogni conforto!

7
Non di questo ch'Ippalca e che 'l fratello
le avea nel core amaramente impresso,
ma dico d'uno annunzio crudo e fello
che le fu dato pochi giorni appresso.
Questo era nulla a paragon di quello
ch'io vi dirò, ma dopo alcun digresso.
Di Rinaldo ho da dir primieramente,
che vêr Parigi vien con la sua gente.

8
Scontraro il dì seguente invêr la sera
un cavallier ch'avea una donna al fianco,
con scudo e sopravesta tutta nera,
se non che per traverso ha un fregio bianco.
Sfidò alla giostra Ricciardetto, ch'era
dinanzi, e vista avea di guerrier franco:
e quel, che mai nessun ricusar volse,
girò la briglia e spazio a correr tolse.

9
Senza dir altro, o più notizia darsi
de l'esser lor, si vengono all'incontro.
Rinaldo e gli altri cavallier fermarsi
per veder come seguiria lo scontro.
- Tosto costui per terra ha da versarsi,
se in luogo fermo a mio modo lo incontro -
dicea tra sé medesmo Ricciardetto;
ma contrario al pensier seguì l'effetto:

10
però che lui sotto la vista offese
di tanto colpo il cavalliero istrano,
che lo levò di sella, e lo distese
più di due lance al suo destrier lontano.
Di vendicarlo incontinente prese
l'assunto Alardo, e ritrovossi al piano
stordito e male acconcio: sì fu crudo
lo scontro fier, che gli spezzò lo scudo.

11
Guicciardo pone incontinente in resta
l'asta, che vede i duo germani in terra,
ben che Rinaldo gridi: - Resta, resta;
che mia convien che sia la terza guerra: -
ma l'elmo ancor non ha allacciato in testa
sì che Guicciardo al corso si disserra;
né più degli altri si seppe tenere,
e ritrovossi subito a giacere.

12
Vuol Ricciardo, Viviano e Malagigi,
e l'un prima de l'altro essere in giostra:
ma Rinaldo pon fine ai lor litigi;
ch'inanzi a tutti armato si dimostra,
dicendo loro: - È tempo ire a Parigi;
e saria troppo la tardanza nostra,
s'io volesse aspettar fin che ciascuno
di voi fosse abbattuto ad uno ad uno. -

Ludovico Ariosto - Orlando furiosoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora